www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 11-03-09 - n. 264

Recensione all'ultimo libro di Losurdo, Stalin - Storia e critica di una leggenda nera, inviata dall’autore
 
http://lamacchinamondiale.blogspot.com/ - Pubblicato su Contropiano Anno17 - N° 1
 
Stalin e l'Occidente liberale tra rimozioni e miti
 
di Leonardo Pegoraro
 
Vien da pensare al ritratto di Robespierre quale mostro genocida, tracciato in modo concordante - nella Francia del 1794 - dai suoi oppositori di sinistra (i babeufiani) e di destra (i termidoriani). Solo che ora sono gli "antistalinisti comunisti" (più o meno trockijisti e chrusceviani) e gli "antistalinisti liberali" a ritrarre il successore di Lenin come un «enorme, cupo, capriccioso, degenerato mostro umano». Di conseguenza, come Hannah Arendt elabora il concetto di totalitarismo e il connesso teorema delle affinità elettive tra Stalin ed Hitler, Trockij ricorre dal canto suo alla categoria di «dittatura totalitaria», distinguendo nell'ambito di questo genus tra la species «stalinista» e quella «fascista» (e soprattutto hitleriana). E pensare che Stalin, prima della scoppio della Guerra fredda e soprattutto del Rapporto Chruscev (1956), poteva godere di rispetto o addirittura di apprezzamenti persino tra le file dei suoi nemici, quali Churchill, la stessa Arendt o Bobbio da una parte e, dall'altra, il trockijsta Deutscher!
 
È da queste premesse, sostiene Domenico Losurdo, che dovrebbe prendere le mosse un'analisi equilibrata della figura dello statista russo (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008, pp. 382, euro 29,5, con un saggio di Luciano Canfora). Losurdo si propone anzitutto di smontare gli stereotipi e i luoghi comuni eretti dalla storiografia oggi dominante a verità indiscutibile. Lo storico che si trova di fronte ad atteggiamenti manichei quali la demonizzazione o l'apologia di Stalin, infatti, dovrebbe preoccuparsi di prendere le distanze da entrambi piuttosto che propendere per l'uno o per l'altro. Da qui la necessità epistemologica, più volte ribadita in questo libro, di ricorrere ad un approccio comparatistico a tutto campo.
 
Nell'analizzare uno dei luoghi comuni più duri a morire, quello del «culto della personalità», ad esempio, Losurdo si chiede: ma se Stalin è davvero vanesio e affetto da tali manie narcisistiche come spiegare il suo rifiuto, a conclusione della Grande guerra patriottica, del titolo di «eroe dell'Unione Sovietica»? Rimossa dalla storiografia dominante è poi la sua volontà, a differenza di Truman e Churchill, di rifuggire ogni «enfasi retorica [.] in occasione della conferenza di Potsdam». E nonostante autori liberali quali Giovanni Sartori si ostinino a parlare di leninismo-stalinismo, dà poi da pensare il fatto che Stalin risponda in malo modo a chi, come Kaganovic, gli proponeva di istituire questa nuova categoria («vuoi paragonare il cazzo con la torre dei pompieri»!). La necessità della comparatistica, del resto, non può risparmiare gli Stati Uniti di F.D. Roosevelt. Con lui, a detta almeno dei suoi avversari, a causa del largo abuso del potere esecutivo «totalitarismo e culto della personalità avevano attraversato l'atlantico»: «ciò avviene in occasione della Grande crisi (allorché a pronunciare l'atto d'accusa è in particolare l'ex presidente Hoover) e soprattutto nei mesi che precedono l'intervento nel secondo conflitto mondiale (allorché il senatore Burton K. Wheeler accusa F.D. Roosevelt di esercitare un "potere dittatoriale" e di promuovere una "forma totalitaria di governo")». Non a caso «la gente della strada» guarda «a lui "quasi come si guarda a Dio"» e spera «di poterlo un giorno collocare "nel Pantheon degli immortali, accanto a Gesù"».
 
Tuttavia, tiene a precisare subito Losurdo, la personalizzazione del potere e il culto della personalità si presentano «solo in forma embrionale nella Repubblica nordamericana, protetta dall'oceano da ogni tentativo di invasione e con alle spalle una tradizione politica ben diversa da quella della Russia». Ciò ci fa capire che utilizzare correttamente un approccio comparatistico non significa solo ed esclusivamente analizzare un fenomeno storico secondo diversificati parametri spazio-temporali, cioè a dire in differenti periodi storici e in più paesi. C'è di più: occorre tenere in considerazione quali sono le condizioni oggettive in cui versa il paese in esame, dal momento che «è metodologicamente scorretta una comparatistica che mette a confronto una condizione di normalità e uno stato acuto d'eccezione».
 
Se dunque la consueta comparatistica, tutta impegnata a costruire il «mito dei mostri gemelli» tramite la «reducio ad hitlerum» di Stalin, si ostina ad evidenziare esclusivamente le analogie tra l'esperienza stalinista (e, per sineddoche, del comunismo nel suo complesso) e quella nazista, Losurdo inserisce nel dibattito storico ciò che definisce il «Terzo assente», ossia l'Occidente liberale. Il risultato di questa operazione risulta del tutto inaspettato se si passa in rassegna una ricostruzione storica comparata dell'universo concentrazionario. Si scopre cioè che se a caratterizzare il Gulag è la despecificazione su base politico-morale, a caratterizzare il Lager tedesco e in parte anche quello statunitense (si pensi agli americani di origine giapponese fatti deportare da F.D. Roosevelt nei campi di concentramento fino addirittura al 1948) è invece la despecificazione su base naturalistico-razziale. Se cioè, scrive Losurdo, «il detenuto nel Gulag è un potenziale "compagno" [la guardia era tenuta a chiamarlo in questo modo] e dopo il 1937 [l'inizio del biennio del Grande terrore che segue l'assassinio di Kirov] è comunque un "cittadino", il detenuto nel Lager nazista è in primo luogo l'Untermensch, segnato per sempre dalla sua collocazione o degenerazione razziale». In altre parole, mentre il Gulag sovietico non esclude la possibilità di salvezza o persino di promozione sociale, all'ebreo nel Lager nazista, come per lungo tempo al nero schiavizzato nel Sud degli USA, non è offerta alcuna via di fuga o di emancipazione.
 
Ciò, sia chiaro, non significa affatto esimersi dal condannare l'universo concentrazionario sovietico. Ma volendo istituire un paragone tra le diverse esperienze concentrazionarie, l'analogia sembra più pertinente non già tra il Gulag sovietico e il Lager nazista, bensì tra quest'ultimo e l'universo concentrazionario coloniale. E' dunque l'Occidente liberale e non certo l'URSS a ricorrere ad una categoria, quella di razza, che è centrale nel discorso nazista: negli USA «i giapponesi sono bollati in quanto "subumani" [.] E a questo discorso siamo di nuovo ricondotti allorché vediamo F.D. Roosevelt accarezzare l'idea della "castrazione" da infliggere ai tedeschi"». Non a caso Stalin dichiara, sulla scia di Lenin, l'esigenza di mettere sullo stesso piano «bianchi e negri, europei e asiatici», «"civili" e "non civili"», mentre Churchill celebra nello stesso periodo la superiorità del «popolo bianco di lingua inglese (white English-Speaking people)». O ancora, se il dirigente dell'URSS descrive il Primo conflitto mondiale e la società liberale e borghese che l'ha generato come un «sanguinoso massacro» e uno «sterminio di massa delle forze vive dei popoli», Churchill afferma invece con entusiasmo che «la guerra è un gioco nel corso del quale si deve sorridere».
 
A leggere l'ultimo libro di Losurdo si apprende molto non solo della storia dell'URSS staliniana ma anche della pochezza dell'ideologia liberale oggi dominante. Nel celebrare la propria infinita superiorità morale, questa sembra voler assimilare i "mostri del totalitarismo" anzitutto per rimuovere i lati più oscuri e imbarazzanti della propria storia.