www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 15-05-09 - n. 274

da Calendario del Popolo, maggio 1949
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
22 maggio 1939: Patto d'Acciaio
 
Una maschera di pace per nascondere la guerra
 
Il 22 maggio 1939 a Berlino, Ciano e Ribbentrop firmavano il patto di alleanza militare fra l'Italia fascista e la Germania nazista. La seconda guerra mondiale era ormai alle porte, resa inevitabile dalle ripetute aggressioni degli stati fascisti e dalla acquiescenza verso di esse delle potenze occidentali, Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti.
 
Per ingannare i popoli
 
Se per un istante solo rievochiamo l'immensa quantità di lutti e di rovine che quel patto doveva significare per il nostro paese e per il mondo intero, e bene ricordare contemporaneamente quale fosse la maschera pacifica con cui anche allora si cercava di ingannare i popoli e primo fra tutti il popolo italiano, che di quell'inganno ha dovuto poi scontare le conseguenze, con i suoi figli morti e le sue città distrutte.
 
Anche allora si trattava di salvare la pace dal comunismo. Il giorno della firma Hitler telegrafava a Mussolini: «Sempre assieme per assicurare una pace fondata sulla giustizia», e le sue parole venivano riportate con enorme risalto da tutti i giornali fascisti, per ordine espresso del Minculpop. Ma il patto, che vollero pomposamente chiamare di acciaio, impegnava l'Italia a entrare in ogni guerra in cui la Germania fosse impegnata; si disse allora che questo potente blocco di forze avrebbe spaventato i nemici e avrebbe impedito loro di scatenare la guerra. Il Popolo d'Italia scrisse infatti, il 24 maggio: «Ci si comincia a convincere della formidabile potenza creata in Europa da Hitler e da Mussolini. Bisogna ora convincersi che contro questa volontà tutte le coalizioni demobolsceviche sono destinate ad infrangersi».
 
Bersaglio: il comunismo
 
Il patto di Berlino non era che l'ultimo di una serie di patti con cui Hlitler mirava ad imporre in tutto il mondo il dominio della "razza tedesca" e deI suo regime. Oggi questo è noto a tutti: lo riconoscono pubblicamente anche coloro che in Inghilterra, in Francia e in America allora facevano finta di non accorgersene. Ma non tutti vogliono ricordarsi che ogni volta che Hitler, e i suoi alleati di Tokio e di Roma, facevano un passo avanti sulla strada che doveva portarli a dominare il mondo, si giustificavano sempre dichiarando che essi agivano per combattere l'Unione Sovietica e il comunismo.
 
Quando Germania e Giappone costituirono il blocco imperialista ed aggressivo, il 25 novembre 1936 (l'Italia vi aderiva esattamente un anno dopo), lo chiamarono «patto anticomintern». In esso si dichiarava che i membri erano impegnati a lottare «contro coloro che, all'interno o al di fuori dei loro paesi, agivano direttamente o indirettamente in favore dell'Internazionale Comunista».
 
Le parole di Hitler
 
Tre giorni dopo la formazione diplomatica di questo famoso triangolo Roma-Berlino-Tokio, in un discorso a Monaco, Hitler così definiva gli scopi «pacifici» del patto: «Tre stati si sono uniti. Prima l'asse europeo, adesso il grande triangolo mondiale. Io sono convinto che i tentativi del nostro vecchio avversario (il bolscevismo) per turbare la pace saranno per esso sempre più difficili, man mano che la coesione del nostro triangolo si rafforzerà». Se la memoria degli uomini non fosse a volte troppo corta quante dichiarazioni degli uomini di governo italiani e americani di oggi risulterebbero integralmente copiate da quelle parole di Hitler.
 
Un giornale americano molto autorevole e notoriamente reazionario, il Washington Post, se ne è accorto in questi giorni e ha pubblicato una vignetta in cui il drappello degli «atlantici» marcia guidato dal fantasma del Fúhrer, che porta una bandiera su cui è scritto: «Una forte Germania è il miglior baluardo contro il comunismo».
 
Questo motto, che fece la fortuna di Hitler, rappresentò negli anni fra i due conflitti mondiali il più grave pericolo per l'umanità tutta. L'incoraggiamento allo sviluppo aggressivo della potenza tedesca, da parte delle potenze occidentali, che speravano di indirizzarla contro lo stato sovietico, culminò nel 1938-39, all'epoca del patto di Berlino, in una serie di veri e propri delitti che incoraggiarono il Fúhrer a insistere nelle sue avventure militari.
 
Le mire degli occidentali
 
Fin dalla vittoria della Rivoluzione di Ottobre la politica dei circoli dirigenti occidentali verso la Germania fu dettata dall'esigenza di creare un forte stato capace di costituire il reparto di urto per una guerra antisovietica; lo stesso Hitler, finché si presentò al mondo come il possibile leader di tale crociata, godette della loro piena simpatia. Il tradimento di Monaco che precedette di pochi mesi la firma del patto italo-tedesco ne fu l'esempio più clamoroso.
 
Ma allo stesso «patto d'acciaio», quali furono le reazioni delle potenze occidentali? I documenti del ministero degli Esteri tedesco, pubblicati a Mosca un anno fa, ne danno una idea sufficientemente chiara. Inglesi e francesi, che stavano conducendo da tempo con pochissima serietà trattative per un'alleanza con l'U.R.S.S., si guardarono bene dal sollecitarne la conclusione; continuarono invece a tentare approcci con Hitler nella speranza di concludere con lui un accordo che lo impegnasse a rivolgere i suoi sforzi bellici contro l'Unione Sovietica. Il giorno dopo la firma di Berlino l'autorevolissimo giornale inglese Manchester Guardian scriveva che l'alleanza con l'U.R.S.S. doveva essere conclusa, ma solo per permettere all'Inghilterra di essere talmente forte da poter concludere con Hitler un accordo.
 
Rinasce il "patto d'acciaio"
 
A pochi anni di distanza quelle tesi hanno ripreso ad occidente tutta la fortuna di cui esse godevano una volta. Nel quadro del Patto atlantico e del Piano Marshall la potenza tedesca rinasce più minacciosa che mai. Una conferenza degli stati occidentali ha deciso di abolire gli accordi di Potsdam, di rimettere in piena funzione le industrie belliche che dovevano essere smantellate, e di riportare la produzione al livello del '36. Il fantomatico alfiere della vignetta del Washington Post sorride soddisfatto e accelera il passo alla testa dei suoi nuovi seguaci atlantici. Ma essi forse non ricordano un altro particolare: quel fantasma ha già fatto una volta la più miserevole fine fra le rovine fumanti della sua superba Cancelleria.
 
Giuseppe Boffa