www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 27-05-09 - n. 275

da Calendario del Popolo, marzo 1949
trascrizione a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
 
Repubblica Democratica fondata sul lavoro
 
Il senatore Terracini ricorda l'art. l° della Costituzione
 
di Umberto Terracini
 
Nella sua seduta del 22 marzo 1947 l'Assemblea Costituente approvava l'articolo primo del nuovo statuto repubblicano. E, scolpendone la forma lapidaria, dettava a se stessa - oltre che al nuovo Stato - la norma fondamentale cui adeguare tutta l'ispirazione dello storico documento.
 
«L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».
 
Confluiscono qui le più lontane e le più recenti conquiste del pensiero e delle lotte umane per il progresso: le acquisizioni - da lungo tempo trasfuse in istituti e consuetudini - della rivoluzione borghese evertitrice, sul piano politico, dei privilegi e delle disuguaglianze; e le rivendicazioni -. ancora tenacemente contestate - di quell'altra rivoluzione dei lavoratori che, per vie spesso anche pacifiche, va trasformando con forza crescente, sul piano economico e sociale, i rapporti fra gli uomini.
 
Ma, mentre le prime parole - l'Italia è una Repubblica democratica - che definiscono istituzionalmente lo Statuto così coma risorto dalle rovine della guerra nefasta, accertavano una situazione ormai realizzata e fatta sicura per legge - il referendum del 2 giugno 1946 - le successive - "fondata sul lavoro" -esprimevano per intanto ancora solo una convinzione a realizzare la quale non si offrivano però immediatamente gli acconci strumenti legali.
 
Oggi, a distanza di due anni, dinanzi alle aspre e rinnovate lotte che i lavoratori si vedono imposte per difendere con i loro organismi di classe e categoria, le stesse esigenze elementari di vita; dinanzi all'atteggiamento dell'amministrazione pubblica che, intervenendo in tali lotte, si direbbe non miri spesso che alla difesa dei privilegi di ceti ristretti - oggi la solenne affermazione dell'articolo 1° può anche suonare, ai più, beffa ed inganno. Comunque essa resta e resterà nei tempi a testimonianza della parte decisiva - per non dire esclusiva - che i lavoratori italiani hanno avuto nella lotta eroica che ha riscattato la nostra nazione dall'ignominia fascista e dalla soggezione tedesca; essa proclama la legittimità di ogni azione con cui si tenda a trasformare il lavoro da oggetto mercanteggiato a momento ispiratore del processo produttivo, ponendo in mora le reinsorgenti intenzioni di rifare della proprietà la misura dei valori e dei diritti sociali.
 
Bisogna, a questo proposito, affermare che la formulazione di questa parte del 1° articolo della Costituzione non ha soltanto, come qualcuno sostiene, un valore politico e storico, ma anche giuridico. E quindi che ogni legge che dovesse stabilire norme contrastanti con la posizione preminente del lavoro - in ogni suo aspetto - sopra gli altri elementi della vita sociale, dovrà essere ritenuta incostituzionale.
 
Ma le due affermazioni - che l'Italia è una Repubblica democratica e che questa Repubblica è fondata sul lavoro - esprimendo, ciascuna in sé, un particolare concetto storico e giuridico, si fecondano reciprocamente a significati nuovi e superiori. E precisamente che la democrazia repubblicana, oltre che politica, deve essere sociale ed economica; e che, per divenirlo, deve spianare la via alle necessarie trasformazioni strutturali del paese. Tutto il titolo III del primo libro della Costituzione, dedicato ai "Rapporti economici", discende logicamente da simile presupposto; e nei limiti in cui le forze conservatrici, oggi insediatesi al governo dell'Italia, intralciano o stroncano la realizzazione dei dispositivi in esso contenuti, esse riconoscono il fondamento della Repubblica e legittimano con ciò stesso ogni eventuale proposito che insorgesse di affermarli per diversa via. È interessante ricordare come all'Assemblea Costituente i gruppi del centro e della destra insistessero per escludere ogni interpretazione classista della norma in esame, che fu appunto redatta cosi com'è - in contrapposto all'altra: "l'Italia è una Repubblica democratica di lavoratori" proposta dai gruppi di sinistra - per tacitare ogni possibile preoccupazione in tal senso. Ma ecco che un contenuto classista sta invece acquistando, di giorno in giorno, la Repubblica italiana. Solo che esso, invece che dai lavoratori, le viene dai ceti capitalistici, che intendono fare di lei, come fu già la monarchia, la Bengodi della classe proprietaria. Il secondo comma dell'articolo, che fa del popolo il detentore della sovranità, esprime insieme il concetto che la sovranità stessa non ha diversa sorgente del popolo. Nel popolo essa nasce e perciò è rigettata senza meno ogni origine sovrannaturale e diversa del potere - e nel popolo resta, escludendosi così ogni ipotesi di sua cessione o trapasso a singoli od a gruppi. E poiché il popolo italiano, nella sua prevalente maggioranza, è costituito da schietti lavoratori - del braccio e della mente - è al lavoro, in definitiva, che si attribuisce dalla Costituzione la sovranità nella Repubblica.
 
II primo articolo della Costituzione si presenta, dunque, nella sua redazione, coma riconoscimento della funzione preminente, sociale e politica, del lavoro. Ma purtroppo molte parti dell'Assemblea Costituente, votandolo, non fecero due anni fa che inchinarsi pavide a quello che pareva allora l'inarrestabile crescente impeto delle masse lavoratrici. Ed oggi, che credono di averle invece infrante, intendono porre nel nulla quel solenne principio. Ma non si illudano. La storia, che è moto per volontà di uomini condizionati da leggi spontanee del sistema, sta, contro le loro pretese, coi diritti del lavoro fatto sovrano nelle Repubbliche.