www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 01-02-10 - n. 304

da Aurora, febbraio 2010 - www.aurorainrete.org/num15/12-15.pdf
 
Il 3 febbraio ’91 si scioglieva il P.C.I.
 
di Massimo Recchioni
 
L’89 fu l’anno del primo viaggio di un segretario del Pci negli Stato Uniti. Occhetto vi si recò accompagno dall’attuale Presidente della Repubblica Napolitano. Occhetto “ama” ricordare, quasi divertito, che una sera a cena era con loro William Colby, famigerato ex-direttore della Cia. Disse ad Occhetto: “Ho lavorato tanto tempo in Italia per distruggere il suo partito e adesso siamo qui a mangiare insieme!”. Ne risero insieme, la differenza era che Colby il suo scopo l’aveva ottenuto. Quindi le cose sono due: o Occhetto era un masochista, o lo scopo era comune...
 
Il 12 novembre di quello stesso anno, tre soli giorni dopo la caduta del muro di Berlino, Occhetto – che evidentemente non vedeva l’ora – in una riunione di partigiani a Bologna, nella ormai famosa sezione della Bolognina, aveva preannunciato “enormi cambiamenti”. Che consistevano nel superamento del Partito Comunista e nel percorso verso la costruzione di un “nuovo, grande partito della sinistra italiana”. Forse il PCI era reputato troppo piccolo, col suo 30% di allora? Nel Partito si accese una discussione – aspra soprattutto nella sezioni - ed il dissenso, per la prima volta, fu notevole e coinvolse parecchi dirigenti ma soprattutto ampi settori della base. Si opposero, fin da subito, importanti esponenti del Comitato Centrale come Ingrao, Tortorella, Cossutta.
 
Per decidere sulla proposta di Occhetto fu indetto un Congresso straordinario del Partito, il diciannovesimo per la precisione, tenutosi a Bologna nel marzo del 1990. In esso si fronteggiarono 3 mozioni. La prima, denominata Dare vita alla fase costituente di una nuova formazione politica, era promossa dal segretario, volta alla costruzione di una “nuova formazione politica democratica, riformatrice ed aperta a componenti laiche e cattoliche”, che superasse il centralismo democratico. Ottenne il 67% dei voti congressuali e, naturalmente, Occhetto fu rieletto segretario. La seconda si proponeva un percorso intermedio, sintetizzato nel titolo Per un vero rinnovamento del PCI e della sinistra, e fu sottoscritta da Ingrao, Tortorella, Angius e Luciana Castellina; essa indicava come il PCI dovesse rinnovarsi, nella politica e nella organizzazione, ma senza rinnegare il Comunismo. Raccolse solo il 30% dei consensi.
 
La terza, denominata Per una democrazia socialista in Europa, era quella per cosi’ dire “ortodossa” e fu presentata, tra gli altri, da Armando Cossutta, che ottenne solo il 3% dei voti congressuali.
 
Il XX Congresso, tenutosi a Rimini nel febbraio dell’anno successivo, fu l’ultimo. Anche qui tre furono le mozioni presentate. Una, “verso il Partito Democratico della Sinistra”, indicava chiaramente la via del disfacimento del Partito verso la creazione del PDS, ed ottenne i due terzi dei voti. La seconda, firmata Bassolino, era una mozione “intermedia” che indicava meno discontinuità rispetto a quella del Segretario. Infine, la mozione presentata da Cossutta ed Ingrao, proponeva il mantenimento di nome e Partito, ebbe circa un quarto dei consensi (ma Cossutta avrebbe effettuato una svolta analoga anni più tardi). I promotori della prima mozione non dissero, allora, in quel Congresso, che qualche anno dopo avrebbero tolto la “P” dal nome del partito, per poi ripristinarla – anni dopo – ma a scapito della”S” di sinistra. Si guardarono bene dal dirlo. Affermarono, allora, che avrebbero sciolto il Partito Comunista ma non dissero verso DOVE stessero andando. Quale era il nuovo progetto? Un partito socialdemocratico?
 
Forse, ma non lo dichiararono. Non dissero nulla, restando nell’ambiguità, cominciando quel processo, che sarebbe continuato poi nei DS ed ora nel PD, del mettere insieme tutto ed il contrario di tutto, comunisti e soprattutto anticomunisti, socialisti, Gandhi, Kennedy, la Chiesa, Luther King. E, perché no, Gramsci ed Obama.
 
Allora quel Congresso decise di vergognarsi di colpe che il PCI non aveva MAI avuto, cavalcando l’onda della caduta del muro di Berlino per mostrarsi come un Partito rinnovato. Ma proprio sancire la fine del Partito Comunista si sarebbe rivelato ben presto come la fine – e la non realizzabilità – di quel progetto assurdo oltre che incoerente. I ceti sociali più deboli persero la loro bussola di riferimento e lì cominciò lo sfascio. I militanti si chiedevano per cosa avessero lottato per tanti anni. In Italia si era arrivati alla Liberazione dalla tirannia, al voto alle donne, alla sanità gratuita per tutti, a diritti e sicurezza sul lavoro, alle 150 ore dedicate allo studio per tutti i lavoratori, e a quant’altro? E tutto questo grazie al Partito Comunista.
 
Che cosa avrebbe significato, ahinoi, il rinnovamento, lo avremmo capito ben presto. Si scelse di stare anche dalla parte dei forti; ma come si fa ad essere credibili dai deboli quando ci si schiera con i forti? Come fanno gli interessi dei lavoratori a coincidere con quelli dei loro datori di lavoro (che ci siamo disabituati a chiamare padroni)? Come si fa a scegliere la strada delle privatizzazioni senza rischiare ciò cui oggi siamo arrivati: l’acqua bene privatizzato, le ferrovie pubbliche trasformate in un monopolio privato, l’Alitalia e la Telecom derubate e svendute a compagni di merenda? Come si fa a sostenere l’importanza della flessibilità e della mobilità senza degenerazione nell’assoluta precarietà e nell’incertezza nel futuro di cui sono tutti vittime oggi, a cominciare dai giovani? O chi assumerà migliaia di lavoratrici e lavoratori vengono messi in mobilità e, avendo superato i 50 anni d’età, non possono andare in pensione se non tra dieci anni?
 
Solo un Partito Comunista forte avrebbe potuto contrastare tutto questo. Invece, si decise di farlo sparire, si optò per un suicidio politico senza precedenti. Si decise, in poche parole, di buttare alle ortiche le proprie storia ed identità, lasciando al proprio destino milioni di individui. Ed essi stanno perdendo, in pochi anni, tutto quanto conquistato in cento anni di lotte. Se non di più. La scelta di aderire al mercato – solo confermata nel ’91 ma in realtà impugnata anni prima - si è rivelata una catastrofe. Non si cambia il “mercato”, il mercato per sua definizione è fonte di sfruttamento, di prevaricazione, di diseguaglianza. Non esiste – né è mai esistito – un mercato buono e uno più duro. I comunisti, prima che negli ultimi anni si scatenasse una vergognosa incessante campagna di mistificazione, hanno SEMPRE lottato per l’abbattimento delle ingiustizie sociali nel nostro Paese. E con ottimi risultati.
 
Perché allora si decise, nel 1991, di consegnare nelle mani del capitalismo l’ultimo baluardo in difesa delle lavoratrici e dei lavoratori di questo povero Paese? Forse per inseguire con continui spostamenti verso il centro – che continuano ancora oggi, come se la lezione non fosse servita- la maggioranza elettorale in un Paese che è sempre stato ed è fondamentalmente di destra? E a che prezzo! Quando torneranno – al passaggio di uno di noi per la strada – a girarsi per dire “quello è un comunista”, con un senso di ammirazione per il coraggio e l’onestà che essere comunista rappresentava? Hanno lasciato un vuoto, forse è anche troppo tardi per colmarlo. Ma di un Partito Comunista in Italia ci sarebbe – oggi più che mai – davvero bisogno... eccome.
 
 

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