www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 25-02-10 - n. 308

dall'autore, apparso anche su Nuova Unità
 
La grande vittoria dei popoli sovietici sul nazifascismo
 
Il 22 giugno 1941 iniziava l’attacco della Germania nazista all’ Unione Sovietica
 
di Aldo Calcidese
 
“Unione Sovietica, se insieme raccogliessimo
tutto il sangue che hai versato nella lotta,
tutto quello che hai dato, come una madre, al mondo
perché la libertà agonizzante riavesse vita,
un nuovo oceano noi avremmo,
di tutti il più grande,
di tutti il più profondo.”
(Pablo Neruda – Canto generale – ed. Accademia, secondo volume, pag.125)
 
Alle 3,30 del 22 giugno, l’esercito tedesco iniziava l’attacco al territorio sovietico.
 
Dopo i primi successi, l’euforia dei capi nazisti era tale che il generale Halder scrisse nel suo diario. “Non è esagerato dire che il 'Feldzug' contro la Russia è stato vinto in 14 giorni”.
 
Ma in realtà già dal mese di luglio si era visto che l’esercito sovietico, malgrado le gravi perdite in uomini e materiali, aveva mostrato una resistenza sempre crescente, tanto che il generale Blummentritt scrisse a questo proposito: “Il comportamento delle truppe russe già in questa prima battaglia (per la presa di Minsk) è stato ben diverso da quello dei polacchi e degli Alleati occidentali da noi messi in rotta. Anche se circondati, i russi resistevano e combattevano”. Arriveranno presto, per i tedeschi, le prime sconfitte militari.
 
In occidente, si esprimeva grande sorpresa per la capacità di resistenza dell’URSS.
 
“Per la prima volta, i tedeschi sono stati affrontati da un esercito addestrato non per la guerra del 1918, ma per la guerra del 1941”, scriveva George Fielding Eliot il 29 luglio 1941. Ed aggiungeva che l’URSS usava “posizioni difensive di grande profondità, saldamente tenute ovunque, camuffamenti di notevole abilità a protezione dell’artiglieria russa dagli attacchi aerei, unità mobili di contrattacco contro le colonne dei panzer tedeschi ed un’aviazione che sostiene completamente le truppe a terra”.
 
Il 30 settembre, i nazisti iniziavano l’offensiva che aveva come obiettivo l’occupazione di Mosca. Mosca fu bombardata dall’aviazione tedesca, una parte dell’amministrazione fu evacuata. Ma Stalin decise di rimanere a Mosca e di organizzare la tradizionale parata militare del 7 novembre sulla Piazza Rossa. Questo fu un segnale di grande significato per tutto il popolo, la dimostrazione che la direzione del partito e dello stato sovietico credevano nella vittoria. Stalin pronunciò un discorso che venne diffuso in tutto il paese:
 
“Il nemico è alle porte di Leningrado e di Mosca. Contava sul fatto che al primo colpo il nostro esercito si sarebbe disperso e il nostro paese si sarebbe messo in ginocchio. Ma il nemico si è dolorosamente sbagliato. Il nostro paese, tutto il nostro paese ha formato un unico campo militare per assicurare, d’intesa col nostro esercito e con la nostra flotta, la sconfitta degli invasori tedeschi…Si può dubitare che noi possiamo e dobbiamo vincere gli invasori tedeschi? Il nemico non è così forte come lo rappresentano certi intellettuali impauriti. Il diavolo non è poi così nero come lo si dipinge…Compagni soldati e marinai rossi, comandanti e lavoratori politici, partigiani e partigiane! Il mondo intero vede in voi una forza capace di annientare le orde di invasione dei banditi tedeschi. I popoli asserviti dell’Europa, caduti sotto il giogo tedesco, vi guardano come loro liberatori. 
Una grande missione liberatrice vi è trasmessa. Siate dunque degni di questa grande missione. Che la bandiera vittoriosa del grande Lenin vi raduni sotto le sue pieghe.”
(Stalin, Oeuvres, tomo XVI, ed. NBE, 1975, p.38)
 
Il 25 novembre, alcune unità tedesche penetrarono nella periferia sud di Mosca. Ma il 5 dicembre l’attacco venne contenuto.
 
Dopo avere consultato tutti i comandanti, Stalin decise una grande controffensiva.
 
Il 6 dicembre il generale Zukov passò all’attacco, lanciando sette armate e due corpi di cavalleria, cento divisioni in tutto, con soldati ben equipaggiati e addestrati a combattere a temperature bassissime e con la neve alta.
 
Il colpo sferrato da Zukov con un imponente schieramento di truppe, artiglieria, carri armati, cavalleria e aviazione – schieramento di cui i capi nazisti non erano assolutamente a conoscenza – fu talmente sconvolgente che l’esercito tedesco, battuto e in ritirata, fu sul punto di disintegrarsi completamente.
 
“Il mito dell’invincibilità dell’esercito tedesco era stato infranto”, scriverà poi il generale Halder. I nazisti dovettero fare i conti anche con qualcosa che non avevano ancora sperimentato, se non episodicamente: la lotta partigiana. Il movimento partigiano assunse fin dall’inizio della guerra una grande ampiezza. Gli stessi occupanti riconobbero il legame indissolubile esistente tra i partigiani sovietici e il popolo.
 
“I reparti partigiani – scrisse l’ex ufficiale hitleriano Middweldorf – trovavano dappertutto un appoggio nascosto o persino palese presso la popolazione civile.”
 
Dimensioni particolarmente rilevanti raggiunse l’attività sabotatrice nelle regioni della steppa dell’Ucraina. Minatori ed operai metallurgici del Donbass riuscirono a sabotare il lavoro con tale maestria che i tedeschi non riuscirono ad ottenere nel Donbass né una regolare estrazione di carbone né una regolare produzione di metallo. Furono costretti a trasportare il carbone in Ucraina dall’Europa occidentale.
 
In attesa del “secondo fronte”
 
La nuova situazione sul fronte sovietico-tedesco, mutata a favore dell’URSS, creava le premesse per una disfatta della Germania nazista. Era però indispensabile che l’offensiva dell’Esercito Rosso venisse sostenuta dalle truppe alleate con un’azione contro la Germania che partisse da occidente.
 
Il governo sovietico nell’autunno del 1941 rivolse al governo inglese la richiesta di aprire un secondo fronte in Europa. Nel suo messaggio di risposta, Churchill dichiarò che non vi era alcuna possibilità di aprire il secondo fronte perché l’Inghilterra non disponeva delle truppe e degli armamenti necessari.
 
In realtà, l’Inghilterra si trovava in stato di guerra con la Germania dal 1939. Le sue riserve erano tanto più consistenti in quanto in due anni il comando inglese non aveva intrapreso alcuna grande offensiva. Come viene detto da Churchill nelle sue Memorie, all’inizio di settembre del 1941 nelle isole britanniche c’erano più di due milioni di soldati più 1.500.000 uomini che facevano parte delle formazioni territoriali di difesa. Nell’autunno del 1941 33 divisioni erano già mobilitate e comprendevano numerose unità di rinforzo. La produzione dell’industria bellica inglese era notevole. Per alcuni tipi di armamenti, a cominciare dagli aeroplani, superava quella tedesca. La marina militare della Gran Bretagna aveva grandi possibilità di intervento. Molti statisti inglesi riconoscevano questa situazione.
 
Lord Beaverbrook, tornato nell’ottobre del 1941 da Mosca, scrisse:
 
“E’ assurdo affermare che noi non possiamo fare nulla per la Russia.
Lo possiamo, se ci decidiamo a sacrificare i progetti a lunga scadenza e una concezione bellica che, pur continuando ad essere accarezzata, è definitivamente invecchiata.”
 
Anche il capo di Stato maggiore statunitense Marshall riconobbe che gli Stati Uniti erano in grado di aprire il secondo fronte.
 
“Per essere sinceri, va detto che disponiamo di truppe bene addestrate, di scorte di armamenti, di una buona aviazione e di divisioni corazzate”.
 
Ma perché gli anglo-americani non vollero aprire il secondo fronte in Europa né nel 1942 né nel 1943? Lo spiega molto bene Klement Gottwald, che fu prima segretario del Partito Comunista Cecoslovacco e poi presidente della Repubblica:
 
“E quando l’Unione Sovietica e le potenze occidentali combattevano ormai insieme contro la Germania hitleriana finirono forse, almeno allora, gli intrighi antisovietici? Non finirono neppure allora! E’ a tutti nota la storia del cosiddetto secondo fronte. L’Unione Sovietica sanguinava da innumerevoli ferite; essa impegnava e incatenava la grande maggioranza delle forze armate tedesche, dando all’Inghilterra e agli Stati Uniti la possibilità di prepararsi seriamente all’ulteriore condotta della guerra.
 
E quando questa preparazione fu, secondo ogni umana previsione, ultimata, l’Unione Sovietica chiese che venisse aperto il secondo fronte in occidente.
 
Gli argomenti dell’Unione Sovietica e la voce dei popoli di tutti i paesi furono così forti che gli esponenti dei paesi occidentali si impegnarono ad aprire a occidente il secondo fronte entro un certo termine. Si impegnarono una prima volta e non fecero niente. Si impegnarono una seconda volta e ancora non fecero niente. Solo più tardi, quando l’ulteriore inattività non era ormai più tollerabile, organizzarono il “secondo fronte” nell’Africa settentrionale e in Italia, un “secondo fronte” che non stornò dal fronte sovietico-tedesco neanche una divisione germanica. Perché i signori occidentali organizzarono un surrogato di secondo fronte nell’Africa settentrionale?
 
Dal sud essi speravano di poter arrivare ai Balcani e all’Europa centrale prima dell’esercito sovietico e di assicurare in questo modo queste regioni al capitalismo.
 
Comunque gli strateghi di Churchill erano certi che alla fine della seconda guerra mondiale avrebbero incontrato al tavolo delle trattative una Unione Sovietica dissanguata, indebolita, impotente. In secondo luogo si aspettavano che i paesi liberati dall’Unione Sovietica sarebbero tornati al capitalismo e nelle braccia degli imperialisti. Non avvenne né la prima né la seconda cosa. Solo chi sia irrimediabilmente ottuso può pensare sul serio che queste nazioni, che nel corso di una sola generazione avevano subito due bagni d sangue, potessero auspicare un puro e semplice ritorno alla situazione d’anteguerra. Potevano auspicare ciò tanto meno in quanto negli anni precedenti alla guerra e in quelli della guerra avevano visto chiaramente l’infamia, la doppiezza e l’incapacità delle classi prima dominanti e in quanto erano stati anche traditi dagli imperialisti occidentali.”
 
(Klement Gottwald, La Cecoslovacchia verso il socialismo, edizioni Rinascita, Roma, 1952, pp.299-301)
 
Non solo. Gli imperialisti anglo-americani volevano approfittare della situazione esistente nel fronte sovietico-tedesco per creare basi militari nei principali centri economici e strategici dell’URSS.
 
Churchill inviò una nota al Comando congiunto anglo-americano, nella quale chiedeva che non si facesse sfuggire l’occasione per un’invasione del Caucaso. Soltanto una cosa lo preoccupava: che fare di questi piani se l’offensiva tedesca del 1942 dovesse fallire.
 
(W.Churchill, The Second World War, vol.4, p. 514)
 
Stalingrado e la vittoria dell’Armata Rossa
 
Tutto il peso della guerra contro il nazifascismo in Europa rimane così sulle spalle dell’Unione Sovietica, almeno fino al giugno del 1944 quando, spaventati dalla travolgente avanzata dell’Armata Rossa verso Berlino, gli anglo-americani si decidono a sbarcare in Normandia.
 
La svolta della guerra avviene a Stalingrado.
 
“I tedeschi effettuano 1500-2000 incursioni al giorno, scaricando sulla città quotidianamente dalle 6 alle 8 mila bombe. Gli infami assassini hanno distrutto, incendiato interi quartieri, hanno messo fuori servizio decine di aziende. Ma la città continua a vivere, lavorare e combattere. Martoriata, carbonizzata ma irremovibile, resiste all’assalto del nemico ed infligge agli hitleriani colpi mortali, dissanguando l’armata tedesca. La fama della sua fermezza e della sua tenacia nella lotta contro il nemico si è diffusa in tutto il paese e in tutto il mondo. I combattenti di Stalingrado hanno già eliminato più di 175.000 tedeschi occupanti…Tutto il paese è accorso in aiuto di Stalingrado. Lotteremo per la nostra città sino all’ultima goccia di sangue.”
(dal comunicato del Comitato regionale del Partito Comunista bolscevico dell’URSS sulla situazione di Stalingrado)
 
E giunse il momento di passare da un’eroica resistenza a una potente controffensiva, una controffensiva devastante per l’aggressore nazista.
Le unità corazzate sovietiche erano riuscite a realizzare l’accerchiamento delle forze nemiche presso Stalingrado.
Nella morsa gigantesca vennero a trovarsi più di 300.000 uomini.
Il 31 gennaio 1943 il grosso delle truppe tedesche aveva cessato la resistenza. Il generale Von Paulus alfine non potè che accettare l’ultima proposta di resa dei sovietici, dopo avere respinto le due precedenti.
 
Dopo la guerra, in opere storiche pubblicate nell’ Europa occidentale e negli Stati Uniti, si è cercato di sminuire l’importanza della battaglia di Stalingrado. Anche il generale Marshall, ex-capo di Stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti, in un rapporto al presidente Roosevelt, scrisse: “ la crisi della guerra è iniziata a Stalingrado e a El Alamein.” Questa affermazione non è corretta, dal momento che sul fronte sovietico-tedesco i nazifascisti avevano, nell’autunno del 1942, 226 divisioni, mentre nell’Africa settentrionale avevano – al momento della battaglia di El Alamein – solo dodici divisioni, di cui otto italiane. Dopo Stalingrado, l’Armata Rossa assume la direzione delle operazioni militari fino a varcare, nel 1945, le frontiere della Germania.
 
Va ricordato che i dirigenti nazisti erano al corrente dei piani antisovietici dei governanti anglo-americani e si adoperarono per aiutarli. Infatti il comando tedesco a un certo punto cessò la resistenza ad ovest ed aprì il fronte perché potessero avanzare le truppe angloamericane.
 
L’ammiraglio nazista Donitz, che successe a Hitler dopo il suicidio del dittatore nazista, dichiarò a un gruppo di ufficiali tedeschi: “Dobbiamo marciare a fianco delle potenze occidentali e cooperare con esse nei territori occupati dell’ovest, perché solo in collaborazione con esse potremo in futuro strappare terra ai russi.”
(The Times, 17.8.1948)
 
Il governo sovietico rifiutò di accettare la legittimità di un accordo che si era realizzato a Reims, e che prevedeva la resa delle armate naziste agli eserciti angloamericani. L’Unione Sovietica esigette che l’atto di capitolazione si firmasse a Berlino. I governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna furono costretti ad accettare questa richiesta.
 
Quale fu il segreto della grande vittoria dei popoli sovietici sul nazifascismo?
 
Indubbiamente, il tanto criticato patto Molotov-Ribbentrop concesse all’Unione Sovietica due anni di tempo prezioso per prepararsi alla guerra contro la Germania e questo tempo fu sfruttato molto bene se è vero quello che scrive il maresciallo Zukov nelle sue Memorie:
 
“Le consegne militari effettuate tra il 1° gennaio 1939 e il 22 giugno 1941 erano enormi. L’artiglieria ricevette 92.578 pezzi. Nuovi mortai da 82 e 120 millimetri furono introdotti poco prima della guerra. La Forza Aerea ricevette 17.745 aerei da combattimento, di cui 3.719 nuovi modelli. Le misure prese dal 1939 al 1941 hanno creato le condizioni richieste per ottenere rapidamente la superiorità qualitativa e quantitativa.”
(Jukov, Memoires, tomo II, Ed. Fayard, Paris, 1970, p. 296)
 
Sui motivi che resero possibile la vittoria sul nazifascismo, Zukov aggiunge:
 
“Un’industria sviluppata, un’agricoltura collettivizzata, l’istruzione pubblica estesa a tutta la popolazione, l’unità della nazione, la potenza dello Stato socialista, il livello elevato di patriottismo del popolo, la direzione che, attraverso il Partito, era pronta a realizzare l’unità tra il fronte e le retrovie, tutto questo insieme di fattori fu la causa prima della grande vittoria che doveva coronare la nostra lotta contro il fascismo. Il solo fatto che l’industria sovietica avesse potuto produrre una quantità colossale di armamenti…prova che le basi dell’economia, dal punto di vista militare, erano state poste nel modo dovuto e che erano solide…In tutto ciò che era essenziale e fondamentale, il Partito e il popolo hanno saputo preparare la difesa della patria.”
(Jukov, op. cit. pp. 335-337)
 
 
Il ruolo di Stalin
 
Diversi esponenti della borghesia, anche della borghesia reazionaria come Winston Churchill, hanno riconosciuto le grandi capacità militari di Stalin come Comandante in capo dell’ Armata Rossa. Churchill, pur essendo un anticomunista e un nemico dichiarato dell’Unione Sovietica, parlando di Stalin disse:
 
“ Rispetto questo grande ed eccellente uomo…Assai pochi erano nel mondo coloro che potevano comprendere, in così pochi minuti, le questioni con le quali ci arrabattavamo da mesi. Egli aveva afferrato tutto in un lampo” (citato da Enver Hoxha nell’articolo “ Nel centenario della nascita di Giuseppe Stalin” del 1979)
 
Solo un gruppetto di revisionisti ha tentato di realizzare una ”missione impossibile”: quella di separare il nome di Stalin dalla grande epopea dei popoli sovietici , cercando di dimostrare che i successi furono realizzati senza la partecipazione di Stalin o addirittura “malgrado i gravi errori” di Stalin.
 
Nikita Chruscev inventò la favola secondo cui – dopo l’aggressione nazista – Stalin sarebbe “scomparso” per tre settimane, lasciando il Partito e l’esercito senza direttive.
 
Nelle sue Memorie, il maresciallo Zukov lo smentisce ricordando che Stalin, appena informato dell’attacco tedesco, gli ordinò di convocare l’Ufficio Politico per le 4,30. Nella stessa giornata del 22, Stalin prese decisioni di notevole importanza.
 
“Verso le 13 del 22 giugno Stalin mi chiamò: i nostri comandanti di fronte non hanno esperienza sufficiente per dirigere operazioni militari, in molti sono palesemente disorientati. L’Ufficio Politico ha deciso di inviarvi sul fronte Sud-Ovest in qualità di rappresentante della Stavka (Quartier Generale). Sul fronte Ovest invieremo il maresciallo Saposnikov e il maresciallo Kulik.”
Dopo il 22 giugno 1941 e per tutta la durata della guerra, Giuseppe Stalin assicurò la ferma direzione del paese, della guerra e delle nostre relazioni internazionali.”
(Jukov, op. cit. pp.354, 395, 396)
 
Nikita Chruscev ha affermato anche:
 
“Il potere accumulato nelle mani di un solo uomo, Stalin, comportò delle gravi conseguenze nella grande guerra patriottica. Stalin agisce per tutti, non conta su nessuno, non chiede il parere a nessuno”
 
Il generale d’armata Stemenko, che lavorò presso lo Stato maggiore generale, afferma:
 
“Devo dire che Stalin non decideva e nemmeno amava decidere da solo sulle questioni importanti della guerra. Capiva perfettamente la necessità del lavoro collettivo in questo campo così complesso, riconosceva le persone autorevoli nell’uno o nell’altro problema militare, teneva conto della loro opinione e riconosceva a ciascuno la sua competenza.”
(Chtèmenko, L’Etat Major general soviètique en guerre, Ed. du Progrès, Moscou, 1978, tomo II, p.319)
 
Vasilevskij, che fu aiutante di Zukov e, successivamente, egli stesso capo di Stato maggiore e lavorò con Stalin per tutta la durata della guerra, scrive:
 
“Per la preparazione dell’una o dell’altra decisione di ordine operativo o per l’esame di altri problemi importanti, Stalin faceva venire delle personalità responsabili che avevano un rapporto diretto con la questione esaminata…Questo lavoro spesso impegnava diversi giorni, durante i quali Stalin aveva degli incontri con i comandanti e i membri dei consigli militari dei fronti…L’Ufficio Politico, la Direzione delle Forze Armate si appoggiavano sempre sulla ragione collettiva. Ecco perché le decisioni strategiche prese dal comando supremo ed elaborate collettivamente rispondevano sempre, in generale, alla situazione concreta al fronte.”
(Vassilevski, La cause de toute une vie, Ed. du Progrès, Moscou, 1975, pp.34-36)
 
E il maresciallo Zukov ricorda:
 
“Il lavoro della Stavka si metteva in pratica, di regola, sotto il segno dell’organizzazione, della calma. Ognuno poteva esprimere la propria opinione. Giuseppe Stalin si rivolgeva a tutti nello stesso modo, con un tono severo e abbastanza ufficiale. Quando gli si faceva un rapporto con piena cognizione di causa, sapeva ascoltare. Occorre dire, cosa di cui mi sono convinto durante i lunghi anni della guerra, che Giuseppe Stalin non era affatto un uomo a cui non si poteva parlare dei problemi difficili, con cui non si poteva discutere e perfino difendere energicamente il proprio punto di vista. Se alcuni affermano il contrario, direi semplicemente che le loro asserzioni sono false.”
(Jukov, op.cit., p.415)
 
Tutte le menzogne di Chruscev servivano in realtà a giustificare la svolta di 180 gradi che i revisionisti intendevano imporre alla politica sovietica.
 
Una cosa però è certa: mentre oggi i nomi di Chruscev, di Mikojan e degli altri revisionisti che organizzarono il colpo di stato del 1956 promuovendo la cosiddetta destalinizzazione sono ormai finiti nella spazzatura della storia, e nessuno si ricorda più di loro, il nome di Stalin rimane e rimarrà sempre indissolubilmente legato ai grandi successi dell’edificazione socialista in URSS e alla grande vittoria dell’Armata Rossa e dei popoli sovietici sul nazifascismo.
 

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