www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 25-01-11 - n. 348

dal libro:
 
Il PCI di Luigi Longo (1964-1969)
 
di Alexander Höbel
 
Conclusione
 
1. Gli anni della Segreteria Longo, dal 1964 all’inizio del ’72, trovano nel febbraio ’69, con l’ascesa di Berlinguer alla vicesegretaria una prima cesura; inizia allora una nuova stagione, con una sorta di condirezione del partito: una fase diversa che meriterebbe una trattazione a parte. Quelli analizzati in questo volume sono invece gli anni in cui il ruolo di Longo e il significato della sua Segreteria si dispiegano appieno. È un periodo in cui in Italia e nel mondo accade di tutto, e anche per il PCI rappresenta una fase di grande vivacità e interesse, qualcosa di più di una mera “fase di transizione”.
 
Da più parti Longo viene ricordato come un ottimo segretario, fortemente democratico, amante della direzione collegiale e capace anche di cambiare idea[1]. Il suo primo atto da segretario, la decisione di pubblicare il Promemoria di Yalta di Togliatti, è già un primo elemento di novità e una rivendicazione di autonomia, che si rinnova di lì a poco, in occasione della destituzione di Chruscëv, su cui pure il PCI esprime riserve. Peraltro l’attitudine di Longo alla direzione collegiale va collocata, come ha sottolineato Renato Zangheri, nella più ampia concezione che egli ha della democrazia, e di quella italiana in particolare, come di una democrazia organizzata, basata cioè sul protagonismo dei partiti di massa, sulla centralità del Parlamento, su una vasta rete di autonomie locali, e in definitiva sull’intreccio tra istituzioni rappresentative e elementi di democrazia diretta; una concezione che aveva le sue radici nell’esperienza della Resistenza e nell’elaborazione di Gramsci e Togliatti, ma che negli anni ’60 e ’70 avrà modo di collegarsi, sia pure con difficoltà e contraddizioni, alla ripresa dei movimenti di massa[2].
 
Per l’Italia, il periodo 1964-1968 è caratterizzato da una serie di “occasioni mancate”, dalla rinuncia o dal rinvio di una serie di importanti riforme, con la conseguenza di una netta involuzione del centro-sinistra di una crescente distanza tra il sistema politico e istituzionale, in sostanza “bloccato”, e la rapida trasformazione della società[3]. Tuttavia anche in questi anni la politica non è affatto immobile, non solo sul piano del confronto, della crescente “unità dal basso”, del maturare di posizioni nuove nel movimento cattolico e a sinistra; ma anche per quanto riguarda l’incubazione di molte riforme, quasi tutte varate dopo il 1968-69. In questo processo la ricerca ha fatto emergere un ruolo del PCI piuttosto significativo. Lungi dall’aver ostacolato le riforme con la sua opposizione al centro-sinistra, esso non solo le rivendica, premendo sul governo perché attui il suo programma, ma porta avanti un lavoro di elaborazione, dibattito e iniziativa politica su varie riforme (dall’istituzione del Servizio sanitario nazionale all’equo canone, dalla “giusta causa” nei licenziamenti allo Statuto dei lavoratori), insistendo sulla necessità di garantire ai lavoratori e alle loro rappresentanze un ruolo di controllo e gestione nei vari enti da riformare o da istituire – istituti previdenziali, collocamento, unità sanitarie locali, RAI-TV ecc. È una linea che si affianca a quella del decentramento democratico e allo sviluppo delle autonomie locali (dalle Regioni di cui si chiede l’istituzione ai consigli di quartiere su cui il PCI avanza proposte di legge ma che intanto promuove a Bologna), in una strategia che si potrebbe definire di democratizzazione avanzata dello Stato e della società[4].
 
Nella dinamica parlamentare di quegli anni, il PCI elabora e presenta più volte i suoi progetti di legge, talvolta affiancando quelli del centro-sinistra, spesso anticipandoli, o comunque spingendo il governo a presentare le sue proposte o a mettere il problema all’ordine del giorno, quasi sempre dopo una lunga serie di rinvii. È una modalità che ha poco a che vedere col “consociativismo”, ma che invece rimanda a quella “opposizione di tipo particolare” annunciata da Togliatti agli albori del centro-sinistra. I dati dimostrano che nella IV Legislatura il PCI tiene una linea di opposizione alla coalizione di governo – che naturalmente si accentua con l’involuzione di quest’ultima, a partire cioè proprio dal ’64 – ma al tempo stesso stimola efficacemente le spinte riformatrici presenti nella maggioranza, riuscendo anche a far passare alcune proposte proprie[5]. In questo senso cerca di concretizzare quel ruolo di governo svolto anche dall’opposizione, che rivendica esplicitamente, e la peculiarità di questo intreccio sta anche nell’affiancare sempre all’azione legislativa e parlamentare un’iniziativa politica e di massa che ne costituisce il retroterra, consolidando intanto la forza e il radicamento del partito. In questo modo il PCI – facendo leva anche sui settori di sinistra della coalizione di governo, ma ricevendo la spinta decisiva dalla ripresa della mobilitazione sociale, già nel 1966-67 – contribuisce in modo rilevante a due primi risultati raggiunti nel periodo considerato, quali la legge sulla “giusta causa”, primo mattone dello Statuto dei lavoratori, e l’istituzione delle Regioni[6].
 
Certo, in questo felice paradosso di un partito che, pur lontano dal governo, riesce a incidere su alcune importanti scelte, e che pur mirando a una radicale trasformazione della società con la sua pressione favorisce le riforme[7], non mancano discrasie, limiti, carenze. Il PCI inoltre si trova a fare i conti con quella trasformazione della società italiana che, mutando forme e tempi di lavoro, consumi e stili di vita, inizia a intaccare quel tessuto associativo che costituisce una base essenziale del partito di massa. Il PCI subisce i contraccolpi di questi cambiamenti, non sempre riesce a farvi fronte, e negli stessi luoghi di lavoro la sua presenza risulta indebolita a vantaggio di quella sindacale. Tuttavia, dai quadri intermedi ai gruppi dirigenti, coglie questi problemi, ne discute, tenta di porvi rimedio. E dall’analisi della documentazione delle sezioni di lavoro in cui il partito era articolato, oltre che delle sue principali federazioni, tale intreccio di questioni emerge con chiarezza.
 
2. In questo contesto si dipana il ricco e talvolta aspro dibattito interno al gruppo dirigente, che segnala la riapertura di una riflessione strategica a tutto campo per il dopo-Togliatti. È un dibattito che va oltre la contrapposizione – relativa all’analisi della società italiana – modernità/arretratezza, e riguarda essenzialmente le conseguenze politiche di tale analisi. Se la società italiana è ancora in larga parte “in ritardo” rispetto allo sviluppo di altri paesi e i margini di riforma del suo capitalismo (caratterizzato dai bassi salari) sono stretti, è ovvio che va incoraggiato uno sviluppo riformatore, non solo per favorire la fuoriuscita del Paese (o di sue ampie zone) da una condizione arretrata, ma anche perché ciò apre nuove contraddizioni nel blocco dominante, implica ulteriori misure di progresso sociale e democratico, che nella loro stessa difficile attuabilità alludono alla necessità di un’altra organizzazione economica e sociale. Dall’altra parte, la sinistra del partito insiste sugli elementi di “neo-capitalismo” già presenti in Italia, giudica la borghesia italiana in grado di portare avanti – a suo modo e per i suoi fini – la “modernizzazione” del Paese, e per questo chiede di non fermarsi alla rivendicazione di riforme democratiche e sociali, facilmente “riassorbibili”, ma di proporre un’alternativa complessiva, un diverso modello di sviluppo. È una contrapposizione forte nel gruppo dirigente, e tuttavia il dibattito interno va ben al di là di questo, e alla luce della documentazione le due opzioni appaiono molto meno nette e schematiche di come talvolta vengono descritte.
 
Il dibattito, iniziato nei primi anni ’60, nella fase qui considerata ha già fatto un passo avanti. Complessivamente, il capitalismo italiano è considerato un intreccio di modernità e ritardi, di vecchi problemi che lo sviluppo economico non ha risolto e nuove contraddizioni che vi ha aggiunto. Questo è tutto sommato un punto di sintesi condiviso. Le divergenze rimangono sulle conseguenze pratiche dell’analisi, sulla politica delle alleanze, sul nuovo blocco storico da costruirsi. Amendola e compagni rilanciano l’unità del movimento operaio nelle sue articolazioni “classiche” (PCI più socialisti, organismi di massa unitari, sindacati, giunte locali, cooperative ecc.), e al tempo stesso avvertono l’esigenza di ravvivare un fronte antifascista che comprende anche i settori di democrazia laica, repubblicana, ex azionista. L’opzione di Ingrao è invece quella di una “nuova unità” dal basso, che abbia i suoi protagonisti nella sinistra socialista e più ancora nella sinistra cattolica, da quella sindacale di ACLI e FIM-CISL ai gruppi del dissenso.
 
Il confronto, fattosi aspro nel 1965, trova il suo approdo nell’XI Congresso. Qui le punte più acute della polemica riguardano però la “pubblicità del dibattito”; al contrario il tema del nuovo modello di sviluppo, sia pure senza tale formula, trova un certo spazio nelle Tesi conclusive. La relazione di minoranza al piano Pieraccini, elaborata dall’ingraiano Barca con Leonardi e Raffaelli, sarà di lì a poco il testo in cui questo tema troverà un’importante ricaduta sul piano della proposta politica[8]. In questo senso l’XI Congresso, oltre che un momento di scontro, appare anche un primo punto di sintesi dopo l’ampio e acceso dibattito dei mesi successivi alla morte di Togliatti; la lettura di quell’assise che qui si è proposta è dunque un po’ diversa da quella consolidata. E tuttavia è vero che da quello scontro prende le mosse anche una graduale marginalizzazione (e talvolta una volontaria presa di distanze) non tanto dell’ala ingraiana, quanto della sua propaggine sinistra, che in parte, di lì a poco, darà vita al “Manifesto”.
 
Nella stessa politica delle alleanze il PCI seguirà una strada intermedia tra quelle proposte da Amendola e Ingrao, con una grande attenzione – tipica di Longo – all’unità del movimento operaio ma anche ai nuovi movimenti di massa, e con l’attacco frontale alla DC all’indomani del crollo di Agrigento e delle alluvioni del ’66, che mettono in luce l’esistenza di un “sistema di potere”, il cui impatto si rivela devastante per lo stesso territorio. L’emergere dello scandalo dei fascicoli del SIFAR e del “piano Solo” rinnoverà i dubbi sulla natura pienamente democratica della DC, e il golpe dei colonnelli in Grecia tornerà a porre all’attenzione dei comunisti il problema della difesa della democrazia.
 
Inizia intanto una nuova ondata di lotte operaie, in cui matura quella unità dal basso di lavoratori e sindacati, che faciliterà il processo di unità e autonomia sindacale, pure sostenuto dai comunisti. Le lotte si acutizzeranno nel ’68, intrecciandosi al sorgere di quel movimento studentesco di cui il PCI, pur “colto di sorpresa”, coglie il valore politico generale. E tuttavia le difficoltà di dialogo non mancano, sia per limiti del partito, sia perché la cultura politica e il discorso pubblico dominanti nel movimento – insofferenti verso la forma-partito, la vecchia “unità antifascista”, l’impostazione togliattiana, il nesso tra azione di massa e battaglia parlamentare – non potevano non in conflitto con la cultura e la strategia stessa del PCI, rispetto a cui costituiscono elementi in qualche modo destrutturanti. E ciò alla fine di quegli anni ’60 in cui alcuni studiosi collocano un salto di qualità di quella lotta partito/antipartito, così rilevante nella vicenda repubblicana[9]. E se è vero che il PCI riuscirà a fare proprie certe istanze e la nuova vivacità della “società civile”, trovando efficaci sinergie con la propria politica (si veda la stagione degli anni ’70, dei vari Insegnanti Democratici, Medicina Democratica, Psichiatria Democratica ecc.), è anche vero che queste nuove pratiche e culture politiche aprono contraddizioni al suo interno. Tale processo, peraltro, si lega al graduale mutamento della composizione sociale del partito, e più ancora dei suoi gruppi dirigenti e quadri amministrativi. Questi elementi, assieme alle vicende internazionali, alla ristrutturazione capitalistica degli anni ’70-80 e al venir meno di una strategia a lungo perseguita, con la crisi della politica di “compromesso storico”, porranno le basi della crisi degli anni successivi.
 
3. Nello stesso 1968, peraltro, maturano le due più rilevanti svolte di Longo, ossia l’apertura al movimento studentesco (e qui è Amendola a ritrovarsi in minoranza, almeno rispetto alla linea “ufficiale”) e la condanna dell’intervento del Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, dopo che già la sua visita a Praga aveva testimoniato anche plasticamente la vicinanza dei comunisti italiani a quel “nuovo corso” di cui si enfatizzava la carica democratica e rinnovatrice[10].
 
Sono anni in cui anche il ruolo del PCI nel movimento comunista internazionale, sviluppando le indicazioni dell’ultimo Togliatti, diventa più rilevante, nel senso di una maggiore assunzione di iniziativa e di responsabilità per quanto riguarda ciò che i partiti comunisti – e potenzialmente l’intero movimento operaio – dell’Europa capitalistica dovrebbero fare per giocare appieno il loro ruolo sulla scena mondiale accanto ai paesi socialisti e ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo. È un discorso che, legandosi alla politica di coesistenza pacifica e alle prospettive del superamento dei blocchi e di una trasformazione in senso democratico e sociale dell’Europa del MEC, il PCI rivolge all’intero movimento operaio europeo, comprese le sue componenti socialdemocratiche. Un orientamento in tal senso emerge alla Conferenza di Karlovy Vary dei PC europei, di cui il partito italiano è un protagonista di primo piano, e il PCI lo concretizza avviando un dialogo con la SPD di Brandt, mentre prosegue quello coi movimenti di liberazione. Il nuovo internazionalismo trova anzi proprio nella lotta al fianco del popolo vietnamita la sua espressione più significativa.
 
In questo contesto il PCI, pur schierato con l’URSS nel confronto cino-sovietico, accresce i suoi margini di autonomia, e tenta di mettere in pratica, con un’azione internazionale a tutto campo, il policentrismo e l’unità nella diversità teorizzati da Togliatti. La condanna dell’intervento militare in Cecoslovacchia rappresenta in questo quadro il momento più significativo per quanto attiene all’autonomia strategica e di giudizio dei comunisti italiani. Da lì prende le mosse una vera e propria ridefinizione del rapporto col PCUS, rispetto a cui non si vuole la rottura, ma si stabilisce un rapporto tendenzialmente paritario e bidirezionale.
 
Sul piano nazionale, intanto, le elezioni del 1968 vedono il PCI – che in quella occasione si presenta unito al PSIUP ma lancia anche il progetto degli “indipendenti di sinistra” – capitalizzare in misura significativa le lotte in corso e il nuovo clima politico. Dopo quel voto la questione comunista comincerà a porsi anche sul piano del governo; inizierà cioè a essere chiaro che l’esclusione pregiudiziale di una forza così rilevante non è alla lunga sostenibile, sia sul piano degli equilibri democratici (di qui la “strategia dell’attenzione” di Moro e il “nuovo patto costituzionale” di De Mita), sia al fine di una efficace politica di riforme (di qui gli “equilibri più avanzati” di De Martino). In ogni caso un periodo iniziato con la più rigida conventio ad excludendum ai danni del PCI termina con l’affacciarsi di una nuova prospettiva, che sembra riaprire il discorso interrotto nel 1947.
 
È evidente, dunque, che la Segreteria Longo costituisce molto di più di una mera fase di transizione. Nonostante la sostanziale continuità della strategia del partito, il rinnovamento e le “svolte” promossi o incoraggiati dal segretario non sono di poco conto. La strategia gramsciana e togliattiana viene ridiscussa e in parte adeguata, con una forte coerenza nell’ispirazione di fondo ma anche con elementi di innovazione non secondari[11]. Col XII Congresso, nel febbraio ’69, e l’elezione di Berlinguer a vicesegretario, inizia una fase nuova, la fase dei grandi successi elettorali ma anche delle scelte politiche più complicate.
 


[1] TAA di A. Alinovi, E. Macaluso e A. Tortorella; S. Segre, Faceva il broncio quando ognuno non diceva la sua, “l’Unità”, 16 ottobre 1985; Chiaromonte, Col senno di poi. Autocritica e no di un uomo politico, cit., p. 66; A. Galdo, Vi racconto i miei settant’anni da comunista, intervista con A. Cossutta, “Epoca”, 11 ottobre 1996; Boffa, Memorie dal comunismo..., pp. 131 s.
[2] R. Zangheri, Luigi Longo e la nuova democrazia italiana, “Studi Storici”, 1981, n. 4, pp. 797-801.
[3] M. D’Antonio, La politica economica degli anni Sessanta, ovvero le occasioni perdute, “Economia italiana”, 1997, n. 1-2; M. Salvati, Economia e politica in Italia dagli anni ’60 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2000, capp. 1-3; Voulgaris, L’Italia del centro-sinistra 1960-1968, cit., p. 137 e passim.
[4] Per A. Mastropaolo (La Repubblica dei destini incrociati. Saggio su 50 anni di democrazia italiana, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 15), il PCI è stato in qualche modo “il partito della democrazia ‘sostanziale’, la cui pressione [...] si è rivelata decisiva affinché i benefici dello sviluppo fossero ridistribuiti ed estesi”.
[5] F. Cazzola (Consenso e opposizione nel Parlamento italiano. Il ruolo del PCI dalla I alla IV Legislatura, cit., pp. 84-93) ha dimostrato come il grado di opposizione del PCI, non solo in Aula ma anche nelle commissioni parlamentari (dove era “piuttosto basso”), diminuito col primo centro-sinistra di Fanfani, aumenti proprio nella IV Legislatura nei confronti dei vari governi Moro, che a loro volta attuano una forte chiusura alle proposte del PCI. Da parte comunista, però, c’è anche un maggiore uso degli emendamenti, la cui percentuale di approvazione è attorno a ¼ del campione esaminato (spesso con divisioni nella maggioranza). Dal canto loro, F. Cantelli, V. Mortara e G. Movia (Come lavora il Parlamento, Milano, Giuffrè, 1974, pp. 292-303), hanno mostrato che nella IV Legislatura il PCI – il quale tende a presentare “progetti di legge di interesse generale normative o normative organizzative”, più che “leggine” di tipo particolaristico – veda aumentare la percentuale di progetti di legge suoi (o a cui ha collaborato) che vengono approvati. Cfr. M. Morisi, Il Parlamento tra partiti e interessi, in Costruire la democrazia. Gruppi e partiti in Italia, a cura di L. Morlino, Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 392-394 e passim.
[6] Cfr. Mastropaolo, La Repubblica dei destini incrociati..., cit., pp. 19-23.
[7] Cfr. V. Parlato, Lungo il cammino dell’utopia rivoluzionaria, “il manifesto”, 27 febbraio 2007.
[8] Anche per Di Toro e Illuminati (Prima e dopo il centro-sinistra, cit., p. 192), “il ‘modello di sviluppo’ risorge nel ‘contropiano’ presentato come relazione di minoranza” del PCI sul piano Pieraccini.
[9] Cfr. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (1946-78), cit.
[10] Secondo A. Tortorella, dopo la fase di “scontro” con la sinistra interna, Longo finì per accoglierne varie posizioni, “per esempio nel rapporto con l’Unione Sovietica e nel rapporto coi movimenti” (TAA di A. Tortorella).
[11] A. Guerra, La via di Longo a un comunismo diverso, “l’Unità”, 16 ottobre 2005.

Resistenze.org     
Sostieni una voce comunista. Sostieni Resistenze.org.
Fai una donazione o iscriviti al Centro di Cultura e Documentazione Popolare.

Support a communist voice. Support Resistenze.org.
Make a donation or join Centro di Cultura e Documentazione Popolare.