www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 05-02-11 - n. 350

Pubblichiamo, su gentile concessione dell'autore:
Vincenzo De Robertis, A. Gramsci e l’Unità d’Italia
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Vincenzo De Robertis
 
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Indice
 
Capitolo II
 
La contraddizione città-campagna è la chiave interpretativa privilegiata degli avvenimenti che si svolgono a partire dalla fine del XVIII e nel corso del XIX secolo.
 
Questa contraddizione significa: sotto il profilo economico, rapporto fra industria manifatturiera ed agricoltura in un’epoca in cui l’industria si va affermando e l’agricoltura comincia a cedere il primato, fino a quel momento posseduto, fra le attività produttive; sotto il profilo sociale, declino dell’aristocrazia nobiliare ed affermazione della borghesia; sotto il profilo politico-istituzionale, crisi dell’assolutismo monarchico e progressiva affermazione dello Stato liberale-repubblicano e dell’idea di Patria-Nazione.
 
Per una serie di ragioni storiche, sociali e culturali è nella Francia di fine ‘700 che questa contraddizione trova la sua risoluzione più classica, con la Rivoluzione dell’89, che influenzerà in maniera determinante tutti gli avvenimenti del secolo XIX. Nella Francia di quell’epoca la città è principalmente, se non esclusivamente, Parigi, e tutto il resto è la campagna.
 
“[…] Nella letteratura politica francese la necessità di collegare la città (Parigi) con la campagna era sempre stata vivamente sentita ed espressa; basta ricordare la collana di romanzi di Eugenio Sue, diffusissimi anche in Italia[…] e che insistono con particolare costanza sulla necessità di occuparsi dei contadini e di legarli a Parigi.”[1]
 
Il giacobinismo, complessivamente inteso, è per Gramsci la corrente politica che nella tempesta rivoluzionaria seppe meglio risolvere questa contraddizione, elaborando le soluzioni più avanzate e più appropriate al momento storico.
 
“[…]I giacobini lottarono strenuamente per assicurare un legame tra città e campagna e ci riuscirono vittoriosamente.”[2]
 
Una chiarificazione preliminare si impone per evitare confusione fra il significato del termine “giacobino”, così come è passato nel linguaggio politico comune, ed il suo significato storico:
 
“[…]Il termine di «giacobino» ha finito per assumere due significati: uno è quello proprio, storicamente caratterizzato, di un determinato partito della rivoluzione francese, che concepiva lo svolgimento della vita francese in un modo determinato, con un programma determinato, sulla base di forze sociali determinate e che esplicò la sua azione di partito e di governo con un metodo determinato che era caratterizzato da una estrema energia, decisione e risolutezza, dipendente dalla credenza fanatica della bontà e di quel programma e di quel metodo. Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono scissi e si chiamò giacobino l’uomo politico energico, risoluto e fanatico, perché fanaticamente persuaso delle virtù taumaturgiche delle sue idee, qualunque esse fossero: in questa definizione prevalsero gli elementi distruttivi derivati dall’odio contro gli avversari e i nemici, più che quelli costruttivi, derivati dall’aver fatto proprie le rivendicazioni delle masse popolari, l’elemento settario, di conventicola, di piccolo gruppo, di sfrenato individualismo, più che l’elemento politico nazionale.” [3]
 
La differenziazione fra i due significati sarà essenziale in seguito per capire quanto del significato politico comune è possibile rintracciare in tanti uomini del Risorgimento italiano, descritti, come ad esempio Crispi, per la loro immagine e per il loro carattere come “giacobini”, e quanto poco di giacobinismo storico vi fosse nei programmi e nell’attività del Partito d’Azione di Mazzini e Garibaldi e dei loro epigoni post-unitari.
 
I giacobini furono gli uomini della borghesia francese.
 
“[…]I giacobini conquistarono con la lotta senza quartiere la loro funzione di partito dirigente; essi in realtà si «imposero» alla borghesia francese, conducendola in una posizione molto più avanzata di quella che i nuclei borghesi primitivamente più forti avrebbero voluto «spontaneamente» occupare e anche molto più avanzata di quella che le premesse storiche dovevano consentire, e per ciò i colpi di ritorno e la funzione di Napoleone I. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo (ma prima anche di Cromwell e delle «teste rotonde») e quindi di tutta la grande rivoluzione, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti compiuti irreparabili, cacciando avanti i borghesi a calci nel sedere, da parte di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti, può essere così «schematizzata»: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; aveva una élite intellettuale molto disparata e un gruppo economicamente molto avanzato ma politicamente moderato. …
 
… A mano a mano si viene selezionando una nuova élite che non si interessa unicamente di riforme «corporative» ma tende concepire la borghesia come il gruppo egemone di tutte le forze popolari e questa selezione avviene per l’azione di due fattori: la resistenza delle vecchie forze sociali e la minaccia internazionale. …
 
…I giacobini pertanto furono il solo partito della rivoluzione in atto, in quanto non solo essi rappresentavano i bisogni e le aspirazioni immediate delle persone fisiche attuali che costituivano la borghesia francese, ma rappresentavano il movimento rivoluzionario nel suo insieme, come sviluppo storico integrale, perché rappresentavano i bisogni anche futuri e, di nuovo, non solo di quelle determinate persone fisiche, ma di tutti i gruppi nazionali che dovevano essere assimilati al gruppo fondamentale esistente.”[4]
 
Ed i giacobini non furono solo capaci per la loro risolutezza e determinazione di porsi a capo della classe che rappresentavano e di condurla al successo in un momento particolarmente delicato e difficile, salvando le conquiste della Rivoluzione.
 
Essi ottennero questi risultati storicamente importanti, soprattutto perché continuarono, con una determinazione maggiore di quella messa in campo dagli altri partiti, la politica di alleanze di classe, già avviata dalla Rivoluzione sin dai suoi primi passi e che seppe tenere unita la campagna alla città, attraverso provvedimenti legislativi che divisero fra i contadini il latifondo dei nobili controrivoluzionari ed antipatriottici e della Chiesa.
 
“[…]La prima esigenza era quella di annientare le forze avversarie o almeno ridurle all’impotenza per rendere impossibile una controrivoluzione; la seconda esigenza era quella di allargare i quadri della borghesia come tale e di porla a capo di tutte le forze nazionali, identificando gli interessi e le esigenze comuni a tutte le forze nazionali e mettere in moto queste forze e condurle alla lotta ottenendo due risultati: a) di opporre un bersaglio più largo ai colpi degli avversari, cioè di creare un rapporto politico-militare favorevole alla rivoluzione; b) di togliere agli avversari ogni zona di passività in cui fosse possibile arruolare eserciti vandeani. Senza la politica agraria dei giacobini Parigi avrebbe avuto la Vandea già alle sue porte.”[5]
 
E nonostante l’azione politica dei girondini, che cercavano di far leva sul federalismo per sottrarre la campagna all’influenza politica della città, Parigi, e dei giacobini,
 
“[…]eccetto alcune zone periferiche, dove la distinzione nazionale (e linguistica) era grandissima, la quistione agraria ebbe il sopravvento su le aspirazioni all’autonomia locale: la Francia rurale accettò l’egemonia di Parigi, cioè comprese che per distruggere definitivamente il vecchio regime doveva far blocco con gli elementi più avanzati del terzo stato, e non con i moderati girondini.”[6]
 
Infine, parte integrante della soluzione della contraddizione città-campagna, che il giacobinismo storico seppe dare, è da considerare la forma statale della repubblica parlamentare, attuata in Francia unitamente ad un riordino amministrativo dello Stato, che ripartì il territorio in Dipartimenti, e supportata dall’esistenza dei clubs, embrione dei moderni partiti.
 
“[…]Lo sviluppo del giacobinismo (di contenuto) e della formula della rivoluzione permanente attuata nella fase attiva della Rivoluzione francese ha trovato il suo «perfezionamento» giuridico-costituzionale nel regime parlamentare, che realizza, nel periodo più ricco di energie «private» nella società, l’egemonia permanente della classe urbana su tutta la popolazione, nella forma hegeliana del governo col consenso permanentemente organizzato (ma l’organizzazione del consenso è lasciata all’iniziativa privata, è quindi di carattere morale o etico, perché consenso «volontariamente» dato in un modo o nell’altro).”[7]
 
L’organizzazione del consenso, poi, non può prescindere dall’azione delle associazioni di cittadini, i clubs, che la Rivoluzione francese tenne a battesimo come forma di partecipazione alla cosa pubblica, rivoluzionaria per l’epoca, ancorchè primitiva, che avrà poi, nei grandi partiti di massa della fine dell’800 e del ‘900, la propria espressione più compiuta.
 
“[…]I clubs, […] sono organizzazioni non rigide, tipo «comizio popolare», centralizzate da singole individualità politiche, ognuna delle quali ha il suo giornale, con cui tiene desta l’attenzione e l’interesse di una determinata clientela sfumata ai margini, che poi sostiene le tesi del giornale nelle riunioni del club. È certo che in mezzo agli assidui dei clubs dovevano esistere aggruppamenti ristretti e selezionati di gente che si conosceva reciprocamente, che si riuniva a parte e preparava l’atmosfera delle riunioni per sostenere l’una o l’altra corrente secondo i momenti e anche secondo gli interessi concreti in gioco.…[8]
 
“[…]Già al momento della Festa della Federazione [14 luglio 1790] il Club giacobino poteva contare su milleduecento membri a Parigi e centocinquanta società affiliate nelle province. Nell’aprile 1790 si apriva a Parigi un altro club…, ben presto noto come Club dei cordiglieri…[9]
 
…Un accurato censimento delle “società” politiche esistenti nell’anno II della Rivoluzione (1793-4), l’anno cioè della maggiore diffusione di queste forme di organizzazione, rivela la presenza di cinquemilacinquecento “società”, raggruppate nel 16 % dei comuni francesi (ma sono attive nei due terzi di capoluoghi di regione)…[10]
 
…E’ questo un elemento che sembra caratterizzare questa prima fase, tra il 1789 e 1790, di forte accelerazione della “scoperta” della politica nella Francia rivoluzionaria: punto di riferimento non fu solo Parigi, ma funzionarono “circuiti lenti” di diffusione e costruzione di una nuova identità politica, come quelli testimoniati dal movimento della Federazione e delle vicende della diffusione di quel simbolo rivoluzionario che fu “l’albero della libertà”. Quest’ultimo movimento nacque nelle campagne, nell’inverno del 1790, nel corso della lotta per l’abolizione senza alcun riscatto dei diritti feudali, e si impose poi in tutta la Francia, come simbolo festoso di libertà e dei valori della rivoluzione: da celebrazione e ripresa degli antichi rituali del maggio, che celebravano la fecondità della terra, ad emblema politico nazionale.” [11]
 
In sintesi: un’azione politica risoluta condotta negli interessi della classe borghese, presa nel suo complesso; una saggia politica di alleanze verso i contadini; una nuova forma di Stato e nuovi strumenti di partecipazione alla vita pubblica di larghi strati popolari; queste le ragioni del successo dei giacobini ed il succo della loro politica nella fase attiva della Rivoluzione.
 
“[…]Se è vero che i giacobini «forzarono» la mano, è anche vero che ciò avvenne sempre nel senso dello sviluppo storico reale, perché non solo essi organizzarono un governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di più, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono la compatta nazione moderna francese.”[12]
 
La contraddizione città-campagna trovò, quindi, in Francia una sua soluzione con la nascita dalla rivoluzione della Repubblica francese, basata sull’alleanza fra borghesi e contadini, sotto l’egemonia della borghesia cittadina parigina, egemonia che si realizzò proprio per il tramite del giacobinismo storico e che nella fase della Rivoluzione attiva si presenta nelle forme della partecipazione e del consenso, mentre l’esercizio della forza e della costrizione viene riservato solo ai nemici della Rivoluzione.
 
A questo punto è necessario mettere a fuoco alcuni punti, a mio avviso importanti, per meglio comprendere il concetto di egemonia in Gramsci.
 
Dominio e direzione, conquista del consenso ed esercizio della forza, democrazia e dittatura sono termini antitetici, che concorrono, però, insieme a sostanziare il concetto di egemonia con combinazioni diverse fra loro, a seconda che detto concetto debba essere applicato nell’ambito di un blocco sociale alleato o contro gli avversari di questo blocco, prima o dopo la conquista del potere.
 
“[…]Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche «dirigente».”[13]
 
L’egemonia trova, innanzitutto, il suo fondamento in fattori oggettivi, nella sfera, cioè, dell’economia e della produzione: il carattere progressivo della borghesia e dell’industria capitalistica si manifesta nel fatto che, man a mano che si afferma il modo di produzione capitalistico, esse fagocitano al proprio interno sfere sempre più ampie di attività economica, trasformando in borghesia strati sempre più ampi della antica società feudale.
 
“[…]Questo fatto si verifica «spontaneamente» nei periodi storici in cui il gruppo sociale dato è realmente progressivo, cioè fa avanzare realmente l’intera società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze esistenziali, ma ampliando continuamente i propri quadri per la continua presa di possesso di nuove sfere di attività economico-produttiva. Appena il gruppo sociale dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a sgretolarsi e allora alla «spontaneità» può sostituirsi la «costrizione» in forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di polizia e ai colpi di Stato.”[14]
 
Tuttavia, non l’economia, ma la politica è il luogo principe in cui si confrontano le istanze più o meno coscienti di varie classi e strati sociali; sono i partiti i luoghi in cui si forma e si organizza il consenso e la partecipazione; è lo Stato il luogo in cui si esprime l’egemonia di una classe sulle altre:
 
“[…]L’esercizio «normale» dell’egemonia nel terreno divenuto classico del regime parlamentare, è caratterizzato da una combinazione della forza e del consenso che si equilibrano, senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi appaia appoggiata dal consenso della maggioranza espresso dai così detti organi dell’opinione pubblica (i quali perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente). Tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti, copertamente in via normale, apertamente in caso di pericolo prospettato per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste….”[15]
 
In conclusione, se il regime parlamentare rappresenta la forma “classica” di esercizio dell’egemonia, osservati dallo stesso punto di vista, cioè dal punto di vista dell’egemonia, la forma statale di ogni nazione ed ogni singolo aspetto di questa forma, appaiono come l’espressione di un punto di equilibrio fra forza e consenso ed un periodo storico determinato di una nazione non è altro che il processo di combinazione ed alternanza di questi due aspetti:
 
“[…]In questo processo si alternano tentativi di insurrezione e repressioni spietate, allargamento e restrizioni del suffragio politico, libertà di associazione e restrizioni o annullamenti di questa libertà, libertà nel campo sindacale ma non in quello politico, forme diverse di suffragio, scrutinio di lista o circoscrizioni uninominali, sistema proporzionale o individuale, con le varie combinazioni che ne risultano – sistema delle due camere o di una sola camera elettiva, con vari modi di elezione per ognuna (camera vitalizia ed ereditaria, Senato a termine, ma con elezione dei Senatori diversa da quella dei deputati ecc.) –, vario equilibrio dei poteri, per cui la magistratura può essere un potere indipendente o solo un ordine, controllato e diretto dalle circolari ministeriali, diverse attribuzioni del capo del governo e dello Stato, diverso equilibrio interno degli organismi territoriali (centralismo o decentramento, maggiori o minori poteri dei prefetti, dei Consigli provinciali, dei Comuni, ecc.), diverso equilibrio tra le forze armate di leva e quelle professionali (polizia, gendarmeria), con la dipendenza di questi corpi professionali dall’uno o dall’altro organo statale (dalla magistratura, dal ministero dell’interno o dallo Stato maggiore); la maggiore o minore parte lasciata alla consuetudine o alla legge scritta, per cui si sviluppano forme consuetudinarie che possono ad un certo punto essere abolite in virtù delle leggi scritte (in alcuni paesi «pareva» si fossero costituiti regimi democratici, ma essi si erano costituiti solo formalmente, senza lotta, senza sanzione costituzionale e fu facile disgregarli senza lotta, o quasi, perché privi di sussidi giuridico-morali e militari, ripristinando la legge scritta o dando della legge scritta interpretazioni reazionarie); il distacco più o meno grande tra le leggi fondamentali e i regolamenti d’esecuzione che annullano le prime o ne danno un’interpretazione restrittiva; l’impiego più o meno esteso dei decreti-legge che tendono a sostituire la legislazione ordinaria e la modificano in certe occasioni, «forzando la pazienza» del parlamento fino a giungere a un vero e proprio «ricatto della guerra civile».” [16]


[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.2014
[2] A.Gramsci, op.cit.. pag.2014
[3] A.Gramsci, op.cit.. pag.2017
[4] A.Gramsci, op.cit.. pagg.2027-8
[5] A.Gramsci, op.cit.. pag.2029
[6] A.Gramsci, op.cit.. pag.2029
[7] A.Gramsci, op.cit.. pag.1636
[8] A.Gramsci, op.cit.. pag.57
[9] M.Rosa, M.Verga, Storia dell’Età Moderna 1450-1815. B.Mondatori ,1998, pagg.452-3
[10] M.Rosa, M.Verga, Op. cit., pag.456
[11] M.Rosa, M.Verga, Op. cit., pag.459
[12] A.Gramsci, op.cit.. pag.2029
[13]A.Gramsci, op.cit., pagg.2010-1
[14] A.Gramsci, op.cit., pag.2012
[15] A.Gramsci, op.cit., pag.59
[16] A.Gramsci, op.cit., pagg.1637-8

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