www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 14-02-11 - n. 351

Pubblichiamo, su gentile concessione dell'autore:
Vincenzo De Robertis, A. Gramsci e l’Unità d’Italia
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Vincenzo De Robertis
 
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Indice
 
Capitolo III
 
Nell’Europa della prima metà del secolo XIX crescita demografica ed industrializzazione sono le due forze-motrici di un processo di trasformazione economico-sociale, che si muove in linea contraria al processo politico della Restaurazione.
 
La rivoluzione industriale, avviata in Inghilterra, si estende a poco a poco sul Continente conquistando e trasformando l’attività produttiva di sempre più numerosi Paesi, mentre si verifica un incremento della produzione agricola in quei paesi in cui più radicale è stato il superamento degli ordinamenti feudali.
 
Grandi città nascono e si sviluppano in Europa, effetto dello spostamento di consistenti fette di popolazione dai centri rurali a quelli urbani (urbanizzazione), e, mentre si assiste al progressivo tramonto dei ceti legati alla rendita agraria, nei centri urbani emergono nuove classi sociali legate alle nuove forme di produzione: la borghesia ed il proletariato.
 
Nell’Italia della prima metà del secolo XIX in che termini si pone il rapporto città-campagna ?
 
Occorre, innanzitutto, specificare, con le parole di Gramsci, cosa si debba intendere in Italia per città e che cosa per campagna, dato che la storia della penisola ha scandito in maniera diversa, che in altri paesi europei, lo sviluppo della borghesia.
 
[…]I rapporti tra popolazione urbana e popolazione rurale non sono di un solo tipo schematico, specialmente in Italia. Occorre pertanto stabilire cosa si intende per «urbano» e per «rurale» nella civiltà moderna e quali combinazioni possono risultare dalla permanenza di forme antiquate e retrive nella composizione generale della popolazione, studiata dal punto di vista del suo maggiore o minore agglomerarsi. Talvolta si verifica il paradosso che un tipo rurale sia più progressivo di un tipo sedicente urbano.
 
Una città «industriale» è sempre più progressiva della campagna che ne dipende organicamente. Ma in Italia non tutte le città sono «industriali» e ancor più poche sono le città tipicamente industriali. Le «cento» città italiane sono città industriali, l’agglomeramento della popolazione in centri non rurali, che è quasi doppio di quello francese, dimostra che esiste in Italia una industrializzazione doppia che in Francia? In Italia l’urbanesimo non è solo, e neppure «specialmente», un fenomeno di sviluppo capitalistico e della grande industria.[1]
 
Rispetto a molti altri Paesi europei, che con le monarchie assolutistiche avevano già realizzato l’unificazione del mercato interno, l’Italia manifestava ora, agli inizi del XIX secolo, tutta la sua debolezza, per l’arretratezza economica che la caratterizzava.
 
L’attività industriale, che nel settore tessile (lana, cotone, lino e seta) aveva il suo punto di forza, si presentava in tutti gli Stati della penisola ancora in una posizione complessivamente subordinata rispetto all’agricoltura, che per numero di addetti e per importanza economica restava la principale risorsa delle collettività.
 
La stessa attività manifatturiera, peraltro ancora poco meccanizzata, non conosceva quella concentrazione in grossi centri urbani che, invece, già si era realizzata in Inghilterra e si andava affermando in Europa.
 
Essa, agli inizi del secolo XIX, veniva ancora svolta, prevalentemente, con un decentramento nelle campagne ed il commerciante-imprenditore, antesignano del futuro capitalista, si faceva carico, dopo averlo commissionato, di raccogliere il prodotto finito per venderlo poi sul mercato.
 
La borghesia, che aveva mostrato sin dal tempo dei Comuni la propria incapacità a legare le masse contadine ad un proprio progetto di sviluppo e progresso economico, soccombeva ancora agli inizi del XIX secolo di fronte alla forte presenza della rendita parassitaria.
 
E quello della presenza nefasta della rendita parassitaria nell’economia del Continente, ed in particolare in Italia, è uno dei temi della forte denuncia che Gramsci fa, anche nelle pagine dei Quaderni dedicate ad Americanismo e fordismo, evidenziando come la superiorità economica degli U.S.A. rispetto all’Europa derivi dal fatto:
 
[…]che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione», la «civiltà» europea è invece proprio caratterizzata dall’esistenza di classi simili, create dalla «ricchezza» e «complessità» della storia passata che ha lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito prima professionale poi di leva, ma professionale per l’ufficialità. Si può anzi dire che quanto più vetusta è la storia di un paese, e tanto più numerose e gravose sono queste sedimentazioni di masse fannullone e inutili, che vivono del «patrimonio» degli «avi», di questi pensionati della storia economica. Una statistica di questi elementi economicamente passivi (in senso sociale) è difficilissima, perché è impossibile trovare la «voce» che li possa definire ai fini di una ricerca diretta; indicazioni illuminanti si possono ricavare indirettamente, per esempio dall’esistenza di determinate forme di vita nazionale.
 
Il numero rilevante di grandi e medi (e anche piccoli) agglomerati di tipo urbano senza industria (senza fabbriche) è uno di questi indizi e dei più rilevanti.[2]
 
Nel contesto italiano non è, quindi, la dimensione ed il numero di abitanti l’indicatore sicuro della modernità in senso capitalistico di una città e delle sue caratteristiche produttive. Ne fa testo Napoli.
 
[…]Quella che fu per molto tempo la più grande città italiana e continua ad essere delle più grandi, Napoli, non è una città industriale: neppure Roma, l’attuale maggiore città italiana, è industriale. Tuttavia anche in queste città, di un tipo medioevale, esistono forti nuclei di popolazione del tipo urbano moderno; ma qual è la loro posizione relativa? Essi sono sommersi, premuti, schiacciati dall’altra parte, che non è di tipo moderno ed è la grandissima maggioranza.[3]
 
[…]Napoli è la città dove la maggior parte dei proprietari terrieri del Mezzogiorno (nobili e no) spendono la rendita agraria. Intorno a qualche decina di migliaia di queste famiglie di proprietari, di maggiore o minore importanza economica, con le loro corti di servi e di lacché immediati, si organizza la vita pratica di una parte imponente della città, con le sue industrie artigianesche, coi suoi mestieri ambulanti, con lo sminuzzamento inaudito dell’offerta immediata di merci e servizi agli sfaccendati che circolano nelle strade. Un’altra parte importante della città si organizza intorno al transito e al commercio all’ingrosso. L’industria «produttiva» nel senso che crea e accumula nuovi beni è relativamente piccola, nonostante che nelle statistiche ufficiali Napoli sia annoverata come la quarta città industriale dell’Italia, dopo Milano, Torino e Genova…
 
…Il fatto di Napoli si ripete in grande per Palermo e Roma e per tutta una serie numerosa (le famose «cento città») di città non solo dell’Italia meridionale e delle Isole, ma dell’Italia centrale e anche di quella settentrionale (Bologna, in buona parte, Parma, Ferrara ecc.). Si può ripetere per molta popolazione di tal genere di città il proverbio popolare: quando un cavallo caca, cento passeri fanno il loro desinare. [4]
 
Napoli rappresenta, quindi, l’espressione più ampia ed evidente di questo rapporto parassitario ed oppressivo della città sulla campagna, che secondo Gramsci condiziona anche i piccoli centri della provincia.
 
[…] Il fatto che non è stato ancora convenientemente studiato è questo: che la media e la piccola proprietà terriera non è in mano a contadini coltivatori, ma a borghesi della cittaduzza o del borgo, e che questa terra viene data a mezzadria primitiva (cioè in affitto con corrisponsione in natura e servizi) o in enfiteusi; esiste così un volume enorme (in rapporto al reddito lordo) di piccola e media borghesia di «pensionati» e «redditieri», che ha creato in certa letteratura economica degna di Candide la figura mostruosa del così detto «produttore di risparmio», cioè di uno strato di popolazione passiva economicamente che dal lavoro primitivo di un numero determinato di contadini trae non solo il proprio sostentamento, ma ancora riesce a risparmiare: modo di accumulazione di capitale dei più mostruosi e malsani, perché fondato sull’iniquo sfruttamento usurario dei contadini tenuti al margine della denutrizione e perché costa enormemente; poiché al poco capitale risparmiato corrisponde una spesa inaudita quale è quella necessaria per sostenere spesso un livello di vita elevato di tanta massa di parassiti assoluti. (Il fenomeno storico per cui si è formato nella penisola italiana, a ondate, dopo la caduta dei Comuni medioevali e la decadenza dello spirito d’iniziativa capitalistica della borghesia urbana, una tale situazione anormale, determinatrice di stagnazione storica, è chiamato dallo storico Niccolò Rodolico «ritorno alla terra» ed è stato assunto addirittura come indice di benefico progresso nazionale, tanto le frasi fatte possono ottundere il senso critico).[5]
 
Questo rapporto parassitario della città sulla campagna si accompagna ad un disprezzo ed odio contro il “villano”, contraccambiato da pari sentimenti della campagna verso la città.
 
[…]In questo tipo di città esiste, tra tutti i gruppi sociali, una unità ideologica urbana contro la campagna, unità alla quale non sfuggono neppure i nuclei più moderni per funzione civile, che pur vi esistono: c’è l’odio e il disprezzo contro il «villano», un fronte unico implicito contro le rivendicazioni della campagna, che, se realizzate, renderebbero impossibile l’esistenza di questo tipo di città. Reciprocamente esiste una avversione «generica» ma non perciò meno tenace e appassionata della campagna contro la città, contro tutta la città, tutti i gruppi che la costituiscono.
 
Questo rapporto generale, che in realtà è molto complesso e si manifesta in forme che apparentemente sembrano contraddittorie, ha avuto una importanza primordiale nello svolgersi delle lotte per il Risorgimento, quando esso era ancor più assoluto e operante che non sia oggi.[6]
 
Alla luce di quanto detto sopra, si possono cominciare a raccogliere i primi elementi per giungere ad una spiegazione del mancato sviluppo in Italia del cosiddetto giacobinismo storico e di quanto poco studiata fosse nella penisola l’esperienza della Rivoluzione francese, sin dai primi emulatori, quali furono i giacobini meridionali, ma soprattutto da quei soggetti politici, che saranno poi i protagonisti del Risorgimento.
 
[…] Il primo esempio clamoroso di queste apparenti contraddizioni è da studiare nell’episodio della Repubblica Partenopea del 1799: la città fu schiacciata dalla campagna organizzata nelle orde del cardinale Ruffo, perché la Repubblica, sia nella sua prima fase aristocratica, che nella seconda borghese, trascurò completamente la campagna da una parte, ma dall’altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento giacobino per il quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita agraria a Napoli, poteva essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi cespiti di entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani.[7]
 
(Non è per caso che i decreti contro i privilegi della feudalità furono emanati a Napoli, non durante la Rivoluzione, ma qualche anno più tardi da un francese, Giuseppe Buonaparte, anche se il loro scopo non fu quello di spezzettare il latifondo a vantaggio dei contadini “senza terra” ed il loro risultato fu solo quello di rafforzare la borghesia delle campagne).[8]
 
E’ in questo contesto, caratterizzato, sotto il profilo economico dall’arretratezza e dalla forte presenza di ampi settori di economia parassitaria, sotto il profilo politico dallo spezzettamento in tanti staterelli del territorio peninsulare, con la presenza a nord dell’Austria in funzione di gendarme armato contro ogni rivendicazione di libertà, unità ed indipendenza, che va inquadrata l’analisi delle forze motrici del processo risorgimentale, fatta da Gramsci.
 
[…]Dal rapporto città-campagna deve muovere l’esame delle forze motrici fondamentali della storia italiana e dei punti programmatici da cui occorre studiare e giudicare l’indirizzo del Partito d’Azione nel Risorgimento. Schematicamente si può avere questo quadro: 1) la forza urbana settentrionale; 2) la forza rurale meridionale; 3) la forza rurale settentrionale-centrale; 4-5) la forza rurale della Sicilia e della Sardegna.
 
Restando ferma la funzione di «locomotiva» della prima forza, occorre esaminare le diverse combinazioni «più utili» atte a costruire un «treno» che avanzi il più speditamente nella storia.[9]
 
Il problema che Gramsci affronta in queste pagine dei Quaderni è quello, detto in altri termini, del blocco storico-sociale che la borghesia del Nord doveva porre in essere attraverso una politica di alleanze per realizzare l’obbiettivo della costituzione dello Stato unitario, premessa politico-istituzionale al suo ulteriore sviluppo.
 
Il rapporto è sempre quello generale di città-campagna, che l’analisi gramsciana scompone fra la borghesia industriale (la città), da un lato, e, dall’altro, quattro sezioni delle forze rurali (la campagna) divise fra loro per problemi specifici, come quelli legati alla presenza di correnti indipendentiste in Sicilia e Sardegna
 
La prima forza, la borghesia industriale del Nord, ha due grosse sezioni al suo interno: quella piemontese e quella lombarda, a cui corrispondono anche, come si vedrà più avanti, espressioni politiche differenti, per un certo periodo in contesa fra loro per l’egemonia sull’intero processo;
 
[…]ma rimane fissato che, già «meccanicamente», se tale forza ha raggiunto un certo grado di unità e di combattività, essa esercita una funzione direttiva «indiretta» sulle altre. Nei diversi periodi del Risorgimento appare che il porsi di questa forza in una posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero, determina un’esaltazione delle forze progressive meridionali: da ciò il sincronismo relativo, ma non la simultaneità, nei movimenti del 20-21, del 31, del 48. Nel 59-60 questo «meccanismo» storico-politico agisce con tutto il rendimento possibile, poiché il Nord inizia la lotta, il Centro aderisce pacificamente o quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla sotto la spinta dei garibaldini, spinta relativamente debole.[10]
 
Se un certo grado di unità interna di questa classe consente “meccanicamente” di esercitare un ruolo di direzione (egemonia) sulle altre classi, nella prospettiva della costituzione dello Stato unitario, non sono altrettanto pacificamente risolti i problemi legati all’esercizio dell’egemonia sulle altre classi, una volta preso il potere.
 
Una delle prime questioni è la realizzazione dell’unità interna di classe della borghesia industriale, sia al Nord che al Sud.
 
[…]La prima forza doveva quindi porsi il problema di organizzare intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali e specialmente del Sud. Questo problema era il più difficile, irto di contraddizioni e di motivi che scatenavano ondate di passioni… Ma la sua soluzione, appunto per questo, era uno dei punti cruciali dello sviluppo nazionale.[11]
 
E’ vero che identica, sia al Nord che al Sud, è la posizione della borghesia industriale nel processo produttivo e comune a tutte le sue sezioni territoriali è l’interesse per la costituzione di uno Stato unitario.
 
Tuttavia, diverso è il peso specifico che questa classe esercita nella società civile settentrionale o meridionale:
 
[…]Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi devono trovarsi in una posizione di perfetta uguaglianza. Ciò era vero teoricamente, ma storicamente la quistione si poneva diversamente: le forze urbane del Nord erano nettamente alla testa della loro sezione nazionale, mentre per le forze urbane del Sud ciò non si verificava, per lo meno in egual misura.[12]
 
La questione, perciò, poteva avere diverse soluzioni:
 
Una era quella che la borghesia industriale meridionale rinunciasse a qualsiasi velleità di uguaglianza con quella settentrionale e si limitasse a riconoscerne la funzione egemone.
 
[…]Le forze urbane del Nord dovevano quindi ottenere da quelle del Sud che la loro funzione direttiva si limitasse ad assicurare la direzione del Nord verso il Sud nel rapporto generale di città-campagna, cioè la funzione direttiva delle forze urbane del Sud non poteva essere altro che un momento subordinato della più vasta funzione direttiva del Nord.[13]
 
L’altra ipotesi, partendo dalla perfetta uguaglianza fra le due sezioni, avrebbe potuto estendere quell’uguaglianza fino ai confini dell’indipendenza reciproca.
 
[…]La contraddizione più stridente nasceva da questo ordine di fatti: la forza urbana del Sud non poteva essere considerata come qualcosa a sé, indipendente da quella del Nord; porre la quistione così avrebbe significato affermare pregiudizialmente un insanabile dissidio «nazionale», dissidio tanto grave che neanche la soluzione federalistica avrebbe potuto comporre; si sarebbe affermata l’esistenza di nazioni diverse, tra le quali avrebbe potuto realizzarsi solo un’alleanza diplomatico-militare contro il comune nemico, l’Austria (l’unico elemento di comunità e solidarietà, insomma, sarebbe consistito solo nell’avere un «comune» nemico).[14]
 
Questa seconda ipotesi, però, non ebbe mai modo di affermarsi, anche se forti furono le opposizioni nel Sud al progetto dello Stato unitario, perché
 
[…]era la debole posizione delle forze urbane meridionali in rapporto alle forze rurali, rapporto sfavorevole che si manifestava talvolta in una vera e propria soggezione della città alla campagna. [15]
 
In queste condizioni di inferiorità,
 
…[i]l collegamento stretto tra forze urbane del Nord e del Sud, dando alle seconde la forza rappresentativa del prestigio delle prime, doveva aiutare quelle a rendersi autonome, ad acquistare coscienza della loro funzione storica dirigente in modo «concreto» e non puramente teorico e astratto, suggerendo le soluzioni da dare ai vasti problemi regionali. …
 
…[I]l compito più grave per risolvere la situazione spettava in ogni modo alle forze urbane del Nord che non solo dovevano convincere i loro «fratelli» del Sud, ma dovevano incominciare col convincere se stesse di questa complessità di sistema politico: praticamente quindi la quistione si poneva nell’esistenza di un forte centro di direzione politica, al quale necessariamente avrebbero dovuto collaborare forti e popolari individualità meridionali e delle isole. Il problema di creare una unità Nord-Sud era strettamente legato e in gran parte assorbito nel problema di creare una coesione e una solidarietà tra tutte le forze urbane nazionali.[16]
 
Se queste erano le problematiche connesse al rapporto di alleanza fra la forza urbana settentrionale e le forze produttive del meridione, altri problemi si ponevano nel rapporto con le forze rurali centro-settentrionali, contrassegnate, a differenza di quelle delle tre sezioni meridionali, da una più forte presenza della piccola proprietà contadina.
 
[…]In queste forze rurali occorreva distinguere due correnti: quella laica e quella clericale-austriacante. La forza clericale aveva il suo peso massimo nel Lombardo-Veneto, oltre che in Toscana e in una parte dello Stato pontificio; quella laica nel Piemonte, con interferenze più o meno vaste nel resto d’Italia, oltre che nelle legazioni, specialmente in Romagna, anche nelle altre sezioni, fino al Mezzogiorno e alle isole. Risolvendo bene questi rapporti immediati, le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a tutte le quistioni simili su scala nazionale.[17]
 
Le forza politica che avrebbe dovuto rappresentare gli interessi della borghesia industriale settentrionale, il Partito d’Azione, non fu mai capace di farsi carico di tutte queste problematiche, per dare ad esse una soluzione in senso progressista.
 
[…]Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito d’Azione fallì completamente: esso si limitò infatti a fare quistione di principio e di programma essenziale quella che era semplicemente quistione del terreno politico su cui tali problemi avrebbero potuto accentrarsi e trovare una soluzione legale: la questione della Costituente. Non si può dire che abbia fallito il partito moderato, che si proponeva l’espansione organica del Piemonte, voleva soldati per l’esercito piemontese e non insurrezioni o armate garibaldine troppo vaste. [18]
 
Ne derivò una caratteristica del processo unitario, che Gramsci più volte definì “rivoluzione passiva”, perchè spogliò le masse popolari, che all’epoca erano prevalentemente contadine, del diritto di partecipare alla sua realizzazione, tenendole, anzi, accuratamente lontane e pervenendo, così, alla realizzazione dello Stato unitario, obiettivo di per sé progressista e rivoluzionario (giudicato dai contemporanei come “miracolo”), senza intaccare i rapporti sociali delle campagne, che nel meridione significavano subordinazione della città alla campagna, dell’attività produttiva alla rendita parassitaria.
 

[1] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2035-6
[2] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2141-2
[3] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2036
[4] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2142-3
[5] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2143
[6] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2036
[7] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2036-7
[8] Vedi P.Bevilacqua, Breve storia dell’Italia meridionale. Donzelli Editore. Roma 1996 pagg.3-9
[9] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2042
[10] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2042
[11] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[12] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[13] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[14] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[15] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2043
[16] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2043-4
[17] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2044
[18] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2044

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