www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 12-03-11 - n. 355

Pubblichiamo, su gentile concessione dell'autore:
Vincenzo De Robertis, A. Gramsci e l’Unità d’Italia
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Vincenzo De Robertis
 
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Indice
 
Capitolo VII
 
Sul mercato capitalistico internazionale l’Italia del 1861 si presenta in forte ritardo rispetto a tutti gli altri grandi Paesi dell’Europa: Francia, Inghilterra e Germania. Il reddito nazionale è pari ad un terzo di quello francese ed un quarto di quello inglese. La situazione a grandi linee è ancora connotata da una prevalenza soverchiante dell’agricoltura sull’industria manifatturiera. Su ventisei milioni di abitanti solo il 10 % vive nelle città.
 
L’industria manifatturiera, il cui punto di forza è rappresentato dal comparto tessile, produce solo il 20 % del P.I.L., assorbendo il 18 % della manodopera.
 
“Al momento dell’unificazione”, si legge in un rapporto sull’economia italiana scritto dal Foreign Office inglese, “ le industrie manifatturiere italiane erano piccine e d’importanza solo locale. Gli stabilimenti industriali si annidavano nelle vallate, dove trovavano la forza motrice pronta e non costosa nei torrenti e nei fiumi che le attraversavano. La manodopera era composta prevalentemente da contadini, che spesso possedevano qualcosa di loro; i salari erano bassi, gli scioperi sconosciuti. Non v’era agglomerazione di operai nelle grandi città; barriere doganali dividevano i vari stati, e ragioni politiche trattenevano i cittadini dal porsi deliberatamente in comunicazione gli uni con gli altri” .[1]
 
Nella coltivazione delle campagne, che coinvolge i tre quinti dei terreni coltivabili, essendo gli altri due quinti occupati da paludi e pascolo, sono assenti quasi del tutto le tecniche moderne di produzione.
 
I rapporti di produzione in agricoltura vedono una scarsissima presenza di aziende capitalistiche, prevalentemente nel triangolo Liguria, Piemonte e Lombardia, con una presenza di piccola proprietà contadina distribuita su tutto il territorio nazionale ed una forte presenza del latifondo nel meridione del Paese, dove prevale la coltivazione cerealicola ed il pascolo. Braccianti e mezzadri sono le figure sociali più presenti nel panorama economico-sociale del Mezzogiorno.
 
Fatta eccezione per le poche aziende agricole organizzate con criteri capitalistici, la cui produzione è commercializzata quasi esclusivamente all’estero, e per la produzione cerealicola, la gran parte dell’economia agricola è economia di sussistenza, dove la ristrettezza del mercato e la produzione per l’auto-consumo fanno la parte del leone.
 
“Non solo il piccolo proprietario o il piccolo affittuario della Basilicata e della Calabria,” scrive lo storico economico E. Sereni, “ma anche il mezzadro di regioni assai più progredite, come la Toscana e la Lombardia, all’epoca dell’unificazione ha ancora un legame assai debole col mercato, anche locale: produce e consuma direttamente la maggior parte del prodotto che non deve consegnare al proprietario terriero….[O]gni contadino deve produrre il suo grano, i suoi ortaggi, la sua canapa la sua frutta”.[2]
 
La produzione per l’auto-consumo vede impegnata la famiglia tipica contadina non solo nel settore alimentare, ma in quasi tutti gli altri settori indispensabili alla sopravvivenza (vestiario, suppellettili, attrezzi di cucina e lavoro, ecc.), rendendo in tal modo il mercato nazionale asfittico e limitato.
 
D’altro canto un legame economico pregresso fra Nord e Sud, tale da far pensare all’esistenza di un embrione di mercato unico non esiste, attese le vicende politiche che hanno afflitto la penisola.
 
“Fra questi due mondi economici i contatti per tutto il corso dell’Ottocento erano stati sporadici, perché entrambi orientati all’esportazione di derrate agricole e di materie prime industriali, come la seta, nei ricchi mercati di oltralpe. In nessun caso Nord e Sud costituivano sbocchi di mercato reale per i propri prodotti: il sud vendeva cereali e produzioni specializzate, come olio, vino ed agrumi in Gran Bretagna e Francia o nei suoi tradizionali mercati orientali; il Nord collocava le sue sete gregge, le sue lane, le sue cotonate, nonché i prodotti di un’agricoltura moderna, come il riso, i formaggi ed il frumento, nelle grandi piazze commerciali europee.”[3]
 
Causa-effetto della mancata esistenza di un mercato unico nazionale e la distribuzione scarsa e non omogenea su tutto il territorio nazionale della rete dei trasporti: su 2.100 Km di ferrovie, presenti in Italia nel 1861, 1600 circa sono al Nord, di cui 1000 nel solo Piemonte; la rete stradale vede poco più di 22.500 Km di strade statali e 63.500 comunali, mentre la Francia dello stesso periodo ne conta oltre 400.000 km; la maggior parte dei porti meridionali è attrezzata ad accogliere solo barche a vela, mentre a Genova approdano già i piroscafi a vapore.
 
“Penuria di capitali (mancata accumulazione primitiva), scarsezza di materie prime, assenza di un grande mercato (frazionamento politico del paese): sono queste le circostanze fondamentali che rendono tardivo e difficile in Italia lo sviluppo di una economia capitalistica…
 
L’unità di per sé sola non crea il mercato, ma soltanto una delle condizioni essenziali perché un grande mercato sorga. Perché il paese offra possibilità di investimento e di smercio, occorre attrezzarlo, gettare le basi quindi di una solida finanza giacché – assenti forti nuclei di privati capitalisti – è lo Stato che deve assumersi l’onere della prima attrezzatura” [4]
 
Ma lo stato italiano nasce con un forte debito pubblico, frutto delle prime scelte in politica economica, che adottano i rappresentanti di quel blocco storico, che è stato artefice del processo unitario, e che, dopo l’unificazione, continua a determinare i primi passi del Governo.
 
“Il problema nasce non tanto dalle condizioni obbiettive dell’arretratezza dell’economia italiana dell’epoca, quanto piuttosto dal modo in cui l’oligarchia aristocratico-borghese piemontese ha portato a compimento l’unità d’Italia, e cioè con l’appoggio militare francese e con il sostegno politico degli agrari semifeudali dell’Italia meridionale, al fine di evitare ogni ricorso al popolo e di battere completamente le tendenze democratiche e di sinistra borghese…..
[L]e spese sono enormemente accresciute dal fatto che il nuovo stato unitario si è accollato i pesantissimi deficit degli Stati preunitari, riconoscendo tutto il loro debito pubblico che, invece, avrebbe potuto cancellare, avendo distrutto tali Stati. Ma i titoli del debito pubblico dei territori ex-borbonici ed ex-pontifici, annessi al nuovo regno, sono detenuti per la gran parte da quei grandi proprietari terrieri semifeudali i cui diritti acquisiti i liberali piemontesi si sono impegnati a rispettare, per avere il loro sostegno politico tanto contro le forze reazionarie quanto, e ancor più, contro le forze democratiche; e in parte minore sono detenuti dalle banche francesi i cui interessi sono diventati intangibili, in seguito all’alleanza piemontese con Napoleone III”[5]
 
Ai 500 milioni lire, che lo stato piemontese si porta “in dote” per le spese di guerra del ’59 e l’indennità da pagare all’Austria, si aggiungono i 2.200 milioni di lire del debito pubblico accumulato dagli altri stati pre-unitari.
 
Gli uomini della cosiddetta Destra storica, eredi della politica cavouriana del “connubio”, come Rattazzi e La Marmora, imprenditori piemontesi, come Sella e Lanza, liberali moderati toscani, come Ricasoli, o emiliani, come Minghetti e Farini, perseguono per tutto il quindicennio dal 1861 al 1876 una politica economica basata su due pilastri: il risanamento economico del deficit e l’inserimento dell’Italia nel mercato europeo attraverso una politica liberistica, che ripudia misure protezionistiche.
 
Anche la politica di risanamento del deficit è impostata con l’intento di tutelare gli interessi di classe del blocco di forze aristocratico-borghesi: in generale, viene privilegiata la tassazione indiretta che, gravando sui consumi, colpisce principalmente gli strati popolari, rispetto alla tassazione diretta sul reddito dei possidenti.
 
Così l’imposta fondiaria viene mantenuta decisamente bassa, favorendo la grande proprietà terriera e la rendita, mentre viene penalizzato in misura maggiore il reddito di commercianti ed imprenditori. Sul fronte delle imposte indirette emblematica è la reintroduzione della famigerata “imposta sul macinato”, istituita già dai Borboni e cancellata da Garibaldi, che colpisce il consumo di un bene di primissima ed imprescindibile necessità, come il pane.
 
Parimenti, la scelta di applicare da subito (1860) la tariffa doganale del Piemonte, di gran lunga più bassa di tutte le altre esistenti nei vari stati pre-unitari, se da un lato apre l’Italia ai flussi commerciali europei, dall’altro costringe le zone agricole più dinamiche (pianura padana ed emiliana) ad una più rapida modernizzazione, mentre espone le zone più arretrate e meno competitive a contraccolpi disastrosi.
 
Inoltre, per quanto riguarda l’industria, questa politica doganale sacrifica gli interessi delle già deboli industrie meccaniche e metallurgiche, incapaci di reggere la concorrenza diretta delle più sviluppate industrie europee, favorisce le industrie manifatturiere del nord (tessili), mentre a sud viene portata alla rovina quel poco di attività manifatturiera presente, dove è ancora prevalente, peraltro, il lavoro a domicilio.
 
 Al fine di favorire la costituzione di un vero e proprio mercato nazionale si avvia durante il periodo di governo della Destra una politica economica tesa al potenziamento delle infrastrutture, segnatamente le ferrovie, che sarà continuata anche dalla Sinistra e che vede un intervento diretto dello Stato in economia.
 
Questi investimenti statali, sostenuti da prestiti del capitale bancario internazionale (dal 1861 all’87 il ruolo preponderante – sostiene Grifone nell’opera citata - viene esercitato dalla Banca francese di Pereire, Rotschild, ecc), forniscono l’occasione di grossi guadagni per la nascente “industria pesante” .
 
“L’economia capitalistica italiana si sviluppa, quindi, sin dall’inizio in funzione prevalente dell’intervento dello Stato e del capitale straniero. Il capitalismo italiano ha fin dal suo sorgere un particolare, spiccato interesse al controllo diretto delle leve governative, ed è nel tempo stesso costretto a subire una condizione di semidipendenza rispetto al capitale straniero che ne impaccerà fatalmente il cammino.”[6]
 
Le spese per investimenti nelle infrastrutture, unitamente alle spese militari per il completamento dello stato unitario (alleanza con la Prussia contro l’Austria - III guerra di indipendenza) e per affrontare il brigantaggio (vera e propria guerra interna anti-contadina, durata diversi anni), costringono il Governo della Destra a privare, con una legge del 1866, gli enti ecclesiastici di ogni riconoscimento giuridico. Per effetto della legge i loro immensi patrimoni vengono espropriati senza indennizzo e venduti all’asta a tutto beneficio del deficit di bilancio statale, che viene, così, ad essere più che dimezzato.
 
La Destra storica fornisce un contributo determinante alla costruzione dell’apparato amministrativo del nuovo Stato, unificando le realtà disomogenee degli stati pre-unitari della penisola. La fisionomia della nuova struttura si caratterizza per una forte centralizzazione e uno scarso peso dato alle autonomie locali.
 
Figura centrale sarà il prefetto, emanazione diretta del potere Esecutivo, controllore della vita politica locale, che una riforma legislativa del 1865 istituisce sulla base del modello francese. L’approvazione nello stesso anno del nuovo Codice Civile completa l’operazione tesa ad uniformare legislazione e comportamenti nel neonato stato.
 
L’assillo di tenere sotto stretto controllo la molteplice e variegata realtà del nuovo stato, comporta l’esportazione del modello sabaudo su tutto il territorio, cosa che si unisce alla nomina di personale piemontese o di regioni viciniori, comunque di provata fede governativa, nelle più alte cariche burocratico-amministrative. Tutto ciò ha fatto parlare gli storici di “processo di piemontesizzazione”, che viene percepito, specialmente a Sud, come un’imposizione dall’alto, se non come vera e propria colonizzazione.
 
La reazione a questa imposizione diventa guerra allo stato con il fenomeno del cosiddetto “brigantaggio”, che tiene impegnate per un quinquennio (1861-5) più della metà delle truppe piemontesi (duecentomila unità) e che si concluderà con l’imposizione dell’ordine nelle campagne meridionali, attraverso una carneficina di morti, fucilati ed arrestati (13.853 “briganti” messi fuori combattimento).
 
In realtà dietro il fenomeno del “brigantaggio” vi sono le lotte che i contadini meridionali hanno da tempo avviato per poter utilizzare le terre comuni del demanio, spesso da loro stessi occupate, e per ripristinare gli usi civici; lotte che avevano già indebolito lo Stato borbonico, favorendo l’impresa garibaldina, su cui inutilmente erano state riposte molte speranze, e che ora si acuiscono per effetto di una politica governativa che immiserisce e costringe alla leva obbligatoria, sottraendo braccia all’agricoltura.
 
Il bilancio dei primi quindici anni di vita dello Stato, che è il bilancio della politica seguita dalla Destra storica, mette in risalto, a mio avviso, alcune tare originarie della realtà statuale del nostro Paese, che, nonostante le successive trasformazioni, condizioneranno la vita politica dei decenni successivi, sicuramente fino alla prima metà del secolo XX, e, forse, permangono ancora oggi.
 
La situazione dei consensi intorno allo stato post-unitario è disastrosa: il Risorgimento, realizzato come “rivoluzione passiva”, senza cioè una partecipazione attiva delle masse contadine, sulla base di un blocco sociale minoritario, comporta la mancanza di un sostegno di massa alla nuova entità, che se, invece, ci fosse, consentirebbe scelte più indipendenti ed avanzate.
 
 A ciò si deve aggiungere l’opposizione o, quanto meno, l’assenteismo delle masse cattoliche influenzate dal non expedit papale, l’ostilità aperta di Austria, Borboni e Papato che fomentano e sostengono ogni sommossa interna, nella speranza di ritornare in possesso dei propri territori, ed, infine, la pesante situazione debitoria, dovuta alle scelte di cui si è detto.
 
Tutto ciò spiega, senza ombra di dubbio, l’impostazione e la fisionomia oligarchico-autoritaria che assumono le strutture statuali nascenti.
 
Ma anche la scelta liberista ed antiprotezionista in campo economico, che la Destra opera con grande vantaggio economico per le industrie francesi ed inglesi e che tanti danni apporta, invece, alla nascente economia capitalistica italiana, deve farsi risalire, a mio avviso, a questa debolezza di consensi, che non può non aver influenzato l’atteggiamento politico in campo internazionale dei governati italiani, sempre sensibili alle richieste straniere, piuttosto che spiegarsi come una scelta dettata da motivazioni solo di natura politico-ideologica (che sicuramente pure influiscono).
 
Benché la Destra si impegni con successo alla creazione di infrastrutture indispensabili per lo sviluppo industriale, alla fine del quindicennio del suo governo l’apparato industriale ne esce indebolito: il suo apporto al P.I.L. scende al sotto del 20%; tutti gli operai dell’industria sono nel 1876 appena 380.000, cresciuti nel quindicennio di poche migliaia di unità ed addetti quasi esclusivamente all’industria tessile. All’Esposizione Internazionale di Parigi del 1867 l’arretratezza industriale italiana emerge con chiarezza, specialmente se confrontata con lo sviluppo raggiunto dalle altre potenze europee, anche quelle che, come la Germania, sono pervenute alla creazione del mercato unico nazionale tardivamente.
 
Agli scontenti nel campo degli imprenditori manifatturieri, che sono la quasi totalità della categoria, si aggiungono gli ambienti della Corona e delle alte gerarchie militari a cui vengono tagliati i fondi per esigenze di bilancio e gran parte di finanzieri e banchieri, che non possono lucrare sul debito pubblico statale, che, anzi, nella metà degli anno ’70 viene estinto, coronando con successo un obbiettivo tanto tenacemente perseguito dalla Destra con una politica, che oggi si qualificherebbe di “lacrime e sangue” (allora, senza metafora !).
 
Inoltre, una latente crisi economica di sovrapproduzione relativa nel campo agricolo precipita apertamente con l’apparizione sui mercati europei di derrate alimentari a basso costo, provenienti da paesi emergenti, come gli Stati Uniti per i cereali, facendo scendere i prezzi e provocando una caduta dei redditi in agricoltura; la qual cosa mette definitivamente alle corde la politica liberistica e fiscale della Destra, facendole perdere gli ultimi consensi nel “paese che conta”.
 
I tempi sono maturi per un cambio della guardia. Nel 1876 con l’incarico di Governo conferito a Depretis, la Sinistra va la potere e lo mantiene per un decennio, aprendo la strada ai successivi Governi Crispi.
 
Tre le correnti che la compongono: una facente capo allo stesso Depretis, che discende dalla “sinistra storica” di Rattazzi, protagonista del cavouriano “connubio”; un’altra diretta erede del Partito d’Azione, che fa capo a Cairoli e Zanardelli, che ha al suo interno componenti più radicali (Bertani-Cavallotti), che spingono verso il suffragio universale; infine la terza componente dei cosiddetti “giovani” (De Sanctis-De Luca) e dei meridionalisti (Nicotera), più legati alle istanze del capitalismo delle campagne meridionali.
 
La politica economica cambia subito di segno ed una prima misura protezionistica viene adottata nel 1878 a tutela delle produzioni tessili e siderurgiche. Ad essa farà seguito una più consistente nel 1887.
 
“La siderurgia, la chimica, la cantieristica seppero trarre indubbi stimoli alla crescita e per la prima volta, dall’unità, l’estensione della rete ferroviaria funzionò da moltiplicatore della produzione industriale, utilizzando prodotti nazionali e diminuendo le quote di importazione. L’industria tessile, in particolare la cotoniera, quella più concentrata e meccanizzata, segnò un balzo in avanti di notevoli dimensioni, facendo passare il numero dei fusi da 745.000 del 1876 agli oltre 2 milioni di fine secolo e la produttività per addetto da 940 a 2.250 lire .“[7]
 
Il risanamento del bilancio consente l’avvio di una politica di riduzione fiscale: nel 1877 vengono ridotte l’imposta fondiaria e quella sui fabbricati, viene abolita l’imposta sui traffici di borsa; qualche anno più tardi (1880) verrà abolita la tassa sul macinato.
 
Anche la spesa pubblica comincia a correre:
 
“La politica di “spese”, inaugurata dalla sinistra (caratterizzata da quella spensierata imprevidenza che è tipica dei famelici) ingenera, nel periodo 1876-87, un’ondata di ottimismo e di fittizio rigoglio….L’intervento diretto dello Stato permette il sorgere (grossi ordinativi a condizioni di favore) del primo nucleo di industria pesante: la Terni (1884). Nel 1885 l’esercizio delle ferrovie passa ai privati (Ferrovie Meridionali) a condizioni vantaggiosissime e la marina mercantile attiene favori mai visti (premi di costruzione ai cantieri e sussidi di navigazione agli armatori) “[8]
 
Lo Stato, governato dalla sinistra, si candida a diventare il partner prezioso ed insostituibile dei settori industriale e bancario, perfezionando un meccanismo di raccolta di capitali, già sperimentato con la Destra, ma che ora diventa fondamentale per lo sviluppo di un paese, come l’Italia, dove la penuria di capitali rappresenta uno degli handicap più grossi.
 
“Lo Stato assorbe sotto forma di proventi fiscali, di prestiti interni e di prestiti esteri, la massima parte dei capitali disponibili e li convoglia, mediante una assai duttile politica delle spese, verso gli impieghi più accetti ai gruppi più influenti: costruzioni ferroviarie, opere pubbliche, ordinativi militari. La Banca lucra due volte: Dapprima come intermediaria tra contribuenti, sottoscrittori dei prestiti, banchieri stranieri e Stato (appalto delle imposte, collocamento dei titoli, ecc.), in secondo luogo come intermediaria fra Stato e società finanziarie, nelle quali essa Banca possiede naturalmente partecipazioni di maggioranza.”[9]
 
L’abolizione nel 1883 del corso forzoso, meccanismo che da facoltà ad alcune banche, riconosciute dallo stato, di emettere carta moneta in misura proporzionale alle riserve auree possedute, crea una situazione di euforia generale che fa salire alle stelle prezzi e dividendi.
 
Il denaro facile favorisce la speculazione edilizia e Roma capitale, con i suoi ministeri centrali, i nuovi quartieri da costruire, ne rappresenta il fulcro. Le banche si riempiono di titoli, immobilizzano i loro capitali, investono in impieghi a lungo termine i depositi a breve dei risparmiatori. “ Si crea negli anni 1883-6 - come descrive P.Grifone - la situazione tipica che precede la crisi”.
 
La comparsa di prodotti tedeschi, in un mercato internazionale già saturo per la sovrapproduzione relativa nel triennio 1884-6, è la classica “goccia che fa traboccare il vaso” della crisi ciclica capitalistica, la quale si somma alla crisi agricola già in atto. L’Italia, per le sue debolezze economiche, non smaltirà tanto facilmente gli effetti della crisi, che si protrarranno fino alla fine del secolo; mentre negli altri Paesi capitalistici europei la crisi economica avrà l’effetto di accelerare il processo di concentrazione monopolistica e di formazione del capitale finanziario (fusione industria-banca), nonché la spartizione del mondo in zone di influenza, da cui l’Italia, arrivata in ritardo, resterà fondamentalmente esclusa.
 
Intanto, di fronte alle crescenti difficoltà di smercio dei prodotti ed al conseguente rallentamento degli investimenti, quasi unanime è la richiesta, che sale al Governo dal mondo industriale ed agricolo, di introdurre nuove misure protezionistiche, più consistenti di quelle approvate dieci anni prima.
 
 La tariffa del 1887 grava in modo assai pesante sulle importazioni di ferro e acciaio, di tessuti, di grano e zucchero. A beneficiarne è il blocco agrario-industriale, che al suo interno vede i latifondisti semifeudali produttori di cereali, i capitalisti agrari della Bassa Padana, produttori di barbabietole da zucchero, il nascente capitalismo siderurgico, tessile e zuccheriero, interessato a vendere i propri prodotti sul mercato interno a prezzi più elevati, contando sulle commesse pubbliche, che gli garantiscono i centri di potere burocratico-militare e di Corte.
 
Le misure protezionistiche hanno, però, come conseguenza immediata la rottura dei rapporti commerciali con la Francia, già logorati dalla scelta italiana (1882) di entrare nella Triplice Alleanza, con Austria e Germania, ribaltando le consolidate alleanze internazionali dei decenni precedenti.
 
“La Banca internazionale, in specie quella francese, ritira i capitali investiti a breve in Italia, restringe i fidi, svende la rendita italiana copiosamente collocata all’estero nei decenni precedenti. I titoli [del debito pubblico] rimpatriano, l’aggio sale, la fiducia nella moneta italiana è scossa.”[10]
 
La crisi di liquidità, i forti immobilizzi di capitale, mettono in difficoltà tutto il sistema bancario italiano che nell’immediato deve provvedere con i propri mezzi a questa situazione difficile. Solo dopo un intervallo disastroso (1887-94) il ruolo di principale finanziatore del debito pubblico e, per questa strada, di puntello di tutto il sistema bancario-creditizio italiano, svolto dalla Banca francese fin dai primi anni di vita dello Stato unitario, passa alla Banca tedesca, che lo manterrà fino al 1914.
 
Le inevitabili restrizioni del credito mettono sul lastrico gli speculatori edili, la cui rovina travolge, a sua volta, tutto il sistema creditizio ed, in particolare, gli istituti più esposti. Banca Tiberina viene salvata dallo Stato (Banca Nazionale) con un esborso di cinquanta milioni di lire. Un grosso scandalo coinvolge la Banca Romana, uno dei sei Istituti di emissione di carta-moneta, rafforzatasi negli anni precedenti attraverso legami clientelari con esponenti di Governo, Parlamento e Corona.
 
“La crisi generale, industriale ed agraria, non tarda ad abbattersi anche sui più potenti Istituti di Credito. Le due più grandi Banche italiane, il Credito Mobiliare e la Banca Generale, sono costrette a chiudere gli sportelli alla fine del 1893.”[11]
 
All’ombra delle misure protezionistiche adottate, che le garantiscono il mantenimento di prezzi alti sul mercato interno, mentre crollano all’estero, e sostenuta dalle commesse statali che spesso, sotto forma di anticipi, le garantiscono persino il capitale di esercizio, si consolida l’industria capitalistica nel triangolo Genova-Torino-Milano durante il periodo della crisi economica.
 
Un primo nucleo si forma in Lombardia ed è composto nel milanese da industrie meccaniche che fabbricano caldaie e rotaie (Tosi e la O.M.), macchine da cucire (Necchi), da industrie chimiche (Montecatini), che fabbricano armi a Brescia o cemento a Bergamo; un secondo nucleo a Genova e Torino, dove sono diffuse le aziende che lavorano prevalentemente con le commesse statali, fra cui la cantieristica ligure, ma anche l’industria di trasformazione dello zucchero; un terzo nucleo in Piemonte dove consistenti sono (anche per una presenza pregressa) gli insediamenti industriali tessili.
 
Nel ventennio che chiude il secolo, per effetto della crisi economica e della politica di sostegno offertale dallo Stato, la borghesia capitalistica italiana, industriale ed agraria, acquisisce sempre più peso economico e, di riflesso, in politica si candida sempre più a dirigere con propri uomini lo stesso blocco storico-sociale risorgimentale, che ora gestisce lo Stato.
 
Le condizioni e gli obbiettivi della battaglia politica sono, però, cambiati rispetto al Risorgimento.
 
Allora l’obbiettivo principale da raggiungere era quello di creare uno Stato unitario, sconfiggendo l’Austria, principale ostacolo al suo raggiungimento e dietro cui si raccoglievano i governi ostili e reazionari di tutta la penisola. Ora l’obbiettivo è quello di attrezzare un apparato industriale, agricolo e finanziario, che possa superare la crisi economica in atto e competere alla pari con le altre nazioni più evolute.
 
Lo Stato post-unitario, frutto di quella “rivoluzione-restaurazione” che è stato il Risorgimento, se si è dimostrato, nei primi anni di vita, strumento idoneo a mantenere l’ordine nelle campagne, oggi si trova a dover fronteggiare altri soggetti sociali, diversi dai contadini.
 
Gli operai crescono di numero in legame diretto con lo sviluppo industriale del Paese. Nel 1901 diventeranno due milioni e mezzo. Sempre più concentrati, a differenza del passato, nelle città, dove una popolazione proveniente dalle campagne è emigrata anche per effetto della crisi agraria, lavorano per più di 13 ore al giorno ed i loro bassi salari, bassi anche per la consistente presenza di donne e bambini, sono una delle condizioni essenziali per l’accumulazione capitalistica e per reggere alla concorrenza straniera.
 
A differenza dei contadini, che scontano la parcellizzazione delle condizioni del loro lavoro, e delle prime forme di lavoro manifatturiero, quasi sempre svolto dentro le quattro mura della propria abitazione, il lavoro operaio nell’azienda capitalistica, ancor più quando essa è di grandi dimensioni, concentra in un sol luogo una massa enorme di manodopera e già per questa sola ragione facilita negli operai la presa di coscienza della propria forza collettiva.
 
Tenere gli operai in condizione di soggezione e nell’impossibilità di organizzarsi per rivendicare migliori condizioni di lavoro e di vita, diventa una necessità dettata dalla contraddizione antagonista che regola il rapporto di produzione col capitale di questa nuova classe sociale.
 
Il primo metodo che viene usato, in linea con tutto il sistema di potere del nuovo stato, è il metodo della repressione, già sperimentato nelle lotte contro la “tassa sul macinato” ed il primo uomo che lo pratica è Crispi. Chi è Crispi ?
 
Gramsci ci consegna questo suo ritratto:
 
“[…]Dopo la morte di Depretis i settentrionali non volevano la successione di Crispi siciliano. Già Presidente del Consiglio, Crispi si sfoga col Martini, proclama il suo unitarismo ecc., afferma che non esistono più regionalismi ecc. Sembra questa una dote positiva di Crispi: mi pare invece giusto il giudizio contrario. La debolezza di Crispi fu appunto di legarsi strettamente al gruppo settentrionale, subendone il ricatto, e di avere sistematicamente sacrificato il Meridione, cioè i contadini, cioè di non avere osato, come i giacobini osarono, di posporre agli interessi corporativi del piccolo gruppo dirigente immediato, gli interessi storici della classe futura, risvegliandone le energie latenti con una riforma agraria. Anche il Crispi è un termidoriano preventivo, cioè un termidoriano che non prende il potere quando le forze latenti sono state messe in movimento, ma prende il potere per impedire che tali forze si scatenino: un «fogliante» era nella Rivoluzione francese un termidoriano in anticipo, ecc.”[12]
 
“[…] Per il suo programma Crispi fu un moderato puro e semplice. La sua «ossessione» giacobina più nobile fu l’unità politico-territoriale del paese. Questo principio fu sempre la sua bussola d’orientamento, non solo nel periodo del Risorgimento, in senso stretto, ma anche nel periodo successivo, della sua partecipazione al governo. Uomo fortemente passionale, egli odia i moderati come persone: vede nei moderati gli uomini dell’ultima ora, gli eroi della sesta giornata, gente che avrebbe fatto la pace coi vecchi regimi se essi fossero divenuti costituzionali, gente, come i moderati toscani, che si erano aggrappati alla giacca del granduca per non farlo scappare; egli si fidava poco di una unità fatta da non-unitari. Perciò si lega alla monarchia che egli capisce sarà risolutamente unitaria per ragioni dinastiche e abbraccia il principio dell’egemonia piemontese con una energia e una foga che non avevano gli stessi politici piemontesi. Cavour aveva avvertito di non trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio: Crispi invece subito stabilisce lo stato d’assedio e i tribunali marziali in Sicilia per il movimento dei Fasci e accusa i dirigenti dei Fasci di tramare con l’Inghilterra per il distacco della Sicilia (pseudo-trattato di Bisacquino). Si lega strettamente ai latifondisti siciliani, perché il ceto più unitario per paura delle rivendicazioni contadine, nello stesso tempo in cui la sua politica generale tende a rafforzare l’industrialismo settentrionale con la guerra di tariffe contro la Francia e col protezionismo doganale: egli non esita a gettare il Mezzogiorno e le isole in una crisi commerciale paurosa, pur di rafforzare l’industria che poteva dare al paese una indipendenza reale e avrebbe allargato i quadri del gruppo sociale dominante; è la politica di fabbricare il fabbricante. Il governo della destra dal ’61 al ’76 aveva solo e timidamente creato le condizioni generali esterne per lo sviluppo economico: sistemazione dell’apparato governativo, strade, ferrovie, telegrafi e aveva sanato le finanze oberate dai debiti per le guerre del Risorgimento. La Sinistra aveva cercato di rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo unilaterale della Destra, ma non era riuscita che ad essere una valvola di sicurezza: aveva continuato la politica della Destra con uomini e frasi di sinistra. Crispi invece dette un reale colpo in avanti alla nuova società italiana, fu il vero uomo della nuova borghesia. La sua figura è caratterizzata tuttavia dalla sproporzione tra i fatti e le parole, tra le repressioni e l’oggetto da reprimere, tra lo strumento e il colpo vibrato; maneggiava una colubrina arrugginita come fosse stato un moderno pezzo d’artiglieria.”[13]
 
All’interno, la politica istituzionale di Crispi, attuata quasi ininterrottamente con vari Gabinetti da lui presieduti fino al 1896, rafforza l’apparato politico-amministrativo centralizzato, basato sulla figura del Prefetto, a cui sono date maggiori competenze, unifica l’ordinamento giuridico penale con l’approvazione del Codice Penale Zanardelli (che abolisce la pena di morte e legalizza lo sciopero), estende l’allargamento del suffragio del 1882 ai Comuni, che nei capoluoghi di provincia potranno anche eleggere i Sindaci.
 
In politica estera rafforza l’alleanza con la Triplice, accentuando i contrasti con la Francia. Sotto i suoi governi inizia la penetrazione del capitale tedesco in Italia. L’avventura coloniale italiana, nata con i Governi della Sinistra, si sviluppa con Crispi, anche se quello di Crispi sarà un colonialismo tardivo essendo già avvenuta la spartizione fra le grandi potenze, e tipico di un “capitalismo straccione”, che non ha ancora sviluppato al suo interno quella concentrazione di capitale finanziario in grado di esportare capitali, oltre che merci.
 
“[…]Anche la politica coloniale di Crispi è legata alla sua ossessione unitaria e in ciò seppe comprendere l’innocenza politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra e Crispi che non gliela voleva (e poteva) dare in Italia stessa, che non voleva fare del «giacobinismo economico», prospettò il miraggio delle terre coloniali da sfruttare. L’imperialismo di Crispi fu un imperialismo passionale, oratorio, senza alcuna base economico-finanziaria. L’Europa capitalistica, ricca di mezzi e giunta al punto in cui il saggio del profitto cominciava a mostrare la tendenza alla caduta, aveva la necessità di ampliare l’area di espansione dei suoi investimenti redditizi: così furono creati dopo il 1890 i grandi imperi coloniali. Ma l’Italia ancora immatura, non solo non aveva capitali da esportare, ma doveva ricorrere al capitale estero per i suoi stessi strettissimi bisogni. Mancava dunque una spinta reale all’imperialismo italiano e ad essa fu sostituita la passionalità popolare dei rurali ciecamente tesi verso la proprietà della terra: si trattò di una necessità di politica interna da risolvere, deviandone la soluzione all’infinito. Perciò la politica di Crispi fu avversata dagli stessi capitalisti (settentrionali) che più volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per aver creato il «mito» della terra facile. “[14]
 
Nel decennio in cui si alternano i suoi governi si creano le premesse per lo sviluppo del capitale finanziario, espressione di una concentrazione monopolistica nel settore della grande industria e nel settore dell’alta finanza e di una compenetrazione fra i due settori. Nel 1894 sorge la Banca d’Italia dalla fusione della Banca Nazionale e le due Banche toscane di emissione. Restano ancora fuori, anche se opportunamente rivitalizzanti con denaro pubblico, i due Istituti di emissione meridionali (Banco di Sicilia e di Napoli).
 
Dalla crisi del 1893, che ha visto chiudere gli sportelli dei due più grossi colossi della finanza, Credito Mobiliare e Banca Generale, uno dotato di un portafoglio ricco di significative partecipazioni nei capitali delle principali aziende capitalistiche italiane e l’altra gestore di 650 esattorie, nascono il 1894 due colossi del sistema bancario italiano, protagonisti degli avvenimenti economici degli anni a venire: il Credito Italiano e la Banca Commerciale, quest’ultima con un capitale (20milioni) al 90 % austro-tedesco.
 
La politica dell’ordine pubblico, posta in essere dai governi Crispi prima e poi dai governi di Rudinì e Pelloux è la risposta repressiva del blocco di potere dominante alle prime manifestazioni del nascente soggetto sociale che è la classe operaia.
 
La repressione che Crispi attua nei confronti dei Fasci siciliani, organizzazione di impostazione socialista, che si sviluppa progressivamente nell’isola raccogliendo operai agricoli e delle zolfatare, braccianti, artigiani ed intellettuali cittadini, uniti tutti sulla base di rivendicazioni come l’uso delle terre demaniali, usurpate da una neo-borghesia delle campagne, o come il suffragio universale, culmina con lo scioglimento dell’organizzazione decretato agli inizi del 1894.
 
Faranno seguito le repressioni dei moti contro il caro-vita attuate dal governo di Rudinì, che a Milano porteranno al massacro a cannonate dei manifestanti perpetrato dalla truppe del generale Bava Beccaris (1898) ed i tentativi di mettere fuori-legge il neonato Partito Socialista, attuati dal governo Pelloux.


[1] P.Ortoleva e M.Revelli,Storia dell’Età Contemporanea.Ed scolastiche Bruno Mondatori. Milano 1988. pag.171
[2] P.Ortoleva e M.Revelli,Op.cit. pag.171
[3] Vedi De Bernardi-Guarracino, L’operazione storica, Ed. Bruno Mondadori, vol.3 pag.304
[4] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Ed. Einaudi 1971, pag.5
[5] M.Bontempelli, E.Bruni, Storia e coscienza storica. Trevisini Editore. Milano 1983, pag.257
[6] Pietro Grifone, Op.cit., pagg.6-7
[7] P.Ortoleva e M.Revelli,Op.cit. pag.308
[8] Pietro Grifone, Op.cit., pag.7
[9] Pietro Grifone, Op.cit., pag.6
[10] Pietro Grifone, Op.cit., pag.9
[11] Pietro Grifone, Op.cit., pag.10
[12] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pag.766
[13] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2017-8
[14] A.Gramsci, Op.cit. pagg.2019-20
 

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