www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 19-03-11 - n. 356

Pubblichiamo, su gentile concessione dell'autore:
Vincenzo De Robertis, A. Gramsci e l’Unità d’Italia
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Vincenzo De Robertis
 
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Indice
 
Capitolo VIII
 
L’Italia che si affaccia al balcone del XX secolo, con quarant’anni di vita unitaria alle spalle, ha al suo interno alcuni problemi strutturali che rappresentano le questioni cruciali della sua esistenza e, in un certo senso, le tare più profonde del suo sviluppo futuro.
 
Nel corso della seconda metà dell’800 si è sviluppato un apparato industriale diffuso su tutto il territorio, ma concentrato, soprattutto, nel triangolo Genova - Torino – Milano. Questo sviluppo non riguarda più soltanto l’industria tessile, ma esprime una presenza significativa della cosiddetta “industria pesante” (siderurgia, metallurgia, cantieristica, energia), premessa di uno sviluppo industriale futuro.
 
Nell’agricoltura, pur permanendo ampie zone di colture estensive (cereali o, più in generale, seminativo) o dedicate al pascolo, che, quasi sempre, nascondono rapporti di produzione arretrati, con prevalenza di latifondo e rendita parassitaria, si è incrementato il numero delle aziende agricole di piccole o medie dimensioni dove si investono capitali per realizzare colture intensive (ulivo, vite, barbabietola da zucchero, ecc.), la cui produzione è destinata soprattutto ai mercati esteri.
 
La Banca ha manifestato nel corso della seconda parte del secolo XIX tutta la sua indispensabile funzione di mediazione, consistente nel mettere a disposizione degli imprenditori il denaro necessario per la loro attività produttiva, raccolto dai risparmiatori. Per effetto della crisi del 1887, il sistema bancario ha cominciato a superare la frammentazione iniziale, si è maggiormente concentrato in più grossi istituti di credito ed il capitale bancario si è compenetrato sempre più con il capitale industriale, dando vita a quel fenomeno, chiamato “capitale finanziario”, che tanto condizionerà le scelte politiche ed economiche del XX secolo.
 
In sintesi, l’Italia che si affaccia al XX secolo non è più un paese agricolo-industriale, ma un paese industriale-agricolo ed il blocco storico-sociale, protagonista del processo di unificazione nazionale, composto da aristocrazia agraria e capitalisti del nord con latifondisti del sud, viene ora sostituito da un nuovo blocco sociale che guida ormai il paese:
 
“Tutta l’economia italiana apparirà, infatti, ben presto dominata completamente dalla formidabile coalizione che si viene a stabilire tra alta Banca, Industria pesante (sidero-metallurgia, cantieri, armatori), i cotonieri e gli agro-latifondisti”[1]
 
Lo sviluppo industriale porta con sé l’apparizione nella vita sociale di un nuovo soggetto, la classe operaia, che nel corso del processo unitario è stata, per effetto dell’arretratezza economica, quasi del tutto inesistente o presente solo nei centri urbani più evoluti (C. Cattaneo cita il contributo notevole dato dagli operai milanesi nelle “5 giornate”).
 
Lo sviluppo dell’industria manifatturiera concentra, infatti, nei centri urbani masse di individui impegnati in un processo produttivo, non più indirizzato all’auto-consumo, ma sempre più rivolto al soddisfacimento dei bisogni di un mercato sconosciuto ai produttori, che si allarga in proporzione allo sviluppo delle forze produttive.
 
Il carattere collettivo della produzione è la matrice fondamentale di un nuovo protagonismo delle masse lavoratrici, anzitutto operaie, che in Europa si afferma nella seconda metà del secolo XIX, che conoscerà un espressione significativa in Francia, con la Comune di Parigi e che in Italia comincia a percepirsi negli ultimi due decenni dell’800.
 
Di conseguenza entra in crisi il modello tradizionale di partito che aveva caratterizzato le associazioni conservatrici, liberali, o anche democratico-radicali, protagoniste della vita politica di questo secolo.
 
“Questi “partiti” non avevano organizzazioni stabili, territorialmente diffuse, né grandi apparati di funzionari per organizzare gli iscritti e gli elettori; erano, piuttosto, una rete di notabili locali, accomunati da alcune opzioni ideali e programmatiche, che si attivava in occasione delle elezioni, il cui corpo elettorale consisteva spesso in poche centinaia di aventi diritto.”[2]
 
Espressione di questa nuova soggettività politica sono i partiti socialisti che si costituiscono in Europa alla fine del XIX secolo e si caratterizzano, da subito, come partiti di massa, a cui aderiscono decine di migliaia di lavoratori. La loro costituzione viene preceduta o seguita dalla formazione di sindacati, organizzazioni ancora più ampie, preposte alla contrattazione del salario e di migliori condizioni lavorative.
 
Alla caratteristica ampia del raggruppamento si unisce la struttura piramidale dell’apparato, che abbraccia tutto il movimento, mantenendolo coeso, utilizzando allo scopo la stampa, che, come veicolo di trasmissione delle idee, sostituisce progressivamente il contatto individuale, mano a mano che il livello di istruzione cresce fra gli operai.
 
Infine, alla costituzione dei Partiti Socialisti, nazione dopo nazione, seguendo il percorso di allargamento e rafforzamento della borghesia industriale di ogni paese, si unisce, quasi subito, la costituzione (1889) e lo sviluppo della II Internazionale, organismo che, sul presupposto di interessi comuni agli operai di tutti i paesi, svolge funzioni di coordinamento ed orientamento dei vari Partiti Socialisti in un ambito territoriale più esteso di quella di una singola nazione (ad es.battaglia per le 8 ore).
 
In Italia, alla costituzione del Partito Socialista si arriva alla fine del XIX secolo, dopo varie esperienze vissute dai lavoratori: dal paternalismo delle prime Casse di Mutuo Soccorso (quella di Torino vede Cavour fra i fondatori), alle predicazioni filantropiche, come quelle antisocialiste del Mazzini, passando attraverso il Partito Operaio Italiano (1882), prima espressione autonoma del mondo operaio e per questo affetta da corporativismo esasperato e venata da manifestazioni di luddismo, ed il Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna (1881), costituito dall’anarchico Andrea Costa. Nel 1892 a Genova viene finalmente costituito il Partito dei Lavoratori, che al suo terzo congresso a Parma assumerà la denominazione di Partito Socialista Italiano.
 
Nel 1891 viene costituita la Camera del lavoro di Milano, seguita da quelle di Piacenza, Torino, Bologna e Cremona. Fra i loro compiti quelli di tutelare gli apprendisti, di promuovere leggi a favore di donne e fanciulli lavoratori, di promuovere comitati per l’applicazione delle tariffe di manodopera, di curare arbitrati tra proprietari e lavoratori, di dare impulso alle cooperative. Più tardi (1906), sotto la direzione dei riformisti, verrà costituita la C.G.L., Confederazione Generale del Lavoro, dall’unione di diversi sindacati di categoria.
 
Per le caratteristiche che assume la lotta del movimento operaio, profondamente diverse da quelle delle rivolte dei contadini, per la presenza di un soggetto politico autonomo della classe, quale è il Partito Socialista, mentre nelle campagne la dispersione e l’eterogeneità degli interessi condiziona l’assenza di un partito indipendente dei contadini, si manifesta subito l’impossibilità per il blocco sociale dominante di risolvere questa nuova contraddizione, facendo riferimento solo ai metodi repressivi ed autoritari, che fino a quel momento hanno prevalso sulle opposizioni sociali.
 
Inoltre, la caratteristica del nuovo partito, del suo “modo di fare politica”, non può non condizionare e modificare il sistema di potere basato sul “notabilato”, attraverso cui quel blocco dominante ha esercitato fino a quel momento l’egemonia politica ed il dominio su classi e strati sociali, costringendolo a prendere in considerazione l’ipotesi di dare una facciata più democratica a tutto il sistema.
 
La struttura e la fisionomia che lo Stato unitario si è dato, basandosi sullo Statuto albertino, e l’esclusione della gran massa della popolazione dalla partecipazione attiva alla vita politica nazionale, che viene mantenuta, non solo dalle caratteristiche dei vecchi partiti e dal loro modo di rapportarsi ai cittadini, ma anche dal sistema elettorale, richiedono ora una modifica sostanziale.
 
Nel clima politico segnato dalla nascita di grandi movimenti e partiti di massa e caratterizzato dal dibattito sul sistema di formazione delle liste degli elettori, incombenza di cui si fanno carico i Comuni, che prevede una prova scritta, davanti al notaio, dimostrativa della posseduta alfabetizzatone, dalle contestazioni crescenti e ricorsi per esclusioni illegittime, nasce la proposta del suffragio universale, cavallo storico di battaglia dei movimenti radicali e democratici, di cui ora Giolitti, con un discorso alla Camera del 1911, si fa promotore, intuendo il vantaggio politico che detta sponsorizzazione gli avrebbe conferito.
 
La legge (o meglio le due leggi poi raccolte in un Testo Unico) del 1913 estende il diritto di voto ad otto milioni e mezzo di elettori maschi, pari al 23 % di tutta la popolazione, iscritti nelle liste elettorali sulla base del principio di saper leggere e scrivere o di aver fatto il servizio militare, se ventunenni, oppure anche analfabeti, se trentenni. L’aumento degli elettori è di cinque milioni rispetto ai sistemi precedenti, venendo in tal modo ad essere più rappresentate le regioni meridionali dove l’analfabetismo è più massiccio.
 
“Il diritto di voto fu esteso a quelli che non sapevano leggere e scrivere perché si pensò in Italia – e non a torto, secondo me – che l’esperienza della vita è più importante del saper leggere e scrivere. Un contadino poteva anche non saper leggere e scrivere, ma se era stato in America ed era ritornato a casa con un gruzzolo di denaro guadagnato col lavoro, possedeva una maggiore conoscenza del mondo, che, per esempio, il giovin signore, che leggiucchiava i romanzi francesi, ma non aveva mai avuto nella vita da superare altra difficoltà che quella di aggiustarsi la cravatta davanti allo specchio.”[3]
 
Con la legge del 1913 vengono anche adottate misure per scoraggiare i brogli attraverso le schede ed attuare un maggior controllo imparziale sulle operazioni di voto, prima gestite dagli stessi candidati. Inoltre, è assicurata ai deputati eletti un’indennità per garantire parità di situazione ed evitare la consuetudine di farsi remunerare per le leggi approvate.
 
I Collegi elettorali uninominali sono costituiti con l’indicazione di massima di settantamila abitanti ciascuno e composti da un numero variabile di elettori, per cui si pone subito un problema di perequazione della rappresentanza.
 
I risultati elettorali, benché segnino un ridimensionamento dell’area liberale (da 370 a 307) non vedono il tanto temuto trionfo del partito socialista, che passa a 52 deputati, mentre i democratici repubblicani eleggono 71 deputati . Il merito della “tenuta” del sistema lo si deve al cosiddetto Patto Gentiloni, con cui Giolitti si assicura l’appoggio del voto cattolico, che in tal modo supera, almeno in 330 collegi, lo steccato del non expedit.
 
Se la “questione operaia”, prodotto “naturale” dello sviluppo economico, rappresenta un nodo essenziale per la sopravvivenza del sistema di potere e del blocco di forze sociali che lo esercita, la “questione Vaticana” segue a ruota la prima nell’ordine politico delle problematiche, a cui dare soluzione, per garantire una stabilità sociale e politica allo Stato unitario.
 
Come si è detto prima, lo Stato Pontificio aveva rappresentato nei secoli precedenti l’ostacolo più consistente alla formazione di uno stato italiano unito sul territorio della penisola e, per questa via, alla creazione di un mercato unico che favorisse, attraverso gli scambi, la nascita della nuova classe sociale, la borghesia, che negli altri paesi europei era, invece, cresciuta negli stati retti dalle monarchie assolutistiche.
 
La breccia di Porta Pia (1870) simbolicamente mette la parola fine ad undici secoli di storia del potere temporale dei papi e la successiva legge sulle Guarentigie (1871) ricompone (dal punto di vista dello Stato italiano) il conflitto, riconoscendo personalità giuridica internazionale al nuovo Stato vaticano, libertà di movimento ed indipendenza al Pontefice, a cui vengono assegnati alcuni palazzi romani, oltre ad una dotazione finanziaria annua.
 
Se questa politica ed i conflitti con il Vaticano determinano la nascita di un nuovo stato italiano laico, in linea con il dettato cavouriano di “libera Chiesta in libero Stato”, lo privano, però, del consenso attivo dei cittadini cattolici, a cui il Pontefice impone, con il non expedit (1874),il divieto di partecipare alla vita politica attiva del nuovo Stato, costituendo, così, un altro fattore di debolezza ed instabilità della nuova realtà politico-istituzionale.
 
Dal punto di vista cattolico viene coniata una formula per indicare la separazione dallo Stato unitario. “ Italia reale e Italia legale”. E’ questa
 
“[…]la formula escogitata dai clericali dopo il 70 per indicare il disagio politico nazionale risultante dalla contraddizione tra la minoranza dei patriotti decisi e attivi e la maggioranza avversa (clericali e legittimisti-passivi e indifferenti). …
 
La formula è felice dal punto di vista «demagogico» perché esisteva di fatto ed era fortemente sentito un netto distacco tra lo Stato (legalità formale) e la società civile (realtà di fatto), ma la società civile era tutta e solamente nel «clericalismo»?
 
Intanto la società civile era qualcosa di informe e di caotico e tale rimase per molti decenni; fu possibile pertanto allo Stato di dominarla, superando volta a volta i conflitti che si manifestavano in forma sporadica, localistica, senza nesso e simultaneità nazionale. Il clericalismo non era quindi neanche esso l’espressione della società civile, perché non riuscì a darle un’organizzazione nazionale ed efficiente, nonostante esso fosse un’organizzazione forte e formalmente compatta: non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che in un certo senso controllava.
 
La formula politica del «non expedit» fu appunto l’espressione di tale paura ed incertezza: il boicottaggio parlamentare, che pareva un atteggiamento aspramente intransigente, in realtà era l’espressione dell’opportunismo più piatto. L’esperienza politica francese aveva dimostrato che il suffragio universale e il plebiscito a base larghissima, in date circostanze, poteva essere un meccanismo favorevolissimo alle tendenze reazionarie e clericali …; ma il clericalismo italiano sapeva di non essere l’espressione reale della società civile e che un possibile successo sarebbe stato effimero e avrebbe determinato l’attacco frontale da parte delle energie nazionali nuove, evitato felicemente nel 1870. …
 
Tuttavia l’atteggiamento clericale di mantenere «statico» il dissidio tra Stato e società civile era obbiettivamente sovversivo e ogni nuova organizzazione espressa dalle forze che intanto maturavano nella società, poteva servirsene come terreno di manovra per abbattere il regime costituzionale monarchico: perciò la reazione del 98 abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente alleati.
 
Da questo momento comincia pertanto una nuova politica vaticanesca, con l’abbandono di fatto del «non expedit» anche nel campo parlamentare (il Comune era tradizionalmente considerato società civile e non Stato) e ciò permette l’introduzione del suffragio universale, il patto Gentiloni e finalmente la fondazione nel 1919 del Partito Popolare.” [4]
 
Infine, il terzo nodo cruciale, che lo stato unitario non riesce ancora a sciogliere, che, anzi, s’aggroviglia maggiormente nei suoi primi cinquant’anni di vita, è quello del distacco esistente fra le masse meridionali, prevalentemente contadine, ed il nuovo Stato. Un distacco determinato fondamentalmente dal modo in cui si è realizzato il processo unitario, dal blocco storico sociale che ne ha costituito la spina dorsale e dalle forze politiche che lo hanno diretto. Un distacco che continua ad essere alimentato dal mancato sviluppo del Meridione d’Italia, in relazione, invece, al progresso economico che il resto del Paese registra nello stesso periodo.
 
E’ la “questione meridionale”, di cui il ceto politico nazionale comincia a prendere coscienza attraverso inchieste socio-economiche, come quella condotta da S. Sonnino e L. Franchetti poco dopo l’unificazione, ma soprattutto dalla pubblicistica di intellettuali come G. Fortunato, P. Villari ed altri, che denunciano l’arretratezza del Meridione, chiamando la politica governativa ad un maggiore impegno che corregga il divario.
 
Sarà, però, Gramsci, sin dal saggio su Alcuni temi della questione meridionale, scritto prima del suo arresto e pubblicato solo nel 1930, e poi negli scritti dal carcere, a dare per primo alla questione meridionale un’impostazione che ne ricollega la genesi alle modalità di realizzazione del processo unitario, descrivendo il blocco sociale delle campagne che tiene uniti i contadini agli interessi degli agrari ed il ruolo svolto dagli intellettuali meridionali, come trade-union di questo blocco.
 
Le già esigue basi di consenso al nuovo Stato da parte delle masse meridionali vengono ulteriormente erose da scelte politico-istituzionali che coinvolgono settori diversi di popolazione. Tale è ad esempio la perdita del ruolo di capitale che subisce, dopo la caduta del Regno dei Borboni, Napoli, in precedenza sede della Corte, di Ministeri e delle alte gerarchie dell’Esercito e dell’apparato burocratico-amministrativo. Così come ugualmente vi contribuisce l’iniziale processo di piemontesizzazione dell’apparato amministrativo, di cui si è già parlato.
 
Non spezzando quei rapporti di dominio vigenti nelle campagne meridionali e preesistenti all’unificazione, che si accompagnano spesso a manifestazioni gratuite di arbitrio da parte dei notabili locali, a cui spesso viene affidato anche l’onere della riscossione delle tasse, lo Stato unitario rinuncia ad introdurre elementi di discontinuità con lo Stato borbonico, necessari per conquistare in proprio la fiducia delle masse, la quale finisce, così, per restare riposta nel potere preesistente.
 
Inoltre, camorra e mafia, strutture criminali violente presenti a Napoli e Sicilia, spesso colluse con i notabili di un paese, non trovando opposizione da parte del nuovo Stato, vi si integrano, cogliendo, con l’inserimento nell’apparato amministrativo pubblico, un’opportunità per allargare il proprio potere-controllo sul territorio, potere alternativo a quello dello Stato, anche se con esso temporaneamente colluso.
 
La questione meridionale, che con le altre due questioni (operaia e vaticana) contribuisce all’instabilità dello Stato, alimenta la sua portata “destabilizzante” per effetto del divario economico-produttivo fra Nord e Sud e per le responsabilità politiche di chi perpetua questo divario e tiene le masse meridionali in uno stato di costante miseria.
 
Ma a chi o a che cosa attribuire la responsabilità di questo divario crescente fra due Italie ?
 
Criticando la tesi di chi (Nitti e Barbagallo) attribuisce la responsabilità del divario prevalentemente, se non esclusivamente, alla politica economica dei governi della Destra e della Sinistra storica,[5] R. Morandi invita a non isolare ed astrarre il processo di sviluppo economico differenziato fra le due Italie dal diverso contesto economico-sociale, in cui questo processo si realizza:
 
“Al momento dell’unificazione politica, che si compì nel ’60 – ‘61, il Sud si trovava a conferire un patrimonio industriale di entità non irrilevante, considerato naturalmente in relazione allo stato del Nord. L’attività industriale si addensava per intero attorno a Napoli ed a Salerno. Si trattava di alcuni grossi cotonifici, di impianti per la lavorazione meccanica del lino e della canapa, di fonderie e di qualche importante stabilimento per costruzioni di grossa meccanica, prevalentemente dediti a lavorazioni di stato. Da aggiungere un industria cantieristica, che aveva principiato a svilupparsi dopo il 1830.
 
Ma questo complesso produttivo…era paragonabile ad una pianta di serra cresciuta in un clima di forte protezionismo, e costituiva quasi un corpo solo con lo stato borbonico. Si trattava di un’industria sprovveduta del tutto di legami con l’economia di queste regioni, che era in arretrato di qualche secolo. …
 
La verità è che l’industria meridionale subì colpi dal liberalismo prima e ne subì poi per effetto del protezionismo, perché non possedeva in sé stessa alcuna forza vitale e non aveva radici. E’ piuttosto la profonda disparità di livello di due economie, a questa epoca in assoluta preponderanza agricola che, determinando la caduta verticale dell’industria meridionale e l’industrializzazione seppur tardiva del Nord, sarà causa vera della divisione irrimediabile di due Italie “[6]
 
Per il sentiero indicato da R. Morandi si ritorna alla strada maestra del blocco storico-sociale protagonista del Risorgimento e si ripercorre il processo unitario che, anche per i limiti soggettivi del partito che avrebbe dovuto rappresentare gli interessi della borghesia industriale settentrionale e meridionale, poco aveva modificato dei rapporti sociali nel meridione.
 
L’industria meridionale, non avendo un ambiente circostante in grado di assorbire i prodotti da essa stessa fabbricati (il mercato era infatti quasi del tutto inesistente per la prevalenza di un’economia agricola basata sull’auto-consumo, che l’arretratezza dei rapporti produttivi rendeva oltremodo stabile), si pone come “cattedrale nel deserto”, più facilmente influenzabile, perciò, dalle politiche governative, ora liberiste, ora protezioniste, e dalle crisi economiche cicliche del capitalismo.[7]
 
Peraltro, un vero e proprio mercato economico unico nazionale, a cui l’industria meridionale si possa rivolgere, non esiste al momento dell’unificazione, attesa la frammentazione politica vissuta dalla penisola fino a quel momento e la situazione di arretratezza economica complessiva. Di conseguenza, la politica economica dei governi, tesa a creare infrastrutture (strade e ferrovie) necessarie a realizzare l’obbiettivo, non riuscirà che a creare solo le premesse per lo sviluppo di un mercato unico, il quale dovrà attendere altri avvenimenti per cominciare a realizzarsi e, comunque, anche quando si realizzerà, vedrà il Sud in posizione di semi-colonia rispetto al Nord del paese.
 
A proposito della questione meridionale è opportuno riferire delle idee espresse da R.Romeo in alcuni articoli apparsi sulla rivista Nord-Sud, alla fine degli anni ’50, e poi riprese nel volume Risorgimento e capitalismo, edito da Laterza nel 1970, in aperta polemica con Gramsci .
 
Le tesi di Romeo, che pure contengono imprecisioni e travisamenti della teoria marxista e delle opinioni di Gramsci, come puntigliosamente documentato da Aurelio Macchioro [8], per il loro contenuto si possono sintetizzare, grosso modo, così:
 
1. non era possibile dare uno sbocco al processo unitario diverso da quello che realmente esso assunse (stato autoritario, compressione al Sud delle esigenze del capitalismo industriale ed agrario e salvaguardia della rendita parassitaria) per i rapporti di forza internazionali, che avrebbero impedito una rivoluzione in Italia con caratteristiche politico-economiche più avanzate;
 
2. l’accumulazione-utilizzo delle risorse finanziarie, necessarie allo sviluppo industriale, che si ebbe nella seconda metà del secolo XIX, doveva necessariamente essere pagata e sopportata dalle masse popolari italiane, che per l’epoca voleva dire contadine, perché non si poteva fare diversamente di come si fece. Eppoi, da sempre ed in tutti i paesi, non è forse avvenuta la stessa cosa ? (Vedi il processo di accumulazione originaria-primitiva in Inghilterra, descritto da Marx nel I volume del Capitale, ma anche il processo di industrializzazione nell’URSS di Stalin);
 
3. i sacrifici affrontati ieri, saranno compensati dallo sviluppo industriale meridionale del domani (!), reso possibile dallo sviluppo industriale al Nord.
 
In premessa, vorrei dire che, sotto il profilo del metodo, l’impostazione di Romeo mi sembra viziata da una sorta di “determinismo storico”, che, guardando gli avvenimenti passati col “senno di poi”, rende tutto il reale razionale, per il semplice fatto di essere accaduto, sterilizzando, così, il contributo che “l’elemento soggettivo” apporta sempre allo sviluppo degli avvenimenti.
 
Si giunge così a sopravvalutare l’apporto dato dai fattori internazionali (rapporti fra le potenze europee) nel processo che portò al raggiungimento dell’obbiettivo di creare lo Stato Unitario, ridimensionando, invece, il “fattore interno”, il ruolo, cioè, esercitato dalle forze politiche e sociali italiane, che furono unite nello scopo comune, anche se differenziate sul modo come raggiungerlo, e dimenticando che gli avvenimenti storici del passato e quelli politici del presente sono sempre il frutto di un punto di equilibrio fra le potenzialità di una situazione oggettiva e l’intervento umano che, con la sua soggettività, quelle potenzialità trasforma in effetto.
 
La polemica di Romeo con Gramsci credo, poi, che risenta in qualche modo del dibattito politico su industrializzazione e Mezzogiorno, che si andava sviluppando negli anni ’50, quando Romeo scrisse i primi saggi, e che vedeva il Partito Comunista impegnato a rivendicare, forte dell’insegnamento gramsciano, uno sviluppo economico per il Sud del Paese, che facesse finalmente giustizia dei rapporti produttivi arretrati in agricoltura e lo attrezzasse con un apparato industriale degno di questo nome.
 
Si potrebbero spiegare, forse, così i richiami all’accumulazione primitiva descritta da Marx ed all’industrializzazione in Urss, che nella logica del Romeo avrebbero dovuto togliere, con la loro autorevolezza, credibilità alle tesi avverse, spesso bollate di “dottrinarismo ed astrattismo”. Queste tesi saranno definitivamente sconfessate, secondo Romeo, dallo sviluppo economico in atto. “L’inferiorità del mezzogiorno si presentò infatti per un certo periodo, e sotto certi aspetti si presenta tuttora [1970], come una condizione storica dello sviluppo del Nord, ma si tratta di una condizione “temporanea” (anche se si è protratta per molti decenni), e destinata ad essere rovesciata dallo stesso sviluppo interno dell’industrialismo settentrionale”[!]
 
Peccato che queste opinioni, espresse da Romeo a conclusione del volume citato, edito da Laterza nel 1970, si siano dimostrate, dopo trentasette anni, completamente infondate, dato che il divario fra le due realtà del nostro Paese, invece di ridursi, si è ulteriormente allargato in questo periodo.
 
Infine, sulla tesi di Romeo circa una presunta ineluttabilità del processo di accumulazione capitalistica in Italia, così come si è realizzato dopo la formazione dello Stato unitario, mi sembra chiarificante riportare quanto Gramsci stesso dice a riguardo:
 
[…] “È giusto il criterio generale che occorra esaminare il costo dell’introduzione di una certa industria nel paese, chi ne ha fatto le spese, chi ne ha ricavato vantaggi e se i sacrifizi fatti non potevano esserlo in altra direzione più utilmente, ma tutto questo esame deve esser fatto con una prospettiva non immediata, ma di larga portata. D’altronde il solo criterio dell’utilità economica non è sufficiente per esaminare il passaggio da una forma di organizzazione economica ad un’altra; occorre tener conto anche del criterio politico, cioè se il passaggio sia stato obbiettivamente necessario e corrispondente a un interesse generale certo, anche se a scadenza lunga.
 
Che l’unificazione della penisola dovesse costare sacrifizi a una parte della popolazione per le necessità inderogabili di un grande Stato moderno è da ammettere; però occorre esaminare se tali sacrifici sono stati distribuiti equamente e in che misura potevano essere risparmiati e se sono stati applicati in una direzione giusta. Che l’introduzione e lo sviluppo del capitalismo in Italia non sia avvenuto da un punto di vista nazionale, ma da angusti punti di vista regionali e di ristretti gruppi e che abbia in gran parte fallito ai suoi compiti, determinando un’emigrazione morbosa, mai riassorbita e di cui mai è cessata la necessità, e rovinando economicamente intere regioni, è certissimo. L’emigrazione infatti deve essere considerata come un fenomeno di disoccupazione assoluta da una parte, e dall’altra come manifestazione del fatto che il regime economico interno non assicurava uno standard di vita che si avvicinasse a quello internazionale tanto da non far preferire i rischi e i sacrifizi connessi con l’abbandono del proprio paese a lavoratori già occupati).”[9]
 
“Questione operaia”, “questione meridionale”, che è poi la questione dei contadini, e “questione Vaticana”, sono le tre spine nel fianco dello Stato Italiano, alle prese con una carenza di consensi, che si porta dietro dalla nascita, che ne mina costantemente la stabilità, spingendo le classi dominanti a ricercare nel conflitto e nella repressione la via d’uscita ai contrasti sociali.
 
I Governi di fine secolo XIX, Crispi, Rudinì e Pelloux, sono la più chiara espressione di questa politica, che, nonostante la violenza repressiva e le misure liberticide adottate (per il Governo Pelloux si parlerà di fallito “colpo di Stato”), non si dimostra in grado di venire a capo delle costanti agitazioni.
 
Chi tenterà di adottare un metodo diverso per risolvere le contraddizioni sociali, sarà G. Giolitti, che governerà l’Italia quasi ininterrottamente per il primo quindicennio del nuovo secolo, tanto da far parlare gli storici di “età giolittiana”, con riferimento alla diversità ed al lungo periodo della sua gestione del potere.
 
Convinto di poter gestire con la trattativa i conflitti sociali, avendo di fronte masse organizzate, come erano quelle operaie nei sindacati, e di dover far ricorso alla forza pubblica di fronte a “masse inorganiche”, come erano quelle contadine, Giolitti punta ad un’alleanza fra industriali del nord ed operai, finalizzata alla realizzazione di una legislazione che renda migliori le condizioni lavorative operaie, chiedendo in cambio ai capi socialisti un sostegno alla politica statale di tipo protezionistico verso la grande industria.
 
[…] “…il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel Nord un blocco «urbano» (di industriali e operai) che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale.
 
Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto «disciplinato» con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini (nella commemorazione di Giolitti, scritta da Spectator – Missiroli – nella «Nuova Antologia» si fa le meraviglie perché Giolitti si sia sempre strenuamente opposto a ogni diffusione del socialismo e del sindacalismo nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e ovvia, poiché un protezionismo operaio – riformismo, cooperative, lavori pubblici – è solo possibile se parziale; cioè ogni privilegio presuppone dei sacrificati e spogliati); misure poliziesche-politiche: favori personali al ceto degli «intellettuali» o paglietta, sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di permessi di saccheggio impunito delle amministrazioni locali, di una legislazione ecclesiastica applicata meno rigidamente che altrove, lasciando al clero la disponibilità di patrimoni notevoli ecc., cioè incorporamento a «titolo personale» degli elementi più attivi meridionali nel personale dirigente statale, con particolari privilegi «giudiziari», burocratici ecc.
 
Così lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale, un suo accessorio di polizia privata. Il malcontento non riusciva, per mancanza di direzione, ad assumere una forma politica normale e le sue manifestazioni, esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario, venivano presentate come «sfera di polizia» giudiziaria. In realtà a questa forma di corruzione aderivano sia pure passivamente e indirettamente uomini come il Croce e il Fortunato per la concezione feticistica dell’«unità»….”[10]
 
La politica di Giolitti viene resa possibile dalla fase e di sviluppo industriale vertiginoso, che l’Italia conosce a partire dagli ultimi anni dell’800, dopo aver sofferto la crisi ciclica del 1887, e che durerà ininterrottamente fino al 1907, quando una nuova crisi economica ciclica, che si manifesta nell’economia capitalistica mondiale, ne rallenterà i ritmi di crescita.
 
“Si prevede un era di grandi affari e perciò ci si incammina, senza tante esitazioni, verso crescenti investimenti, né ci si preoccupa, come un tempo, di scioperi e richieste di miglioramento, perché riesce piuttosto agevole soddisfare queste ultime con i grossi margini dei grossi affari”[11]
 
A questa crescita industriale si aggiunge la stabilità e la piena convertibilità con l’oro da parte della lira, garantita anche dalle rimesse, che dall’estero cominciano ad inviare gli emigrati, consentendo di avviare una politica statale di incremento della spesa pubblica a sostegno della grande industria, ormai fusa con l’alta finanza. L’età giolittiana corrisponderà al periodo di maggior sviluppo del capitale finanziario.
 
Il Partito Socialista, diretto dai riformisti come Turati, sostiene in Parlamento, insieme a democratici e radicali, la politica giolittiana, fino a quando le condizioni economiche cambiano per effetto della crisi economica internazionale, iniziata nel 1907, fino a quando le spese militari dell’avventura coloniale in Libia non cominciano ad incidere pesantemente sul bilancio statale e nel Partito Socialista la componente riformista viene messa in minoranza dai massimalisti di C. Lazzari e dal distacco dei cosiddetti “riformisti di destra” (Bissolati, Bonomi, ecc.), che avevano appoggiato la guerra coloniale.
 
“[…[ Il programma di Giolitti fu «turbato» da due fattori: 1) l’affermarsi degli intransigenti nel partito socialista sotto la direzione di Mussolini e il loro civettare coi meridionalisti (libero scambio, elezioni di Molfetta ecc.), che distruggeva il blocco urbano settentrionale; 2) l’introduzione del suffragio universale che allargò in modo inaudito la base parlamentare del Mezzogiorno e rese difficile la corruzione individuale (troppi da corrompere alla liscia e quindi apparizione dei mazzieri).
 
Giolitti mutò «partenaire», al blocco urbano sostituì (o meglio contrappose per impedirne il completo sfacelo) il «patto Gentiloni», cioè, in definitiva, un blocco tra l’industria settentrionale e i rurali della campagna «organica e normale» (le forze elettorali cattoliche coincidevano con quelle socialiste geograficamente: erano diffuse cioè nel Nord e nel Centro) con estensione degli effetti anche nel Sud, almeno nella misura immediatamente sufficiente per «rettificare» utilmente le conseguenze dell’allargamento della massa elettorale.”[12]
 
Alla fine “l’età giolittiana” non modificò la composizione del blocco di potere che aveva governato l’Italia fino a quel momento, chè, anzi, rafforzando il capitale finanziario, dette maggior peso all’interno di quel blocco alla grande industria ed all’alta finanza, senza, peraltro, ridimensionare la presenza degli agrari; né segnò un cambiamento radicale dei metodi di gestione del potere perché si guardò bene dal
 
“[…]…distruggere le vecchie consorterie e cricche particolaristiche, che vivevano parassitariamente sulla polizia statale che difendeva i loro privilegi e il loro parassitismo e determinare una più larga partecipazione di «certe» masse alla vita statale attraverso il Parlamento.
 
Bisognava, per Giolitti, che rappresentava il Nord e l’industria del Nord, spezzare la forza retriva e asfissiante dei proprietari terrieri, per dare alla nuova borghesia più largo spazio nello Stato, e anzi metterla alla direzione dello Stato. Giolitti ottenne questo con le leggi liberali sulla libertà di associazione e di sciopero ed è da notare come nelle sue Memorie egli insista specialmente sulla miseria dei contadini e sulla grettezza dei proprietari. Ma Giolitti non creò nulla: egli «capì» che occorreva concedere a tempo per evitare guai peggiori e per controllare lo sviluppo politico del paese e ci riuscì.
 
In realtà Giolitti fu un grande conservatore e un abile reazionario, che impedì la formazione di un’Italia democratica, consolidò la monarchia con tutte le sue prerogative e legò la monarchia più strettamente alla borghesia attraverso il rafforzato potere esecutivo che permetteva di mettere al servizio degli industriali tutte le forze economiche del paese. È Giolitti che ha creato così la struttura contemporanea dello Stato Italiano e tutti i suoi successori non hanno fatto altro che continuare l’opera sua, accentuando questo o quell’elemento subordinato.
 
Che Giolitti abbia screditato il parlamentarismo è vero, ma non proprio nel senso che sostengono molti critici: Giolitti fu antiparlamentarista, e sistematicamente cercò di evitare che il governo diventasse di fatto e di diritto un’espressione dell’assemblea nazionale (che in Italia poi era imbelle per l’esistenza del Senato così come è organizzato); così si spiega che Giolitti fosse l’uomo delle «crisi extraparlamentari».”[13]
 

[1] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Ed. Einaudi 1971, pag.14
[2] De Bernardi-Guarracino L’operazione storica. Ed.Bruno Mondadori vol.3 pag.671
[3] G. Salvemini, Introduzione a L’età giolittiana di A.W.Salomone. La Nuova Italia Firenze 1988.Pagg.XII-XIII
[4] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.2057-8
[5] Più recentemente ha sostenuto questa tesi N.Zitara in L’unità d’Italia: nascita di una colonia, Milano, Jaca Book, 1971.
[6] Rodolfo Morandi: Storia della grande industria in Italia. Einaudi. Torino 1966, pag.278
[7] La politica economica di costruire “cattedrali nel deserto”, fu quella seguita dai governi di centro-sinistra negli anni 1950-60, quando si impegnò capitale pubblico per realizzare insediamenti industriali nel Sud, nell’illusione che questo avrebbe innescato di per sé un meccanismo di sviluppo economico, senza pensare ad una modifica dei rapporti produttivi dell’agricoltura meridionale. In realtà queste industrie, realizzando una produzione staccata dalle esigenze del territorio ed indirizzata a mercati esteri, furono rese vulnerabili alle contingenze economiche internazionali e con la crisi degli anni ’70 ad una ad una chiusero, senza lasciare un retroterra di indotto economico, che modificasse in permanenza la realtà economico-sociale meridionale.
[8] Vedi A.Macchioro, Risorgimento, capitalismo e metodo storico, in Rivista Storica del socialismo, lug.- dic. 1959, ripubblicato nella raccolta di suoi saggi Studi di storia del pensiero economico ed altri saggi. Ed.Feltrinelli, Milano, 1970 pagg.699-741
[9] A.Gramsci, Op.cit.. pag.1992
[10] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.2038-9
[11] Pietro Grifone, Op.cit. pag.14
[12] A.Gramsci, Op.cit.. pag.2039
[13] A.Gramsci, Op.cit.. pagg.997-8
 

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