www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 25-03-11 - n. 357

Pubblichiamo, su gentile concessione dell'autore:
Vincenzo De Robertis, A. Gramsci e l’Unità d’Italia
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Vincenzo De Robertis
 
A. Gramsci e l’Unità d’Italia
 
Indice
 
Capitolo IX
 
I primi cinquant’anni di vita dello Stato sono segnati, come si è detto, da uno sviluppo economico del Paese, che modifica la composizione organica del blocco storico-sociale al potere, ponendo in primo piano la borghesia industriale, rispetto all’aristocrazia agraria ed al latifondo.
 
I primi quindici anni del secolo XX mettono in luce un nuovo fenomeno economico, il capitale finanziario, costituito dalla concentrazione in poche mani del capitale industriale, da un lato, e di quello bancario, dall’altro, e dalla compenetrazione reciproca di questi due settori, un fenomeno che ben presto egemonizza la vita politica, determinandone le scelte.
 
Le tre questioni fondamentali dello Stato italiano (questione operaia, vaticana e meridionale), scaturite dal modo in cui il processo risorgimentale è stato condotto, sono anche le ragioni della debolezza strutturale dello Stato, dato lo scarso consenso popolare di cui gode.
 
Il coinvolgimento dell’Italia nella I Guerra mondiale, voluto dal capitale finanziario, renderà ancor più instabile l’equilibro di forze su cui si era retto tutto il sistema di potere fino a quel momento, aprendo così la strada ad avventure, che Gramsci nei Quaderni del carcere definisce “cesaristiche”, le quali tenteranno di ricomporre l’equilibrio su basi nuove.
 
L’Italia entra nel conflitto nel 1915, nove mesi dopo il suo scoppio, non senza contraddizioni laceranti fra neutralisti ed interventisti.
 
Nel primo schieramento, oltre ad operai e la gran parte dei contadini, anche
 
“…[f]razioni notevoli di grande borghesia industriale (industria leggera e di esportazione), quasi tutta la media, gli agrari specie del Sud, sono per la neutralità perchè prevedono che la guerra rafforzi il predominio del binomio Alta Banca-Industria pesante.”[1]
 
Sul piano politico sono perché l’Italia resti neutrale nel conflitto il grosso delle forze socialiste, che nel giugno del 1914 danno vita ad Ancona e nelle Marche alla cosiddetta “settimana rossa”, grosse manifestazioni scaturite dalla brutale repressione di un comizio anti-militarista; la Chiesa cattolica, ostile alla guerra, non solo per ragioni ideali, ma anche per la preoccupazione di una possibile rottura dell’unità religiosa in Europa; infine, i liberali giolittiani, preoccupati per le ripercussioni economico-sociali delle enormi spese militari.
 
Sul fronte opposto sono i magnati dell’industria “pesante” e dell’alta Banca che nell’intervento statale per finanziare lo sforzo bellico intravedono la possibilità di grandi profitti, in misura più ridotta assaporati nei primi nove mesi di “neutralità forzata”, attraverso le forniture di materiale militare ai Paesi già in conflitto.
 
Sul piano politico il fronte interventista comprende: i nazionalisti, costituitisi in partito nel 1910, con un programma dichiaratamente antidemocratico ed antisocialista, che auspicano l’intervento militare, perché l’Italia possa essere considerata una delle grandi potenze; i liberali di Amendola ed i socialisti di Bissolati, che vedono nell’intervento militare contro l’Austria la IV Guerra d’Indipendenza, per l’acquisizione al territorio patrio di Trieste e Trento; i liberali di Salandra e Sonnino, che hanno sostituito Giolitti al governo; infine, lo sparuto gruppo dei cosiddetti “rivoluzionari”, fra cui vi è Mussolini, che, espulso dal Partito Socialista per il suo interventismo, apre, con i soldi ricevuti dai capitalisti francesi ed italiani, il giornale Popolo d’Italia, dalle cui colonne inizia a novembre del 1914 una forsennata campagna per l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa.
 
Non è questa la sede per analizzare approfonditamente le ragioni che consentono ad uno schieramento sociale e politico “minoritario” di far prevalere sulla maggioranza del Paese la decisione di entrare in guerra, decisione che il popolo italiano pagherà con enormi costi umani ed economici.
 
Qui però è d’uopo evidenziare schematicamente solo alcuni punti, in continuità con quanto scritto innanzi:
 
La scelta bellicista rende evidente il peso politico ormai raggiunto dal capitale finanziario italiano nel blocco economico-sociale che regge lo Stato e la guerra costituirà un’occasione d’oro per il suo rafforzamento e per l’asservimento dello Stato e del suo apparato alle sue necessità.
 
Nelle operazioni tese ad imporre scelte politiche importanti, ancor più se antipopolari, come lo è la guerra, si rivelano fondamentali strumenti nuovi, come partiti e giornali, a dimostrazione dell’importanza che va assumendo nella società moderna la ricerca del consenso, mentre in un periodo precedente, come il Risorgimento, a questa questione non si prestava particolare attenzione.
 
La struttura autoritaria ed elitaria delle massime istituzioni statali italiane, che non gode del consenso popolare e non prevede, come in una normale democrazia, il ruolo centrale del Parlamento, ma anzi ne registra la subordinazione al potere Esecutivo (Monarchia-Governo), si rivela strumento ottimale per imporre “legalmente” alla nazione una volontà, che non è quella della maggioranza del popolo italiano.
 
I primi anni del conflitto mettono in luce l’impreparazione dei comandi militari e dell’apparato produttivo italiani di fronte all’impegno bellico. Ma il 1917 sarà l’anno nero per tutte le nazioni dell’Intesa ed in particolare per l’Italia. La caduta dello Zar e la rivoluzione in Russia consentono agli imperi Centrali di smobilitare dal fronte orientale gran parte delle proprie truppe, per concentrarle su quello occidentale e meridionale.
 
Alla fine di ottobre del 1917 a Caporetto si verifica una vera e propria disfatta per l’esercito italiano, che si sbanda completamente, ripiegando disordinatamente, senza la guida dei propri comandanti, che, intanto, si sono dati alla fuga, e con il suo sbandamento consente all’esercito austro-tedesco di spingersi fino al Piave, catturando moltissimi prigionieri e impossessandosi di un enorme quantità di materiale bellico.
 
Oltre alle responsabilità gravissime del comando supremo militare italiano, che al vertice ha il generale Cadorna, un ufficiale senza scrupoli che ordina ai reparti scelti dei Carabinieri di sparare sulle truppe italiane in ritirata (come, peraltro, era costume fare durante tutta la guerra), e dei singoli comandanti che, come Badoglio, non esitano a lasciare in balia di sé stesse le truppe sotto il loro comando, anticipandone la fuga, occorre ribadire le ragioni politico-sociali alla base della disfatta, che rimandano allo scollamento storico fra masse popolari e vertici statali, di cui i vertici militari sono una componente.
 
A questo distacco storico si aggiunge la situazione contingente di due anni e mezzo di trincea, che, per l’abbrutimento che comporta, se è vero che ha attutito (se non del tutto spento per rassegnazione) ogni opposizione attiva ad una scelta bellicista, prima imposta senza alcun consenso ed ora percepita come una insopportabile sottrazione di braccia e vite umane al reddito della propria famiglia, non ha, però, cancellato nell’operaio del Nord o nel contadino del Sud il desiderio di tornare alla propria casa, disertando.
 
Di Caporetto, delle ragioni politico-sociali e militari della disfatta, delle conseguenze per l’Italia, anche con riferimento alla sua ”affidabilità” militare in previsione di coalizioni belliche future, Gramsci parla in queste pagine dei Quaderni:
 
“[…] Caporetto fu essenzialmente un «infortunio militare»; che il Volpe abbia dato [nel libro Ottobre 1917. Dall’Isonzo al Piave n.d.r.], con tutta la sua autorità di storico e di uomo politico, a questa formula il valore di un luogo comune soddisfa molta gente che sentiva tutta l’insufficienza storica e morale (l’abbiezione morale) della polemica su Caporetto come «crimine» dei disfattisti o come «sciopero militare»….
 
La responsabilità storica deve essere cercata nei rapporti generali di classe in cui soldati, ufficiali di complemento e stati maggiori occupano una posizione determinata, quindi nella struttura nazionale, di cui sola responsabile è la classe dirigente appunto perché dirigente (vale anche qui l’«ubi maior, minor cessat»). Ma questa critica, che sarebbe veramente feconda, anche dal punto di vista nazionale, brucia le dita.”[2]
 
“[…]sul significato di Caporetto bisognerebbe fissare alcuni punti chiari e precisi:
 
1) Caporetto fu un fatto puramente militare? Questa spiegazione pare ormai acquisita agli storici della guerra, ma essa è basata su un equivoco. Ogni fatto militare è anche un fatto politico e sociale. Subito dopo la sconfitta si cercò di diffondere la convinzione che le responsabilità politiche di Caporetto fossero da ricercare nella massa militare, cioè nel popolo e nei partiti che ne erano l’espressione politica.
 
Questa tesi è oggi universalmente respinta, anche ufficialmente. Ma ciò non vuol dire che Caporetto perciò solo diventi puramente militare, come si tende a far credere, come se fattore politico fosse solo il popolo, cioè i responsabili della gestione politico-militare. Anche se fosse dimostrato (come invece si esclude universalmente) che Caporetto sia stato uno «sciopero militare», ciò non vorrebbe dire che la responsabilità politica debba essere accollata al popolo ecc. (dal punto di vista giudiziario può spiegarsi, ma il punto di vista giudiziario è un atto di volontà unilaterale tendente a integrare col terrorismo l’insufficienza governativa): storicamente, cioè dal punto di vista politico più alto, la responsabilità sarebbe sempre dei governanti, e della loro incapacità a prevedere che determinati fatti avrebbero potuto portare allo sciopero militare e quindi a provvedere a tempo, con misure adeguate (sacrifici di classe) a impedire una tale possibile emergenza.
 
Che ai fini immediati di psicologia della resistenza, in caso di forza maggiore, si affermi che «occorre rompere i reticolati coi denti» è comprensibile, ma che si abbia la convinzione che in ogni caso i soldati debbano rompere i reticolati coi denti, perché così vuole l’astratto dovere militare, e si trascuri di provvederli delle tenaglie, è criminoso. Che si abbia la convinzione che la guerra non si fa senza vittime umane è comprensibile, ma che non si tenga conto che le vite umane non debbono essere sacrificate inutilmente, è criminoso ecc.
 
Questo principio, dal rapporto militare si estende al rapporto sociale. Che si abbia la convinzione, e la si sostenga senza limitazioni, che la massa militare debba fare la guerra e sopportarne tutti i sacrifizi, è comprensibile, ma che si ritenga che ciò avverrà in ogni caso senza tener conto del carattere sociale della massa militare e senza venire incontro alle esigenze di questo carattere, è da semplicioni, cioè da politici incapaci.
 
2) Così la responsabilità, se è esclusa quella della massa militare, non può neanche essere del capo supremo, cioè di Cadorna, oltre certi limiti, cioè oltre i limiti segnati dalle possibilità di un capo supremo, della tecnica militare, e delle attribuzioni politiche che un capo supremo ha in ogni caso.
 
Cadorna ha avuto gravi responsabilità, certamente, sia tecniche che politiche, ma queste ultime non possono essere state decisive. Se Cadorna non ha capito la necessità di un «governo politico determinato» delle masse comandate e non le ha esposte al governo, è certo responsabile, ma non quanto il governo e in generale quanto la classe dirigente, di cui, in ultima analisi, ha espresso la mentalità e la comprensione politica. Il fatto che non ci sia stata una analisi obbiettiva dei fattori che hanno determinato Caporetto e un’azione concreta per eliminarli, dimostra «storicamente» questa responsabilità estesa.
 
3) L’importanza di Caporetto nel decorso dell’intera guerra. La tendenza attuale tende a diminuire il significato di Caporetto e a farne un semplice episodio del quadro generale. Questa tendenza ha un significato politico e avrà delle ripercussioni politiche nazionali e internazionali: dimostra che non si vogliono eliminare i fattori generali che hanno determinato la sconfitta, ciò che ha un peso nel regime delle alleanze e nelle condizioni che saranno fatte al paese nel caso di una nuova combinazione bellica, poiché le critiche di se stessi che [non] si vogliono fare nel campo nazionale per evitare determinate conseguenze necessarie all’indirizzo politico-sociale, saranno fatte indubbiamente dagli organismi responsabili degli altri paesi in quanto l’Italia è presunta poter far parte di alleanze belliche. Gli altri paesi, nei calcoli in vista di alleanze, dovranno tener conto di nuovi Caporetto e vorranno dei premi di assicurazione, cioè vorranno l’egemonia anche oltre certi limiti.
 
4) L’importanza di Caporetto nel quadro della guerra mondiale. È data anche dai mezzi forniti al nemico (tutti i magazzini di viveri e di munizioni ecc.) che permisero una più lunga resistenza, e la necessità imposta agli alleati di ricostituire questi depositi con turbamento di tutti i servizi e piani generali….
 
Dopo Caporetto l’Italia, materialmente (per gli armamenti, per gli approvvigionamenti, ecc.) cadde in balia degli alleati, la cui attrezzatura economica non era paragonabile per efficienza. L’assenza di autocritica significa non volontà di eliminare le cause del male ed è quindi un sintomo di grave debolezza politica.”[3]
 
Alla conclusione del conflitto le contraddizioni sociali, che nel triennio 1915-1918 erano rimaste forzatamente sopite, come in una pentola a pressione scoppiano rendendo più instabile e precario l’equilibrio su cui si fonda il dominio delle classi al potere, inasprendo le tre questioni irrisolte, che già rappresentavano le spine nel fianco del sistema di potere.
 
I contadini, che avevano maturato in guerra una coscienza comune dei propri interessi ed a cui era stato promesso la ripartizione delle terre, al fine di coinvolgerli nello scontro dopo le disfatte militari, cominciano ad occupare le terre, a partire dal Meridione, guidati dalla Federterra, organismo sindacale del partito Socialista.
 
La preoccupazione di perdere il controllo delle masse contadine a favore delle forze socialiste spinge la Chiesa ad abbandonare l’atteggiamento precedente di ostilità/neutralità verso lo Stato italiano, concretizzatosi nella formula del non expedit, per passare ad una partecipazione alla vita politica più diretta di quella attuata con il Patto Gentiloni, attraverso la costituzione nel 1919 del Partito Popolare Italiano.
 
Infine, nelle fabbriche la classe operaia, cresciuta numericamente per effetto della crescita dell’industria bellica, di fronte all’occupazione delle terre e di fronte all’esempio che viene dalla Russia, occupa le fabbriche, ponendo indirettamente il problema di un nuovo blocco sociale per la conquista del potere politico.
 
“[…] Ma intanto i fatti «spontanei» avvenivano (1919-1920), ledevano interessi, disturbavano posizioni acquisite, suscitavano odi terribili anche in gente pacifica, facevano uscire dalla passività strati sociali stagnanti nella putredine: creavano, appunto per la loro spontaneità e per il fatto che erano sconfessati, il «panico» generico, la «grande paura» che non potevano non concentrare le forze repressive spietate nel soffocarli.”[4]
 
Le elezioni che si svolgono nel 1919 sono la fotografia di questa situazione esplosiva. Esse si differenziano per i risultati politici che producono da quelle del 1913.
 
“[…] L’elezione del 1913 è la prima con caratteri popolari spiccati per la larghissima partecipazione dei contadini; quella del 1919 è la più importante di tutte per il carattere proporzionale e provinciale del voto che obbliga i partiti a raggrupparsi e perché in tutto il territorio, per la prima volta, si presentano gli stessi partiti con gli stessi (all’ingrosso) programmi. In misura molto maggiore e più organica che nel 1913 (quando il collegio uninominale restringeva le possibilità e falsificava le posizioni politiche di massa per l’artificiosa delimitazione dei collegi) nel 1919 in tutto il territorio, in uno stesso giorno, tutta la parte più attiva del popolo italiano si pone le stesse quistioni e cerca di risolverle nella sua coscienza storico-politica.
 
Il significato delle elezioni del 1919 è dato dal complesso di elementi «unificatori», positivi e negativi, che vi confluiscono: la guerra era stata un elemento unificatore di primo ordine in quanto aveva dato la coscienza alle grandi masse dell’importanza che ha anche per il destino di ogni singolo individuo la costruzione dell’apparato governativo, oltre all’aver posto una serie di problemi concreti, generali e particolari, che riflettevano l’unità popolare-nazionale.
 
Si può affermare che le elezioni del 1919 ebbero per il popolo un carattere di Costituente (questo carattere lo ebbero anche le elezioni del 1913, come può ricordare chiunque abbia assistito alle elezioni nei centri regionali dove maggiore era stata la trasformazione del corpo elettorale e come fu dimostrato dall’alta percentuale di partecipazione al voto: era diffusa la convinzione mistica che tutto sarebbe cambiato dopo il voto, di una vera e propria palingenesi sociale: così almeno in Sardegna) sebbene non l’abbiano avuto per «nessun» partito del tempo: in questa contraddizione e distacco tra il popolo e i partiti è consistito il dramma storico del 1919, che fu capito immediatamente solo da alcuni gruppi dirigenti più accorti e intelligenti (e che avevano più da temere per il loro avvenire). ….
 
Il popolo, a suo modo, guardava all’avvenire (anche nella quistione dell’intervento in guerra) e in ciò è il carattere implicito di costituente che il popolo diede alle elezioni del 1919; i partiti guardavano al passato (solo al passato) concretamente e all’avvenire «astrattamente», «genericamente», come «abbiate fiducia nel vostro partito» e non come concezione storico-politica costruttiva.”[5]
 
Dopo le elezioni del ’19, dopo il “biennio rosso”(1919-20), si viene a determinare una situazione di crisi, foriera di soluzioni autoritarie e liberticide.
 
Gramsci così la descrive:
 
“[…] A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe.
 
Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericola, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti (organizzazioni di partito in senso stretto, campo elettorale-parlamentare, organizzazione giornalistica) si riflette in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica?
 
In ogni paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e di piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione.
 
Si parla di «crisi di autorità» e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso.
 
La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone a un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato. Il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe è un fenomeno organico e normale, anche se il suo ritmo sia rapidissimo e quasi fulmineo in confronto di tempi tranquilli: rappresenta la fusione di un intero gruppo sociale sotto un’unica direzione ritenuta sola capace di risolvere un problema dominante esistenziale e allontanare un pericolo mortale.
 
Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone (cfr Il 18 brumaio di Luigi Napoleone).”[6]
 
In un contesto storico-sociale, in cui due schieramenti, quello progressista e quello regressivo, in lotta fra loro non riescono ad aver ragione uno dell’altro, si apre la strada ad una soluzione autoritaria, il fascismo, che si affermerà eliminando, senza grosse difficoltà, quel poco di liberalismo costituzionale che lo Stato post-unitario aveva mantenuto nelle proprie istituzioni.
 

[1] Pietro Grifone, Il capitale finanziario in Italia. Ed. Einaudi 1971, pag.23
[2] A.Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica a cura di V. Gerratana. Ed.Einaudi 1975 pagg.736-7
[3] A.Gramsci, Op.cit.,pagg.740-2
[4] A.Gramsci, Op.cit.,pag.320
[5] A.Gramsci, Op.cit.,pagg.2005-6
[6] A.Gramsci, Op.cit.,pagg.1603-4
 

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