www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - storia - 14-09-17 - n. 643

Le pulsioni antirisorgimentali  dei nostalgici del regime borbonico

Eros Barone

luglio 2017

«…nel momento in cui il passato diveniva l'avvenire  e l'avvenire il passato…»
Victor Hugo, L'uomo che ride, Parte seconda, Libro primo.

«L'Unità d'Italia è avvenuta con una feroce guerra di occupazione da parte dell'esercito sabaudo con un milione di morti e milioni di emigranti.» Così scriveva nel 2011, senza alcun timore di apparire ridicolo o delirante, un nostalgico del regime borbonico e delle 'piccole patrie' pre-unitarie in una lettera pubblicata dal quotidiano online "VareseNews". Capisco, naturalmente, che l'uso politico-propagandistico della storia a fini di mistificazione e di falsificazione escluda l'obbligo della ricerca e della consultazione di fonti documentali affidabili e di testi storiografici seri; è sufficiente, infatti, per questo tipo di rigattieri della cultura prelevare dati da siti web privi di qualsiasi attendibilità e orientati in senso antirisorgimentale: puro folclore, che però rivela il carattere bifido di Internet (torbida fogna dell'incultura e, insieme, strumento prezioso di indagine), oltre che la deriva intellettuale di alcune fasce dell'opinione pubblica di questo Paese.

Eppure sarebbe bastato procurarsi il volume di Franco Molfese sulla "Storia del brigantaggio dopo l'Unità" (una ricostruzione rigorosa e documentata svolta, fra l'altro, da un punto di vista critico nei confronti della gestione piemontese del processo di unificazione) per controllare i dati ufficiali riportati nell'Appendice seconda (pp. 361-364), da cui si apprende che, fra il 1861 e il 1865, i fucilati ed uccisi furono 5212, gli arrestati 5044, i presentatisi 3597, con un totale di briganti posti fuori combattimento, di 13.853. Circa, poi, l'emigrazione che si è verificata nell'ultimo quarto di secolo dell'800 e nel primo decennio del '900, va detto che non solo è assolutamente arbitrario associarla al Risorgimento, ma che perfino gli studenti del liceo sanno che essa si inserisce nel contesto della prima grande depressione del capitalismo (1873-1895), un aspetto centrale della quale fu proprio la crisi agraria che colpì (certo sommandosi alla fragilità pregressa delle strutture produttive e alle scelte di politica economica del governo) non solo il nostro Paese, ma l'intera area occidentale, a partire dagli Stati Uniti d'America.

L'Italia sabauda non era la vera Italia, lo Stato nazionale non ha alcuna legittimazione etica e culturale e la rappresentazione del Risorgimento incentrata sulla classica triade 'Vittorio Emanuele II-Cavour-Garibaldi' e codificata a livello scolastico dai manuali e dall'insegnamento della storia, è falsa. Con queste affermazioni perfino un ministro della Repubblica, Roberto Calderoli, ebbe ad esprimere, nel corso di un'intervista televisiva, il suo contributo alla celebrazione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia. In realtà, simili prese di posizione, fra le quali va annoverata, buon'ultima, quella del Consiglio regionale della Puglia, dimostravano già nel 2011 che la questione dell'unità nazionale sta diventando nel nostro paese la questione più importante e più urgente. In nessun altro paese sarebbe stato concepibile che un ministro si dissociasse in maniera così plateale dalla celebrazione della nascita dello Stato che era chiamato a governare.

Ma proviamo a riflettere sul senso della critica, per la verità tutt'altro che nuova e originale, mossa a quella rappresentazione, 'ça va sans dire', in pari tempo oleografica, retorica e agiografica. Dovrebbe essere evidente, infatti, che il contesto narrativo in cui siffatta rappresentazione si colloca è quello che lo storico Eric Hobsbawm ha definito come 'invenzione della nazione', laddove tale sintagma pone in risalto la funzione pedagogica, progettuale e identitaria che il ceto politico post-unitario assegnava alla costruzione di una certa immagine del Risorgimento. La filosofia politica dei 'padri della patria', se da un lato mirava a celare i contrasti ideologici ed economici che segnarono le lotte per l'indipendenza nazionale, dall'altro, delineando il Risorgimento come il prodotto di una 'concordia discors' fra democratici e moderati, puntava a porre le basi storico-morali di una comunità, il 'popolo-nazione', che definisse i confini entro cui potessero svolgersi sia il conflitto fra le differenti ideologie sia lo scontro fra i diversi interessi. In questo senso, se si pongono a confronto la grande saggezza politica che caratterizza il 'topos' retorico dell'unità nazionale e la facile ironia dissacratoria degli intellettuali cosiddetti 'apoti', non vi è alcun dubbio che la prima meriti di essere considerata intellettualmente, politicamente e moralmente superiore alla seconda.

Del resto, la polemica sull'unità d'Italia non desta particolare meraviglia se si considera che i traumi storici che il nostro paese ha vissuto, dalla "morte della patria" al secessionismo rampante, insieme con la crisi degli Stati nazionali, hanno oscurato a tal punto la consapevolezza del valore rappresentato, nella vita dei popoli, dalla costruzione dello Stato unitario, che è diventato difficile riconoscere, anche solo da un punto di vista puramente costituzionale, il nesso inscindibile tra lo Stato e i diritti e si tende a credere che il godimento effettivo degli uni passi attraverso il deperimento, se non l'abolizione, dell'altro. Il marxista Antonio Labriola, il quale  asseriva che «noi siamo vissuti dalla storia», non si sarebbe quindi meravigliato né delle provocazioni di Calderoli né delle proclamazioni pugliesi e le avrebbe giudicate come lo spurgo di un processo di lunga durata determinato da cause oggettive e da scelte soggettive. In realtà questo processo non è per nulla ineluttabile e non sta scritto nel libro del destino che il caos di Behemoth debba prevalere sull'ordine di Leviathan; parimenti, non è affatto dimostrato che "tutto ciò che è regionale è razionale e tutto ciò che è razionale è regionale"; infine, occorre considerare che la nazione non è solo un'invenzione, ma ha anche una base materiale nell'esistenza di un mercato nazionale e che quest'ultimo, in una fase che vede entrare in crisi la globalizzazione e scatenarsi le contraddizioni economiche del mercato mondiale, è destinato ad acquistare un'importanza crescente. In conclusione, è doveroso sottolineare che un patrimonio grande e prezioso come quello del Risorgimento e della conseguente unità nazionale non può essere posto in discussione dalle sparate dei nostalgici del dominio austriaco o di quello borbonico, ma solo dall'offuscamento e dall'indebolimento della coscienza storica.

Sennonché confesso che, per quanto mi riguarda, non avevo previsto che simili rigurgiti anti-unitari potessero varcare i confini del microcosmo leghista e/o filo-borbonico per assumere il rango e il peso di una mozione istituzionale come quella che è stata approvata lo scorso 4 luglio dal consiglio regionale della Puglia al fine di istituire una "Giornata della memoria per le vittime meridionali dell'Unità d'Italia" (sic!). Orbene, quale riposta occorre dare a questa recrudescenza di pulsioni anti-risorgimentali che, come una febbre maligna, giunge a manifestarsi perfino in un'assemblea elettiva di una importante regione meridionale? Sgombrato il campo dalle mistificazioni e dalle falsificazioni, per quanto concerne il punto di vista sul Risorgimento mi riconosco pienamente nell'affermazione che segue: «Per certo noi non nascondiamo di "tenere" per il Risorgimento, di riconoscere complessivamente in esso, con tutti i suoi conflitti interni che pure vogliamo "vedere", un positivo moto della storia.» Così scriveva Mario Isnenghi in apertura del primo volume dell'opera da lui diretta, "Gli Italiani in guerra (Fare l'Italia: unità e disunità nel Risorgimento)" (2008). Se Isnenghi non esitava a dichiarare il partito preso è perché sentiva il bisogno di comunicare ai lettori che il volume in parola esprimeva l'esigenza di una reazione agli attacchi che contro il Risorgimento si stavano levando da fronti diversi.

In questo senso, la risposta storico-morale alle pulsioni antirisorgimentali non può non essere altrettanto ferma e risoluta, quanto fu quella  che si espresse nei confronti delle velleità neo-secessionistiche che si manifestarono, in occasione del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, nel gruppo dirigente della Lega Nord e che confermarono non soltanto la gravità anticostituzionale e antiunitaria del comportamento politico degli esponenti di allora della Lega Nord, ma mostrarono altresì come la polemica anti-unitaria condotta con parole, con gesti e con azioni colpisse, insieme con l'unità civile del Paese, anche i diritti dell'uomo e del cittadino e la separazione tra Stato e Chiesa, rispolverando in definitiva la panoplia più logora del pensiero tradizionalista ultrareazionario. Accade, così, che attacchi di questo tipo, oltre a suscitare fastidio tra quanti sono tuttora legati alla tradizione monarchica e nazionalista, inducano a reagire anche coloro che, pur consapevoli dell'importanza fondamentale del moto risorgimentale per l'affermazione in Italia dei princìpi dell'Ottantanove, avevano ritenuto opportuno richiamare l'attenzione e alimentare la discussione non tanto su questa verità quanto sul deficit di democrazia che caratterizzò lo Stato liberale in Italia.

Peraltro, se è vero che il Risorgimento fu un moto di cui la borghesia ebbe la guida, è altrettanto vero che nelle città e nei paesi esso non fu solo un monopolio di questa classe. Senza dimenticarne i limiti, possiamo oggi riconoscere, con il massimo dell'obiettività garantita dalla ricerca storica più accreditata e più autorevole, che si trattò di un vasto sommovimento politico, sociale e culturale che coinvolse ampi strati della popolazione e nel quale maturarono cambiamenti decisivi: la diffusione delle idee di libertà, di uguaglianza e di democrazia, l'emancipazione degli ebrei, gli albori del movimento femminile e dello stesso movimento socialista (basti pensare, fra i tanti, alle luminose figure di Carlo Pisacane, Giuseppe Ferrari e Giuseppe Garibaldi). Le migliori tradizioni della società italiana, più tardi rinvigorite dalla lotta antifascista e dalla Resistenza, affondano le loro radici in quella memorabile stagione.

Non meraviglia, dunque, che i reazionari sferrino i loro scomposti attacchi alla memoria risorgimentale, che è, insieme con quella resistenziale, il coefficiente decisivo dell'identità nazionale e della cultura democratica di questa Repubblica.

Certo, anche l'oblio è necessario alla vita, ma, come ci ricordano i rozzi e maldestri tentativi di mistificazione e di falsificazione della storia compiuti prima dai revisionisti filo-austriaci e ora da quelli filo-borbonici, occorre pur sapere che ciò che vogliamo essere dipende anche da ciò che decidiamo di ricordare e di dimenticare. Il Risorgimento italiano non fu soltanto il processo di unificazione politica dell'Italia (sul cui valore è naturalmente lecito dissentire), ma anche la sorgente, per gli italiani, delle idee di libertà e di democrazia che troveranno più tardi una significativa espressione nella Costituzione della Repubblica. Infangarne la memoria non è una scelta né saggia né illuminata, ma rivela, ancora una volta, l'ignoranza storica e l'insipienza civile di chi vorrebbe che il passato divenisse l'avvenire e l'avvenire il passato.


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