www.resistenze.org - cultura e memoria resistenti - urss e rivoluzione di ottobre - 14-06-07

Le contraddizioni del “Socialismo reale” in Unione Sovietica

 

di Cristina Carpinelli*

 

La nozione di struttura sociale negli studi sovietici

 

La difficoltà sperimentata nel passato di riconoscere l’esistenza delle contraddizioni degli interessi, in Unione Sovietica, era dovuta al fatto che nello “Stato di tutto il popolo” non vi erano classi sfruttatrici e, di conseguenza, non vi potevano essere conflitti. Al contrario, regnava l’armonia sociale. Non esisteva, pertanto, nessuna teoria sovietica che affrontasse la natura del conflitto in presenza della proprietà socialista dei mezzi di produzione, ma soltanto tesi ufficiali che postulavano l’assenza del conflitto. Per il pensiero scientifico corrente le differenze degli interessi non erano concepite come conflitti, bensì come contraddizioni di carattere “non antagonistico”[1]. Quindi, esse non costituivano oggetto della materia costituzionale e politica, e le teorizzazioni vertevano principalmente sui metodi di “riconciliazione” degli interessi.

 

Tuttavia, negli anni della perestrojka, si era aperto un dibattito acceso su Riviste come “Voprosy filosofii”, “Voprosy ekonomiki”, “Kommunist”, attorno alla centralità del problema dell’obsolescenza del sistema dei rapporti di produzione socialista rispetto alla crescita qualitativa delle forze produttive, e sulla natura delle contraddizioni che il ritardo aveva aperto nella società. Si trattava di un dibattito fortemente avanzato e di rottura rispetto a quello tradizionale codificato in dottrina, ma che era stato recepito e tendenzialmente condiviso anche in taluni ambienti politici. Certo, le posizioni più spinte sostenute in sede di ricerca erano state filtrate politicamente ed espresse con cautela, attenuandone la portata dirompente. Ma si poteva trovare una misura di corrispondenza tra quanto affermato da Gorbačëv e la problematica sviluppata dalla sociologa Zaslavskaja, a partire dal suo noto Paper[2], pubblicato in Occidente, nel quale si affermava la necessità di studiare il comportamento socio-economico dei lavoratori condizionato da interessi personali e di gruppo, al fine d’individuare una strategia diretta simultaneamente a mobilitare quei gruppi che erano interessati alla perestrojka e a immobilizzare quei gruppi che avrebbero potuto frenarla;dal momento che qualsiasi riforma del sistema dei rapporti di produzione e del sistema di gestione non poteva non produrre il conflitto. Gorbačëv includeva tra i problemi pressanti l’”attivazione” e l’”ottimizzazione” dei diversi interessi in subordine al prevalente interesse comune, la ricerca delle forme e dei metodi con cui nel sistema politico erano regolati questi interessi, e affermava che il sistema politico era chiamato ad intervenire energicamente su di essi, aprendo spazio agli interessi “sani”. Purtroppo - egli affermava - la dirigenza politica, che aveva bisogno di aggregare consenso e una forte coalizione sociale che fosse motivata alla perestrojka, non poteva contare sull’aiuto della scienza economica e sociale. La categoria degli interessi socio-economici, importantissima per la riforma, era stata poco studiata dalla scienza sovietica. Pochissimo si sapeva della punta dell’iceberg delle relazioni socio-economiche e, in particolare, delle caratteristiche effettive della posizione sociale dei vari gruppi di lavoratori industriali, impiegatizi, professionali, regionali e nazionali. Ancora meno noti erano la natura e il contenuto della coscienza socio-economica di questi gruppi, iloro valori e bisogni, la maniera in cui esprimevano e realizzavano iloro interessi.

 

Incominciavano, però, ad emergere nuovi orientamenti di pensiero, relativamente ad una società sovietica ampiamente “stratificata”, che si andavano ad affiancare all’abbondante letteratura sulla “omogeneità sociale”. I nuovi contributi sovietici parlavano delle diverse aggregazioni di cui si componeva la società. Essi mostravano sistematiche differenze nel reddito reale e nel tenore di vita, nelle prospettive d’istruzione e di promozione sociale. E questo era un dato tutt’altro che inedito. Di nuovo, tuttavia, c’era che le ineguaglianze economiche e sociali, di cui era permeata la vita sovietica, erano divenute, naturalmente entro certi limiti, accessibili all’indagine e alla discussione per gli studiosi di quel paese.

 

Contestualmente si era fatta largo in Unione Sovietica una considerevole letteratura attorno al tema dell’ineguaglianza. L’approccio al tema partiva da due punti di vista: 1) esporre e motivare in forma ragionata e sistematica alcune delle più evidenti posizioni ineguali dei vari gruppi socio-economici in rapporto alla distribuzione del reddito, alla ripartizione del potere decisionale, e così via. Questi indicatori non costituivano, in ogni modo, l’unico interesse degli studiosi sovietici. L’ineguaglianza era già stata riconosciuta “ufficialmente” come problema in numerose controversie che avevano caratterizzato il fermento intellettuale del periodo immediatamente successivo allo stalinismo; 2) esaminare il contenuto di queste controversie/dispute per quanto esso rivelava a proposito di tensioni, rivendicazioni e conflitti generati dalle profonde divisioni sociali che si riproducevano ormai sistematicamente nel paese dalla metà degli anni ‘70. “Oggetto” di queste dispute erano oltre alle esigenze di “democratizzazione” del management, le misure da intraprendere per il superamento della subordinazione delle donne, la messa a punto di una politica dell’istruzione non più solo “universale”, ma anche “mirata” (l’opportunità di una programmazione della domanda d’istruzione, che fosse in relazione alle esigenze del mercato del lavoro), la definizione di “approcci” e “categorie” alternative nell’esame della struttura sociale di classe. A dispetto del carattere non sempre “aperto” della discussione, si erano fatte via via avanti nuove idee in lotta per ottenere udienza, e lo spettro delle posizioni emerse era esso stesso evidente riflesso delle differenze che sottendevano queste nuove idee.

 

Classi e “gruppi”

 

Le ricerche che erano state intraprese su alcune delle principali forme di disuguaglianza, presenti nella versione sovietica di una società socialista, riflettevano una certa “visione” della struttura sociale. Esse fornivano sostanzialmente un’immagine dell’insieme della struttura sociale in cui gli elementi primari non erano più soltanto le classi sociali - le cui differenze erano riconducibili alle diverse forme di proprietà socialista (statale e collettiva) - ma i “gruppi sociali”, che si caratterizzavano per il tipo di attività svolta. La società, secondo questo approccio, era un complesso di attività che s’incrociavano e si collegavano in un processo continuo, e ciascuna attività prendeva significato dalla sua relazione con le altre. Il gruppo sociale - prospettato dalla nuova versione sovietica - non rappresentava un insieme di individui fisici, ma piuttosto un tipo di processo, un modo d’interazione. Era una sezione di questo incrociarsi di attività che costituiva il sistema sociale. Quello di gruppo era, dunque, un concetto puramente analitico: gli individui erano definiti dalle molteplici attività a cui partecipavano, e qualunque attività creava un gruppo. La società era concepita come una sfera che poteva essere attraversata da infiniti piani (i gruppi) senza che nessuno di essi rappresentasse la totalità. Il compito maggiore nello studio della forma sovietica di vita sociale era, dunque, l’analisi di questi gruppi e delle loro attività, a cui erano connessi interessi diversi. Il processo politico era visto come una “tecnica di aggiustamento degli interessi”, e se coincideva con le attività dei gruppi, e gli interessi si manifestavano e si risolvevano in tali attività (vale a dire l’interesse di gruppo e/o individuale era in armonia con quello più generale della società), si concludeva ad una sorta di trasparenza del sistema politico: nessun interesse era ignorato o discriminato e tutti per definizione potevano esprimersi con uguali opportunità (a patto che fossero capaci di pressione). Accanto ai gruppi sociali esistevano altre aggregazioni che si definivano per la loro appartenenza “territoriale”, per la loro identità “etnico-linguistica”, “religiosa”, ecc. Tali aggregazioni, piuttosto che promuovere un’azione collettiva (o rappresentare un interesse), delimitavano uno “spazio” sociale, ed intersecavano i differenti gruppi sociali (talvolta sovrapponendosi del tutto ad essi), ai quali rimaneva in ogni caso il primato dell’analisi sociologica. Bisognava, innanzi tutto, studiare l’azione sociale, qualunque fosse il gruppo originario di riferimento a cui andava attribuita l’azione stessa. Il gruppo sociale poteva essere pure definito come “strato”, anche se in genere la nozione di “strato” - per isociologi sovietici - richiedeva l’uso concettuale di una gerarchia delle attività (o degli interessi) e delle posizioni sociali; mentre i gruppi sociali erano teoricamente disposti lungo delle linee orizzontali, immaginando la struttura sociale come un asse cartesiano formato da molteplici punti che creavano, appunto, delle linee orizzontali sulle quali si posizionavano i vari gruppi sociali. Per tale motivo, il termine di strato sociale era più assimilabile a quello di gruppo socio-occupazionale (o di ceto sociale).

 

I gruppi socio-occupazionali erano gli elementi costitutivi di una struttura “infra-classi” delle classi-base (classe operaia e agricoltori delle aziende collettivizzate). L’intellighenzia tecnica delle imprese industriali di Stato era vista come uno “strato” all’interno della classe operaia, e l’equivalente categoria dei tecnici delle cooperative agricole come uno “strato” della classe rurale. Ciò sembrava una rinuncia alla nozione di un unico strato per l’intellighenzia, distinto dalle due classi-base. E proprio ciò era stato oggetto di maggiori critiche da parte dei sociologi sovietici più tradizionali: il fatto di aver “dissolto” l’intellighenzia nell’ambito delle due classi-base. Tuttavia, c’era un altro aspetto più significativo dell’approccio dei nuovi sociologi, che metteva in luce il nuovo modo d’intendere la struttura sociale sovietica. Per essi il gruppo socio-occupazionale era già l’elemento costitutivo della struttura, e per tale ragione intravedevano la possibilità di costruire un sistema senza classi, composto di soli “gruppi infrasocietari” come metodo di classificazione degli elementi strutturali della società. In considerazione dell’importanza decrescente delle differenze attinenti le forme di proprietà (che definivano le “classi-base”) e del sempre maggiore significato attribuito alla “natura del lavoro”, come fattore di differenziazione sociale, il ventaglio dei gruppi socio-occupazionali poteva essere al tempo stesso inteso come l’insieme dei componenti sia di un sistema di classi (lo schema del “2+1”), sia della società intesa come una molteplicità di strati sociali che intersecavano la suddivisione in classi. I gruppi socio-occupazionali potevano essere esaminati da diversi punti di vista. Da un lato, essi risultavano essere gruppi interni alle classi, vale a dire determinavano la struttura interna delle singole classi. Ma dall’altro, nella misura in cui le distinzioni tra le classi si attenuavano e gruppi contigui divenivano sempre più simili rispetto alla natura del lavoro svolto, essi potevano essere interpretati come gruppi infrasocietari, ovvero strati. In virtù di tale approccio alla struttura sociale, la società veniva a costituirsi come un insieme a più strati, uno dei quali era l’intellighenzia.

 

In tal modo il linguaggio e l’apparato concettuale della stratificazione sociale erano divenuti parte del dibattito sovietico sulla struttura della società. L’assunzione di tali concetti nel pensiero sovietico si manifestava in svariate forme. Per esempio, i pareri sulle ricerche occidentali in merito alla stratificazione sociale non avevano più un taglio esclusivamente negativo. L’approccio occidentale era stato inizialmente biasimato non perché identificava una pluralità di strati sociali all’interno della società capitalistica, ma perché trascurava le forme primarie di divisione sociale - le classi intese in senso marxista - e faceva quindi uso di caratteristiche “arbitrarie” per definire le distinzioni tra i vari strati sociali. I documenti ufficiali sulla struttura sociale interna, già dalla seconda metà degli anni ‘60, avevano sempre fatto riferimento all’esistenza di strati sociali all’interno delle classi-base e del ceto intellettuale. La sociologa Zaslavskaja aveva parlato in modo esplicito della natura stratificata, “scalare” delle divisioni sociali nell’ambito del socialismo, contrapponendola alla polarità dei gruppi sociali sotto i sistemi che sancivano la proprietà privata. Altri avevano proposto una classificazione comprendente vari gruppi socio-occupazionali in base ad un indice dello status sociale che prevedeva per ciascun gruppo una sintesi di misurazioni relative al reddito, all’istruzione e “all’influenza nell’ambito della collettività”.

 

Ciononostante permanevano limiti evidenti nelle ricerche “empiriche” sulla stratificazione della società sovietica. Le punte più alte della struttura sociale erano sistematicamente lasciate fuori da quasi tutte le indagini (anche le migliori), mentre gli aspetti politici e la questione del potere in rapporto alla stratificazione sociale erano per lo più ignorati. Le ricerche empiriche su una struttura sociale di cui si riconosceva il carattere gerarchico erano sostanzialmente limitate alle unità costitutive primarie dell’assetto economico, ovvero, le imprese industriali e le aziende agricole. Ogniqualvolta si prospettavano la “qualità del lavoro” o la “posizione nell’ambito della divisione sociale del lavoro”, come i criteri base della differenziazione sociale, il contesto, quasi invariabilmente, era quello del “collettivo di produzione”. I dipendenti ai più alti livelli dei ministeri governativi, gli enti di pianificazione, l’establishment scientifico, per non parlare dell’organizzazione di partito, rimanevano fuori dal continuum degli strati socio-occupazionali sottoposti ad indagine dal punto di vista del reddito, dello stile di vita e della possibilità di trasmissione intergenerazionale del proprio status. Tali gruppi, le cui scelte macroeconomiche e macrosociali controllavano la destinazione delle risorse produttive della società e la struttura della retribuzione, erano esclusi dalle indagini. Ciò non equivaleva a dire che la questione del potere rispetto alla stratificazione sociale fosse totalmente ignorata. Alcuni sociologi, per esempio, avevano dimostrato come per i diversi gruppi socio-occupazionali, all’interno delle unità economiche agricole, sussistevano differenze molto marcate rispetto alla percezione della propria influenza “sulle principali decisioni prese nell’ambito del collettivo”. In genere, l’ineguaglianza di potere era un tema legittimo d’indagine nel quadro delle ricerche empiriche sui rapporti familiari. Ma anche in questo caso, come per il reddito e la differenziazione culturale, si metteva in luce una forma di ineguaglianza che riguardava solo il livello del “collettivo” (l’impresa o la famiglia) e mai il livello sociale.

 

Gli strati più elevati della società sovietica, di cui si notava la totale assenza nelle indagini “empiriche” sulla stratificazione, iniziarono a comparire negli studi di carattere “teorico” sulla stratificazione sociale dalla fine degli anni ‘70. La Zaslavskaja aveva individuato un particolare strato dell’intellighenzia impegnato professionalmente a svolgere mansioni direttive, compreso il “management dei processi sociali”. Tale strato non comprendeva solo i direttori di stabilimento, ma anche quanti lavoravano negli “organi più alti del management economico” e anche negli “organi statali di direzione politico-amministrativa non direttamente collegati alla produzione”. Erano contraddistinti dal “diritto di prendere decisioni vincolanti per altri” e di farle attuare anche con la coercizione. Altri, ancora, riconoscevano l’esistenza di uno strato di “quadri esecutivi”, tra i quali figuravano membri del Partito e dell’amministrazione statale che non erano impegnati nella produzione di beni materiali, ma svolgevano “funzioni sociali corrispondenti ai bisogni della società intera vista nel suo insieme”. Questi erano i tratti essenziali della nozione di potere quali si ritrovavano in tutti i dibattiti degli studiosi sovietici. Il potere era qualcosa di cui si faceva invariabilmente uso nel pubblico interesse. Esso non appariva mai - almeno nel contesto dei fatti macrosociali - come un rapporto tra governanti e governati. Quei “quadri esecutivi”, indicati “ambiguamente” come costituenti il “management dei processi sociali”, erano proprio i gruppi sociali sulla cui posizione relativa nella distribuzione dei beni materiali e delle opportunità culturali, e riguardo al cui potere sui processi di produzione, le indagini “empiriche” non avevano mai dato ragguagli.

 

Un ventaglio di disuguaglianze

 

Il ventaglio di diseguaglianze che traspariva dal paragone tra i diversi gruppi socio-occupazionali situati ai poli opposti della scala, sia nelle imprese industriali, sia nelle aziende agricole, era di gran lunga più esteso e variegato di quanto risultasse dall’analisi della struttura sociale, che si avvaleva della formula trinomica del “2+1”. Senza ripudiare in modo esplicito la versione “ufficiale” sovietica della società, i nuovi studi avevano introdotto una nozione di società come struttura gerarchica di gruppi sociali classificabili in base ad uno status sociale “superiore” o “inferiore”. La formulazione più lucida di tale concetto la si trovava già in un’opera della sociologa Zaslavskaja comparsa nel 1970: “In linea di principio, la posizione sociale dei diversi strati e classi nella società socialista può essere rappresentata nella forma di una certa gerarchia in cui alcune posizioni sono ritenute superiori ad altre. Il fondamento della gerarchia verticale delle posizioni sociali (...) risiede nella complessità e nel genere delle responsabilità relative al tipo di lavoro svolto; un aumento di queste è di norma seguito da un aumento dei livelli d’istruzione previsti e dei compensi materiali, e comporta anche modificazioni nel modo di vita[3]. Gli studi sociali si orientavano sempre più verso un’immagine dell’insieme della struttura sociale sovietica, in cui gli elementi primari erano i gruppi differenziati in senso verticale e disposti lungo una “scala di posizioni sociali”. In più, essi stabilivano un nesso inestricabile tra la struttura sociale e l’ineguaglianza. Gli elementi che costituivano la struttura erano i gruppi diseguali dal punto di vista economico e sociale. Tali principi di carattere generale costituivano di per sé un netto distacco rispetto ad alcuni elementi della visione “ufficiale” della società sovietica. Lo stacco era indubbio rispetto alla nozione tradizionale di un sistema di classi strutturato soltanto in senso orizzontale e rispetto alla concezione dell’ineguaglianza delle retribuzioni come specchio di differenti meriti individuali. Di pari, se non addirittura di maggiore portata, era il riconoscimento dell’inadeguatezza dello schema tripartito del “2+1”, quale strumento di analisi delle forme dominanti di differenziazione sociale.

 

Nello schema tradizionale della struttura sociale, alla classe operaia era stato attribuito uno status sociale superiore che affondava le sue radici nella “missione storica” di quella classe. La classe operaia era, infatti, associata a una forma più “elevata” di proprietà e doveva, quindi, svolgere un ruolo “guida” nella fase di transizione verso il comunismo. La proprietà di tipo cooperativo era, al contrario, una forma “transitoria” di proprietà che avrebbe dovuto gradualmente fondersi in quella statale; in questo senso, essa era un tipo inferiore in confronto con la proprietà dello Stato e, di conseguenza, pure inferiore era la sua classe di appartenenza (quella contadina). Tuttavia, i sociologi e i politologi di nuovo orientamento (Butenko ed altri) sostenevano che, nella formazione socio-economica del socialismo sviluppato, l’impresa collettiva non poteva essere considerata una forma poco “evoluta” di proprietà, e smentivano il fatto che essa potesse essere considerata uno degli elementi cardinali della discriminazione tra le due classi-base. Anzi, nel socialismo sviluppato sovietico, la proprietà di tipo cooperativo era quella che si era caratterizzata per i più alti livelli di redditività: “In effetti, se il comunismo è fondato sulla proprietà unica di tutto il popolo, che si realizza durante il passaggio al comunismo, non è possibile mantenere ma, al contrario, va eliminata (attraverso lo sviluppo totale della socializzazione, praticamente attraverso la statalizzazione) la proprietà cooperativo- kolchoziana e le forme economiche che le sono legate. In questa situazione difficile, dove la vita esige insistentemente altre cose, bisogna ricordarsi che le risorse economiche e sociali della cooperazione e delle aziende ausiliarie, connesse alla proprietà cooperativo-kolchoziana, sono le meglio impiegate al fine di accrescere, il più rapidamente possibile, la produzione alimentare e di migliorare l’approvvigionamento alla popolazione; la cooperazione socialista, ma soprattutto i kolchozy, sono oggetto di una campagna denigratoria, la quale presenta la proprietà cooperativo-kolchoziana come una proprietà di secondo ordine (in rapporto alla proprietà statale), benché gli eventi storici stiano dimostrando esattamente l’incontrario[4]. Il politologo Butenko riportava due esempi a titolo dimostrativo: 1) durante il periodo 1976-1980, nei kolchozy, 1 quintale di patate costava 7,8 rubli mentre nei sovchozy 11,4 - cioè quasi il 40% in più che nelle fattorie collettive; 2) i provvedimenti assunti per ridurre il numero delle aziende ausiliarie avevano arrecato un grave danno all’economia nazionale, abbassando la sua produzione agricola di circa il 30%-40%[5]. Le accuse di Butenko erano soprattutto rivolte a Kosolapov, redattore-capo di “Kommunist”, che si era fatto in quegli anni interprete zelante della statalizzazione accelerata della proprietà cooperativo-kolchoziana e della rapida creazione di una società senza classi, fondando la sua tesi sulla necessità di una “socializzazione progressiva”, che avrebbe avuto il suo compimento con la soppressione delle cooperative. Kosolapov aveva lanciato il suo appello di “nonelogiare più le forme cooperative, poiché queste forme di gestione economica non sono altro che un residuo della vecchia società, che va perdendo di significato. (…) Inoltre, nelle condizioni attuali, l’azienda ausiliaria individuale è una vestigia delle più caratteristiche della piccola produzione, e ha un contenuto parzialmente privato nella misura in cui il suo prodotto acquista l’aspetto di merce[6]. Questa posizione intransigente, sostenuta da diversi scienziati sociali di spicco (I.JU. Širjaev; G.R. Imanov, M.S. Aženov, ecc.), era ancora espressa nel periodo in cui il potere sovietico stava accingendosi a varare alcune leggi che limitavano da un lato l’esercizio individuale delle piccole attività economiche, e dall’altro autorizzavano la creazione sul territorio sovietico di imprese miste con la partecipazione del capitale straniero. Si chiedeva Butenko: “E’ poi vero che le piccole attività economiche individuali rappresentano un pericolo per la proprietà statale? Al contrario, il capitale estero non funzionerà con la logica capitalistica del massimo profitto?”[7].

 

Rivalutando il ruolo dell’impresa collettiva nel socialismo, gli studiosi di nuovo orientamento aderivano ad un diverso modello della struttura sociale. Gli studi e le ricerche sociali più recenti avevano dimostrato l’inadeguatezza del paradigma classico per la comprensione della forma reale della società sovietica contemporanea. Cinque erano le condizioni fondamentali a sostegno della confutazione dello schema convenzionale: 1) lo stato sociale dei contadini kolchoziani si differenziava ben poco da quello della componente rurale della classe operaia. Nel tessuto dei rapporti sociali, gli operai dei sovchozy erano molto più omologati ai contadini dei kolchozy, che agli operai dell’industria statale. Il confine sociale fra la classe operaia e quella contadina era meno netto rispetto a quello esistente fra popolazione urbana e rurale; 2) le differenze sociali tra i contadini dei kolchozy e la classe operaia industriale erano scomparse, ed erano meno evidenti rispetto a quelle che esistevano fra gli strati professionali qualificati di una stessa classe sociale; 3) erano, pure, scomparse le differenze sociali tra gli operai più qualificati e il comune personale tecnico e ingegneristico. Ne’ per il carattere delle loro capacità o conoscenze, ne’ per il loro rapporto rispetto ai diritti e ai doveri, ne’, infine, per il tenore e lo stile di vita, essi si contraddistinguevano gli uni dagli altri. In alcuni settori dell’industria, il 10-15% degli operai possedevano un’istruzione superiore; quindi una parte di essi “formalmente” apparteneva allo strato dell’intellighenzia; 4) lo strato dell’intellighenzia era assai eterogeneo. Esso comprendeva i “proletari del lavoro di concetto”, l’”elite intellettuale” e l’”alta dirigenza politica ed amministrativa del paese”; 5) nella formula trinomica della struttura sociale non vi era posto per altri gruppi presenti nella società. Tali gruppi erano i dirigenti dell’economia ai vari livelli, i lavoratori connessi alla distribuzione e allo scambio della produzione dell’economia nazionale, i piccoli imprenditori socialisti, il personale contabile e di segreteria (gli impiegati), i piccoli affaristi dell’economia ombra, ecc. Era fatto, dunque, esplicito riferimento all’esistenza di strati sociali non più solo “infraclassi”, m anche “extraclassi”, che determinava l’avvicinamento di status di una parte della classe-base ad un’altra (contadini kolchoziani e operai della campagna) e il divario di status all’interno di una stessa classe-base (operai urbanizzati e operai della campagna).

 

Il “mito”, sopravvissuto per molti anni, secondo cui la società sovietica già nella fase matura del socialismo sviluppato (quella prossima al comunismo), si sarebbe caratterizzata per la “piena omogeneità sociale” veniva completamente distrutto: “Fatto sta che, secondo le leggi della natura, lo sviluppo progressivo di ogni sistema porta ad una complicazione della sua formazione, all’aumento del pluralismo degli elementi e dei legami (di questa formazione - n.d.r.) e non al rafforzamento dell’uniformità. Perciò il dogma sopravvissuto per molti anni, secondo il quale la società socialista sviluppata si sarebbe caratterizzata per la “piena omogeneità sociale”, è semplicemente privo di fondamento[8]. Il raggiungimento di una società socialmente omogenea dipendeva, secondo la maggior parte degli studiosi sovietici tradizionali, dal conseguimento di costanti progressi nel campo scientifico e tecnologico, in base ai quali si presumeva sarebbe stato possibile arrivare ad una graduale riduzione delle differenze in materia di condizioni del lavoro, di retribuzioni, ecc. A differenza di questi autori, la sociologa Zaslavskaja metteva in discussione il fatto che il superamento delle differenze sociali, fosse automaticamente dato dal progresso tecnico-scientifico, poiché questa concezione meccanicistica, di stampo positivista, non considerava l’impatto importante del fattore umano sullo sviluppo della scienza e della tecnica.

 

Se la transizione verso la società comunista non era intesa come abbattimento totale delle disuguaglianze, e nemmeno come un completo controllo sui mezzi di produzione da parte dei produttori diretti della ricchezza, essa cionondimeno era vista come: 1) un processo di fusione delle due forme di proprietà socialista (l’assorbimento della proprietà di tipo cooperativo in quella statale) e, quindi, della scomparsa delle due classi-base; 2) il superamento della differenza tra lavoro intellettuale e manuale; 3) l’emergere dell’abbondanza dei beni materiali. Nelle opere sovietiche sul comunismo scientifico invece d’indagare la struttura reale della società, la dinamica dei mutamenti tra le classi e in seno alle classi, il processo complesso e contraddittorio di formazione dell’omogeneità sociale della società sovietica, si scandiva ritualmente soltanto la tesi su questa omogeneità: “In sostanza non si studia la contraddizione reale dovuta al fatto che con il venir meno delle differenze di classe, con lo sviluppo ulteriore dei tratti comuni del modo di vita e della connotazione spirituale degli uomini, si fanno sentire di più le differenze di carattere non di classe: professionali, socio-culturali, di età e sesso, nazionali e linguistiche, ecc.[9]. Al posto dello studio del complicatissimo processo di formazione ed educazione della persona socialista si facevano ragionamenti scolastici su un ideale di cittadino sovietico. Si domandava il sociologo Jakovlev: “Ma da dove vengono, allora, i fenomeni di stagnazione, le persone malate di consumismo, spiritualmente vuote, da dove vengono il carrierismo, il burocratismo, l’indifferenza? Durante gli anni della stagnazione era stata impostata la concezione della omogeneità crescente man mano che ci si avvicinava al comunismo, dell’estinzione della diversità. Nell’economia: una sola proprietà statale, un solo schema per gestirla. Nel sociale: l’annullamento di ogni differenza. Nel politico: l’immutabilità delle strutture politiche. Eppure le opere di K. Marx, F. Engels e V.I. Lenin si distinguevano innanzi tutto perché partivano dalla effettiva dialettica della realtà, dalla complessità e dalla non univocità dello sviluppo storico. L’intera esperienza testimoniava che la storia non aveva mai, in nessun senso, raggiunto il progresso attraverso la semplificazione. Di contro, ogni successiva formazione, ogni successivo sistema economico-sociale e politico si era mostrato internamente più complesso del precedente. In questo senso, non vi era motivo di ritenere un’eccezione il socialismo e il comunismo. Ciononostante, la concezione dell’uniformità era stata fatta passare con invidiabile tenacia nella pratica e nelle elaborazioni teoriche. Era possibile riscontrarne l’influenza anche negli approcci alla soluzione di una serie di problemi riguardanti l’economia, la sfera sociale e la cultura. Si prenda anche la tesi sull‘azione delle leggi sociali. Nell‘esaminare, ad esempio, il capitalismo noi vediamo la complessità, la contraddittorietà dei suoi processi e meccanismi interni. Ma non appena si comincia a parlare del socialismo sembra che entri in funzione un automatismo quasi completo, indipendente dall‘uomo. I rapporti di produzione entrano da soli in armonia con lo sviluppo delle forze produttive. Il carattere pianificato e proporzionale dello sviluppo economico, la soluzione delle questioni sociali si autoregolano. Entrano in funzione automaticamente i meccanismi di sviluppo della coscienza sociale, della giustizia sociale, dei rapporti nazionali, ecc.[10]. Anziché studiare il socialismo reale si era preferita la costruzione di modelli speculativi. Il socialismo era nato come negazione dello sfruttamento capitalistico e della morale borghese. In virtù di ciò, la nuova società veniva immaginata come qualcosa di romanticamente ideale, priva di vizi e contraddizioni, mentre le disgrazie e le magagne venivano attribuite ai residui del passato. “In ogni formazione sociale a noi nota, in ogni fase storica, la contraddizione tra le forze produttive e la loro forma sociale, i rapporti di produzione, muove e perfeziona l‘attività sociale e lavorativa, produce rivoluzioni, accelera il progresso. Ma, invece, di sottoporla ad una profonda ricerca, nella società socialista si è cominciato a sostenere dogmaticamente che nel socialismo la contraddizione fondamentale è quella tra i “germogli visibili” del comunismo e i ”residui” del capitalismo[11].Il carattere errato di questa posizione stava nel fatto che la specificità del socialismo era dedotta dalla combinazione delle basi generali della formazione comunista e dei nei della vecchia società. Con questo approccio i rapporti economici del socialismo perdevano il loro carattere distintivo, il problema delle leggi economiche proprie del socialismo era rimosso: “Il socialismo non è per nulla la combinazione temporale dei tratti del comunismo immaturo e dei nei del capitalismo, ma è una costruzione sociale che si connota come unica nel suo genere, poiché ha caratteristiche, dinamiche e principi propri[12].

 

Jakovlev riteneva giusta l’accusa che negli ultimi tempi era mossa alle scienze sociali per il loro distacco dalla pratica sociale, per lo stile e il metodo di lavoro, per il clima morale e psicologico in cui si svolgeva l’attività scientifica: “Le scienze sociali non si sono limitate a rispecchiare lo stato della società, ma hanno attivamente contribuito alla sua formazione. L’ideologia della stagnazione e il mascheramento della stagnazione non avevano bisogno di una conoscenza precisa della vita. Tutto ciò che non si collocava nel letto di Procuste della mentalità dogmatica e della pratica dell’entusiasmo generale era ritenuto, pubblicamente o implicitamente, dubbio e sospetto (…) Non è stata forse data della concezione del socialismo sviluppato un’interpretazione congiunturale, tale da indurre a perfezionamenti parziali, pigri, timidi, incoerenti, e che consacrava l’ottimismo di maniera e affievoliva la presa di coscienza di cambiamenti radicali ormai maturi?[13]. Si era, insomma, venuto a formarsi oggettivamente, nel tempo, un sistema di rottura delle basi materiali del socialismo costituito dalla dispendiosità dell’economia, le cui origini andavano ricercate nella genesi della stagnazione. Nella sfera strutturale uno dei fattori (ma non l’unico) di questa stagnazione risiedeva nell’assolutizzazione della proprietà statalizzata, nella sua equiparazione a forma suprema di proprietà, quella di “tutto il popolo”, quando nella realtà il dominio e il controllo dei mezzi di produzione erano nelle mani di un ceto burocratico, che “formalmente” agiva per conto di tutto il popolo e nei fatti si comportava come una classe dominante, sfruttatrice e privilegiata.      

 

Antagonismi e contraddizioni

 

Secondo il politologo Butenko, per i marxisti che riconoscevano l’esistenza delle contraddizioni nel socialismo, il primo problema che si poneva a loro, allorché si accingevano a studiarne e a determinarne il carattere, era quello di scoprire se tali contraddizioni fossero state di tipo antagonistico o non antagonistico. Entrambe le contraddizioni (antagonistiche e non) appartenevano alla società post-capitalistica, cioè al periodo di transizione dal capitalismo al socialismo, ma esse potevano essere presenti anche nella società socialista, che seguiva a questo periodo di transizione. Potrebbe sembrare ingiustificato a prima veduta - diceva Butenko - esaminare insieme le contraddizioni antagonistiche e non, di due periodi storici dello sviluppo sociale qualitativamente diversi. In effetti, nel periodo transitorio, sussisteva ancora lo sfruttamento di una parte della società sull’altra, mentre con l’avvento del socialismo le classi sfruttate sarebbero scomparse. Ma la storia e i fatti concreti avevano dimostrato che l’erezione di una “muraglia cinese” fra questi due periodi aveva contribuito, in larga misura, alla nascita di alcune semplificazioni e degenerazioni nell’interpretazione dei problemi del socialismo sviluppato.

 

Gli studiosi sovietici avevano aderito dogmaticamente alla nota tesi leniniana: “l’antagonismo e la contraddizione non sono una sola e medesima cosa. Il primo scomparirà, e la seconda tende ancora a rimanere con l’avvento del socialismo”. Sulla base di questo postulato, essi sostenevano che le contraddizioni antagonistiche non fossero più immanenti, mentre quelle non antagonistiche lo erano ancora, persistevano cioè nella società socialista. Questa conclusione metodologica non solo era stata acquisita, ma persino canonizzata, convertita in un dogma che separava radicalmente i due periodi storici sulla base, appunto, di questa distinzione scolastica tra contraddizioni antagonistiche della società post-capitalistica, e contraddizioni non antagonistiche della società socialista. Mentre la prima abbracciava tutte le forme dello sfruttamento e si caratterizzava essenzialmente per gli antagonismi di classe, la seconda - che si trovava ad uno stadio superiore dello sviluppo storico - era rappresentata come una società dove sarebbero gradualmente sparite le contraddizioni non antagonistiche dipinte per lo più come residui della vecchia società borghese. Gli studiosi sovietici avevano inventato la teoria delle “due dialettiche”: quella della società antagonistica e quella della società delle contraddizioni non antagonistiche, ma insieme avevano elaborato una nuova (in)comprensione della dialettica nel socialismo: non esistendo più nella società socialista alcun antagonismo e sparendo nel tempo anche la contraddizione non antagonistica, moriva di conseguenza la “forza motrice”, la fonte generatrice di ogni sviluppo sociale, che era determinata dalla “dialettica” (cioè dalla presenza della categoria della contraddizione nella società).

 

In questa atmosfera di lotta per la “purezza del marxismo” e di “promesse di fedeltà al leninismo”, la “muraglia cinese” rimase su, grazie ai successi della propaganda formale. Non era, certo, intenzione di Butenko rinnegare quanto aveva detto a suo tempo Lenin, ma egli cercava di reinterpretare il suo pensiero, ripulendolo da qualsiasi dogmatismo. Per Butenko, i due “contrari” (contraddizioni antagonistiche e non) interagivano in maniera “dialettica”; erano due principi mobili, che si condizionavano reciprocamente, e che potevano addirittura trasformarsi l’uno nell’altro. La questione della trasformazione delle contraddizioni antagonistiche in contraddizioni non antagonistiche, e viceversa, durante il corso dello sviluppo del socialismo, e non solo nella fase della sua edificazione, aveva indubbiamente una grossa portata teorica e pratica. Portata teorica, poiché veniva accettata l’idea che i due tipi di contraddizione non fossero in assoluto dei principi “contrari”, e che essi potevano addirittura trasformarsi l’uno nell’altro nel socialismo (in quanto principi dialettici interagivano e s’influenzavano reciprocamente). Inoltre, se secondo Lenin, i “contrari” a volte erano perfino dei “simili” (uno poteva diventare l’altro), perché questa regola non poteva essere ritenuta valida anche per la società socialista? Era, forse, quest’ultima esente da sviluppi sociali “irregolari” (con momenti di avanzamento ed altri di arretramento)? Sarebbe sempre proceduto tutto in modo lineare? La questione della trasformazione delle contraddizioni antagonistiche in contraddizioni non antagonistiche (e viceversa) aveva soprattutto una grossa portata pratica. Secondo i marxisti “formalisti”, gli sfruttatori erano stati “fisicamente” eliminati con l’edificazione del socialismo. La contraddizione antagonistica caratterizzava l’essenza del rapporto sfruttatori-sfruttati, ed esisteva all’epoca in cui i primi detenevano la proprietà privata dei mezzi di produzione e sfruttavano i lavoratori salariati; nel socialismo, la contraddizione antagonistica era stata annullata con la soppressione della proprietà privata e dello sfruttamento. Nuovi rapporti erano sorti fra gli sfruttatori di “ieri” - divenuti lavoratori nella nuova società - e gli sfruttati di “ieri”. Nella configurazione di una tale società non vi era più posto per i rapporti di sfruttamento. Ma in che modo era, allora, possibile analizzare la situazione dei milionari sovietici, dei trafficanti dell’economia sommersa, dei funzionari corrotti delle imprese statali, e così via? Erano, per caso, costoro, esclusi dal meccanismo dell’appropriazione dei risultati del lavoro altrui, vale a dire del meccanismo dello sfruttamento? E cosa dire di quella classe, genericamente definita “burocrazia”, che da tempo amministrava e controllava la proprietà nazionalizzata e socializzata, riservando a sé una posizione di forte privilegio nella società? Il corso storico dell’antagonismo sociale non era affatto esaurito. C’erano molti fatti a sostegno di quest’affermazione. Innanzi tutto, il principio fondamentale del socialismo: “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo il suo lavoro” non era stato messo in pratica. Dato che persistevano alcune “imperfezioni”, come quella del meccanismo di ripartizione del lavoro, non era possibile abbandonare lo studio dei rapporti d’iniquità nella società sovietica. Inoltre, la giustizia sociale, propria del socialismo, non la si poteva instaurare meccanicamente senza affrontare una lotta quotidiana tenace contro i tentativi di alcuni di “arricchirsi” tramite il lavoro altrui, e contro molte altre forme presenti di sopraffazione e antagonismo dei rapporti sociali.

 

Al centro del processo storico veniva, dunque, ricollocata la fertile categoria della “contraddizione antagonistica”, con lo scopo di costruire un pensiero strategico non già sulla metafisica delle c.d. leggi della storia, bensì sulla visione critica del potenziale accumulato. Nella pratica, il socialismo realizzato di tipo sovietico conteneva in sé molti tratti specifici di antagonismo. Si era sempre sostenuto che la logica della storia suggeriva lo sviluppo cosciente del socialismo sulla base della guida scientifica della società e della previsione altrettanto scientifica dei risultati di questo processo. E quando ci s’imbatteva nel volontarismo, nella violazione delle leggi oggettive, si trasgrediva immediatamente anche la logica della storia. Tuttavia questo schema interpretativo, utilizzato dalla dottrina sovietica per giustificare qualsiasi forma di deviazionismo e di degenerazione, aveva portato alla rottura del socialismo “ideale” con la sua reale sostanza, e alla non consapevolezza del suo limite storico. Il socialismo non poteva certo contenere in sé la soluzione di tutti i compiti storici. Proprio la comprensione di questo limite storico avrebbe condotto alla presa di coscienza delle sue reali contraddizioni e all’attivazione di quelle leve necessarie per migliorare l’uomo e il sistema. I nuovi studi sovietici prendevano le distanze da una visione del socialismo come sistema sociale “salvifico”, che affondava le sue radici nell’idealizzazione di una forma storica che si poneva in un luogo e in un tempo immaginari. Introducevano, infine, come oggetto serio di riflessione l’elemento “soggettivo” della storia: l’uomo. Anche qui veniva recuperata una comprensione meno “rousseauviana” dell’individuo, più coerente ai complicati processi di apprendimento e di educazione del cittadino ai valori del socialismo.

 

L’interpretazione dell’ineguaglianza

 

Per anni, aveva affermato T. Zaslavskaja, era stato propagandato l’avvento nel socialismo sviluppato dell’abbondanza dei beni materiali e culturali, e della realizzazione del principio “da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro”. Tuttavia, non erano stati garantiti a tutti i gruppi di popolazione i mezzi necessari (livelli di reddito e d’istruzione adeguati; professioni qualificate, pari accesso a beni e servizi materiali e culturali, ecc.) per raggiungere quegli obiettivi. Alcuni gruppi avevano reagito alla propria “incapacità” con la passività, l’assenteismo sul posto di lavoro, l’alcoolismo, la criminalità e, talvolta, con il distacco dagli stessi fini e valori del socialismo. Altri, ancora, avevano sviluppato la c.d. “seconda economia” (nel 1985, secondo i dati delle “Izvestija”, erano coinvolti circa 20 milioni di persone), che era un modo per procacciarsi beni e servizi altrimenti introvabili sul mercato ufficiale.

 

Un luogo comune che va immediatamente sfatato è che, in Unione Sovietica, tutti igruppi di popolazione possedevano i mezzi per acquistare beni di consumo e servizi che la produzione statale non era in grado di offrire, o che assicurava a livelli quali-quantitativi assai scadenti. Se ciò fosse stato vero, sarebbe stato sufficiente intensificare la produzione della sfera c.d. “improduttiva” dei beni di consumo, modificare la normativa relativa alla produttività del lavoro e risolvere le carenze croniche della rete commerciale distributiva. Ma il fenomeno in questione, che colpiva per le sue straordinarie dimensioni, non poteva essere considerato solo dal punto di vista della carenza di beni e servizi. Questo approccio partiva, infatti, dal presupposto di un raggiunto benessere medio di vita della popolazione totale tale per cui non esistendo più, in Urss, sostanziali ineguaglianze tra i vari gruppi sociali, sarebbe bastata una politica economica volta a dare priorità ad alcuni settori produttivi piuttosto che ad altri. Il fenomeno era evidentemente più complesso. Intanto, le opportunità di vita di gran parte dei cittadini erano insufficienti rispetto alle nuove aspettative sociali (per altro sostenute ed incentivate dal sistema sovietico). Avere un certo tipo di alloggio, un certo livello di vita culturale ed anche alcuni generi di beni durevoli non era ritenuto un comportamento antisocialista. Ma per una parte consistente della popolazione questi obiettivi erano ancora irraggiungibili. Molte donne, che vivevano in campagna, lavoravano per arrotondare il salario del coniuge, operaio di un sovchoz; molti pensionati lavoravano per sopperire alla bassa pensione, molti altri, ancora, svolgevano il doppio, triplo lavoro per guadagnare di più ed acquistare beni e servizi altrimenti inaccessibili (es: i giovani operai non qualificati dell’industria statale).

 

Dietro la facciata della politica ugualitaria nel campo delle retribuzioni (uravnilovka), vi erano innumerevoli indicatori a sostegno dell’aumento delle differenze di reddito reale e delle diversità del tenore di vita, le cui cause erano diverse e che affondavano in parte le loro radici nella persistente divisione sociale del lavoro, nella politica clientelare e corrotta della distribuzione dei “privilegi”, nell’autoperpetuazione della classe intellettuale e di potere, nelle differenze culturali e territoriali (fra città e campagna), nell’accesso disuguale agli istituti d’istruzione, e così via (con ciò non si vuole comunque negare che dalla fine degli anni ‘50 fino ai primi anni ’70 la politica dei salari fu caratterizzata da ripetuti aumenti dei livelli minimi, da una riduzione del rapporto tra paghe massime e minime, e da un livello sostanzialmente stabile delle retribuzioni dei lavoratori che percepivano i compensi più elevati). Il sociologo Il’inskij aveva denunciato la posizione di privilegio di quei giovani, i cui genitori avevano incarichi di prestigio: “É anche chiaro che la possibilità che alcuni giovani hanno di ottenere fondi addizionali e vantaggi sociali, sfruttando la carriera dei loro genitori, solleva sentimenti di protesta sociale e deteriora l’atmosfera morale e psicologica fra la gioventù e la società nel suo complesso”[14]. A. Vološin, un lettore della rivista “Kommunist”, aveva inviato nel 1987 alla redazione una lettera molto significativa riguardo al persistere di alcune forme d’ingiustizia sociale. Egli scriveva: “La vita ha dimostrato che pagare in maniera differenziata sulla base del contenuto e della natura del lavoro, è possibile solo quando siano garantite a tutti uguali possibilità nell’accesso all’istruzione e alla professione. Questa logica richiede di creare dapprima le condizioni oggettive e, solo dopo, passare alla distribuzione basata sul principio della remunerazione proporzionata al risultato del lavoro. Oggi noi possiamo dire che la base fondamentale di ciò è stata gettata, sebbene, osserviamo che ancora in diverse regioni del paese e in diversi insediamenti sia di tipo urbano che rurale, le opportunità di sviluppo materiale e spirituale delle persone non sono uguali. Il lavoro da fare in questa direzione è ancora molto”[15].

 

Sulla divisione sociale del lavoro, molti erano stati i contributi degli scienziati sociali negli anni della perestrojka. Il punto di partenza di questi contributi, che avevano più o meno lo stesso approccio interpretativo, consisteva nella notazione che nella struttura sociale della società sovietica, accanto alle differenze riconducibili alle diverse forme di proprietà socialista, acquistavano importanza essenziale le differenze socio-occupazionali fondate sulle peculiarità della divisione socio-economica del lavoro. La “qualità” del lavoro diventava la radice fondamentale della differenziazione sociale. Essa era concepita come un fattore che variava lungo un “continuum” manuale/mentale con differenti gradazioni, anche a seconda della complessità del lavoro e della misura in cui esso richiedeva capacità d’iniziativa di tipo manageriale o l’esecuzione di compiti prefissati. I contributi individuali allo sviluppo economico e culturale della società sovietica erano diversi, ed erano sempre meno condizionati dal rapporto delle persone rispetto alle forme canoniche di proprietà.

 

Il meccanismo sovietico dell’economia non permetteva ancora una suddivisione ugualitaria o una rotazione delle varie mansioni tra i lavoratori. Era necessario fissare per gli individui - e spesso per lunghi periodi di tempo - specifiche mansioni lavorative di diversa importanza per la società. Ecco, dunque, che la divisione del lavoro tra funzioni intellettuali e manuali, complesse e ordinarie, direzionali e subalterne, si traduceva nella suddivisione della società in differenti gruppi economico-sociali, che conservavano incarichi e responsabilità pressoché inalterati durante tutto l’arco della propria vita lavorativa, e che contribuiva in modo diseguale alla crescita economica e culturale della società. L’arretratezza del meccanismo della produzione comportava un numero limitato di posizioni di lavoro tali da richiedere l’utilizzo di elevate capacità intellettuali e manuali.

 

Le ineguaglianze retributive non derivavano principalmente dai diversi livelli dell’impegno individuale nel lavoro, dell’impegno ideologico, e neppure dei talenti naturali dei singoli. Non erano, cioè, semplicemente lo specchio dei differenti meriti. Esse erano il portato di una struttura sociale, le cui caratteristiche principali erano determinate in larga misura dalla struttura dei processi produttivi. La società riproduceva l’ineguaglianza sociale ed economica del capitalismo, in quanto la necessità pressante di una crescita economica ininterrotta richiedeva il permanere di una divisione sociale del lavoro. Questo era uno degli aspetti dell’immaturità del socialismo sviluppato di tipo sovietico degli anni ’70 e ’80. La differenza, in confronto con il sistema capitalistico, era che le ineguaglianze (almeno quelle di carattere economico) erano stabilite mediante decisioni prese a livello politico. Qualunque fosse stata la valutazione dal punto di vista della società dei diversi contributi portati dai vari gruppi socio-occupazionali, la struttura effettiva del ventaglio dei redditi era frutto delle decisioni delle autorità politiche e statali. Come avveniva, ad opera delle autorità, la traduzione (in termini di redditi differenziati) dei relativi “contributi” allo sviluppo economico dati, per esempio, dagli agricoltori delle aziende collettive, dai quadri dell’industria o dai lavoratori delle imprese di beni d’investimento o beni di consumo? Non era forse vero che la valutazione di tali ”contributi” rispecchiava le priorità economiche stabilite da quegli stessi enti che fissavano i livelli di reddito? E in base a quali criteri i capi di tali enti, nella loro veste di specialisti del “management sociale” misuravano il proprio contributo (e quindi i propri livelli di reddito)? Le polarità fondamentali, nell’ambito della struttura sociale, tra quanti controllavano e consumavano il “surplus” economico prodotto dalla società e quanti lo generavano rimanevano celate.

 

Per Jakovlev il socialismo sviluppato di tipo sovietico non aveva soppresso la divisione tra lavoro “astratto” e lavoro “concreto”. Era stato, però, introdotto nella coscienza e nella pratica il seguente postulato: “l’assenza della proprietà privata e persino semplicemente il piano statale fanno si che ogni lavoro sia direttamente sociale e indispensabile”. Ma questo dogma aveva legittimato il lavoro utile e dannoso, il lavoro impeccabile e abborracciato, il lavoro necessario e superfluo. É evidente che dietro a quel dogma operava in realtà l’incapacità del sistema politico ed economico di costruire un regime del lavoro ottimale, dovuta al degrado materiale e morale della posizione che aveva assunto il lavoro nelle particolari condizioni sovietiche di arretratezza tecnologico-scientifica. Nel contempo, il lavoro era stato diviso in lavoro produttivo nella sfera materiale e in lavoro improduttivo nelle altre sfere. Di qui il principio residuale applicato agli investimenti nelle infrastrutture sociali, la tecnocrazia, la sottovalutazione del fattore umano. Di qui, inoltre, l’umiliazione dello status sociale del sapere e dell’autentica professionalità.

 

Nel suo saggio “Zanjatost’: deficit ili izbytok?”, il sociologo Vladimir Kostakov aveva sostenuto che l’assenza di un regime ottimale del lavoro dipendeva sostanzialmente da una situazione di arretratezza economica e tecnico-scientifica del paese e di scarso sviluppo delle sue forze produttive. Tale situazione aveva condotto alla creazione artificiale di posti di lavoro, che erano evidentemente superflui. Ecco perché il principio fondamentale del socialismo “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo il suo lavoro”, non trovava applicazione: “Molti lavoratori in eccedenza sono impiegati nell’economia, a causa dell’operazione irregolare delle imprese. Per operazione irregolare s’intende che molte imprese industriali ed edili devono mantenere una riserva di manodopera da utilizzare allo scopo di raggiungere pienamente gli obiettivi prefissati dal piano, una riserva che non sarebbe necessaria se la produzione ed il sistema del supporto tecnico e materiale fossero ben organizzati. I lavoratori superflui esistono anche nel settore dell’agricoltura per la presenza del lavoro stagionale. Devono essere create le condizioni per una combinazione razionale del lavoro agricolo e di altri tipi di lavoro. Mantenere nell’economia un esercito di lavoratori superflui significa avere una bassa qualità della produzione. Il numero crescente di lavoratori in eccedenza nell’economia è sostanzialmente il motivo della bassa produttività del lavoro”[16].

 

Kostakov sosteneva, inoltre, che era sempre stato divulgato il principio del “pieno impiego” nel socialismo: nella società socialista il mezzo fondamentale di sostentamento dell’individuo era il lavoro. Dunque, era necessario garantire a tutti un’occupazione. Ma un conto, precisava l’autore, era sostenere il “pieno impiego”, altro era, invece, praticare l’impiego “diffuso” (od “esteso”). Kostakov concludeva che la politica del posto di lavoro “a tutti i costi” era ideologicamente difesa con il principio del “pieno impiego” nel socialismo. Tuttavia, tale politica nascondeva, in realtà, l’impossibilità d’impiegare in modo razionale ed efficace la forza lavoro e, di conseguenza, la necessità di mantenere ancora un numero elevato di posti di lavoro a bassi livelli di capacità intellettuale e manuale.

 

Quanto è stato sinora detto testimonia della disuguaglianza economica e sociale in Urss, che non era tuttavia soltanto il portato dell’economia sommersa o del ladrocinio di burocrati e funzionari corrotti, ma era anche il prodotto dello stesso meccanismo imperfetto del sistema economico sovietico e dell’organizzazione politica e sociale della società. L’economia ombra non procurava a una fetta di popolazione solo beni e servizi irreperibili sul mercato ufficiale ma forniva, seppure in modo illegale, i mezzi necessari per sostenere un certo tenore di vita, misurato beninteso non solo in termini di benessere materiale, ma anche in termini di qualità della vita, di cui già godevano alcuni gruppi privilegiati di popolazione senza dover ricorrere al mercato nero. Lo sviluppo notevole dell’economia sommersa aveva, a sua volta, innescato ulteriori processi di forte discriminazione economica e sociale. Chi accedeva al mercato nero poteva guadagnare così bene da procurarsi beni e servizi “privati” a prezzi esorbitanti. Si era creata una sorta di “concorrenza” tra beni e servizi pubblici e beni e servizi disponibili sul mercato nero, con un divario di prezzo tale per cui gli strati più poveri della popolazione (la maggior parte dei cittadini sovietici) si dovevano accontentare di quel poco e di bassa qualità che offriva la produzione statale, e quelli che si erano arricchiti con il mercato nero potevano accedere all’acquisto di beni e servizi privati. I ceti tradizionalmente ricchi e privilegiati della popolazione potevano reperire gli stessi beni e servizi in speciali magazzini e agenzie statali (il cui accesso era limitato ad alcune categorie di lavoratori: ministeriali, giornalisti, politici). Potremmo paradossalmente dire che come esisteva una “prima” ed una “seconda” economia, così pure esisteva una “prima” disuguaglianza economica e sociale (connessa alla “prima” economia) ed una “seconda” disuguaglianza (connessa alla “seconda” economia), con la nota che quest’ultima era già l’effetto della “prima” disuguaglianza.

 

Per gli economisti Rakitskij e Šochin, uno dei compiti del socialismo sviluppato doveva essere quello del graduale avvicinamento dei redditi reali delle classi, degli strati e dei gruppi sociali. Ciò avrebbe consentito la “materializzazione” della giustizia sociale. Per ottenere un’equa distribuzione della ricchezza nel socialismo era però necessario soddisfare almeno tre condizioni: 1) la distribuzione doveva essere compiuta solo tra famiglie che lavoravano; 2) l’accostamento dei livelli dei redditi reali delle famiglie che appartenevano ai diversi gruppi, strati e classi sociali doveva essere costante; 3) ad ogni famiglia doveva essere garantita la crescita ininterrotta del reddito reale per la regolare partecipazione dei suoi membri, idonei al lavoro, alla produzione sociale. Un altro compito che si poneva alla società socialista sviluppata era quello dello sviluppo materiale e spirituale dell’uomo tramite il “lavoro”. Il lavoro non doveva essere solo la fonte principale di sostentamento dell’individuo, ma anche un forte stimolo per la sua crescita culturale e sociale. Per la concretizza±ione di questo obiettivo era necessaria la giusta corrispondenza dei “mezzi” e dei “fini”, vale a dire il poter disporre di mezzi (leciti) da usare per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, che richiedeva, a sua volta, la creazione di condizioni di pari opportunità nell’ambito del lavoro per tutti i gruppi socio-occupazionali. Ciò avrebbe consentito l’attuazione della piena giustizia sociale: “Il principio della giustizia sociale, nel campo del lavoro, non è altro che la misura storico-concreta della corrispondenza dei mezzi con i fini”[17].

 

Gli economisti Rakitskij e Šochin individuavano, infine, l’origine dell’ineguaglianza, nel socialismo di tipo sovietico, attraverso l’analisi di due tipologie di contraddizioni basilari specifiche della società socialista (cioè non ereditate, ma sorte con essa). La prima tipologia comprendeva tutte quelle contraddizioni che si addensavano nel problema del diseguale andamento dello sviluppo della produzione economica e sociale da un lato, e del soddisfacimento della domanda popolare di consumo dall’altro (era il tema permanente della mancanza di armonia tra razionalità in se’ delle forze produttive, crescita dei bisogni materiali e spirituali, contenuti del lavoro, distribuzione del reddito, ecc.). La seconda tipologia raccoglieva le contraddizioni che venivano definite “temporanee” e riassumibili nel dislivello esistente tra le gigantesche potenzialità del sistema socialista sovietico e il livello del loro reale utilizzo. Pur negando il carattere strutturale della contraddizione (cioè il suo implicare i rapporti di produzione e le leggi intrinseche del sistema), l’applicazione di questo schema all’interpretazione della disuguaglianza in Urss e, in particolare, il tentativo di trovare delle cause non “congiunturali” ai meccanismi profondi e lontani della disuguaglianza economica e sociale, aprivano una fase di più esplicita autoanalisi critica, fuori dalla solita ossessione apologetica di far sempre quadrare i conti tra realtà e canoni.

 

Ma certamente colui che aveva spinto le sue analisi delle contraddizioni oltre ogni limite “pensabile” (nemmeno Z.A. Stepanjan, il pioniere della questione delle contraddizioni nel socialismo, si era mai spinto così oltre nella sua analisi) era Butenko, il quale riteneva che il socialismo, nonostante la sua rivoluzione dei rapporti di produzione e di potere, non fosse affatto “immune” dal rischio storico di una crisi sistemica. All’origine dell’ineguaglianza economica e sociale vi era la contraddizione fondamentale del socialismo sovietico, che era data dallo sviluppo progressivo delle forze produttive ed il sistema reale dei rapporti di produzione (la particolare correlazione delle varie forme di proprietà socialista; il meccanismo del sistema economico concreto incluse tutte le sue forme di ripartizione, di scambio e di consumo; i metodi della pianificazione, della gestione e dell’incentivazione al lavoro, etc.). Lo sviluppo delle forze produttive richiedeva un radicale miglioramento del sistema dei rapporti di produzione e dell’insieme dei rapporti sociali. La necessità di perfezionare l’organizzazione politica della società ed il suo sistema economico partiva dal carattere dinamico dei bisogni e degli interessi della popolazione, dall’aumento del livello d’istruzione, cultura e coscienza politica di quest’ultima, ed anche dal cambiamento della situazione nazionale ed estera. I rapporti di produzione costituivano ormai un “freno” all’ulteriore sviluppo delle forze produttive. La produzione economica sociale non era in grado di soddisfare i bisogni, e ciò determinava la collisione tra l’interesse individuale e quello sociale. La crescita lenta della produzione, della scienza e della tecnologia era la causa prima del permanere, nella società sovietica, di forme di lavoro “primitive”, che accentuavano la contraddizione tra i livelli d’istruzione raggiunti e le nuove possibilità ed aspirazioni dei lavoratori, e certe forme “arcaiche” di lavoro.

 

Inoltre, l’origine della discrepanza tra forze produttive e rapporti di produzione andava pure ricercata nella comprensione “volgare” dell’interazione, o dialettica, delle forze produttive e dei rapporti di produzione, secondo cui le forze produttive si sarebbero automaticamente evolute con il graduale perfezionamento dei rapporti di produzione. I filosofi e gli economisti si erano convinti che, nel passaggio dal capitalismo al comunismo, i rapporti di produzione avrebbero dovuto subire cambiamenti qualitativi progressivi: la proprietà capitalistica privata si sarebbe trasformata in proprietà dello Stato e la piccola proprietà privata dei contadini in proprietà collettiva. Con il consolidarsi del socialismo, e quindi del raggiungimento di un livello di sviluppo sufficientemente elevato delle forze produttive, sarebbe avvenuta la fusione delle due forme di proprietà socialista in una sola: la proprietà comunista. Questo approccio schematico e meccanicistico si era rivelato nel tempo sbagliato. Esso considerava la statalizzazione e la cooperazione dei mezzi di produzione forme sufficienti a creare nuovi rapporti di produzione tali da trovarsi già ad un livello di sviluppo superiore rispetto a quello delle forze produttive. Tali filosofi ed economisti si sarebbero poi richiamati alla nota tesi di Marx, secondo cui “i rapporti di produzione non possono oltrepassare di molto il livello di sviluppo delle forze produttive”.

 

La base teorica errata di questa interpretazione stava nell’avere confuso la socializzazione reale dei mezzi di produzione con la sua socializzazione giuridica formale, anche se quest’ultima (con la statalizzazione e la collettivizzazione) aveva, in effetti, liquidato la proprietà capitalistica privata e la piccola proprietà contadina, creando, nel contempo, le premesse per la nascita di nuovi rapporti di produzione. Questi nuovi rapporti sono stati a loro volta condizionati dal carattere e dal livello reale di sviluppo delle forze produttive, dallo stato della produzione e dai mezzi del lavoro esistenti. Una sola possibilità si offriva all’Urss con un livello di sviluppo delle sue forze produttive effettivamente basso e dove ancora predominava il lavoro manuale: imboccare la via dello “sviluppo estensivo”, che implicava la creazione di tutto un complesso di rapporti di produzione reali, di un meccanismo di gestione e di pianificazione adeguati a quell’unica possibilità. Alla fine, ne è risultato un sistema economico segnato da una spesa eccessiva e basato su indicatori di crescita quantitativi e rozzi. In queste condizioni, “il lavoro vivo è rimasto subordinato al lavoro morto, si sono conservate le forme di divisione sociale del lavoro e la differenza tra lavoro intellettuale e manuale, le funzioni dell’organizzazione e del controllo della produzione sono rimaste nelle mani dei gestori diretti della ricchezza (ministri, direttori d’impresa, ecc.) e, dunque, l’appropriazione reale dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori deve ancora realizzarsi” [18].

 

Le riforme

 

Da quando Gorbačëv era diventato Segretario Generale del Comitato Centrale del Pcus, i sistemi legale, economico e politico del paese erano stati esposti a dura critica e ad analisi profonda per individuare opportune soluzioni di riforma. I principali problemi, con i quali il Segretario si era dovuto confrontare, erano l’obsolescenza tecnica e scientifica nell’industria, la bassa produttività del lavoro, la qualità scadente della produzione nella manifattura e agricoltura, la burocrazia inefficiente e corrotta dell’amministrazione dello Stato, dell’impresa e dell’apparato di partito.

 

Preso atto della gravità di questi problemi, il Soviet Supremo emanava quasi subito dei provvedimenti con i quali venivano introdotte nuove condizioni di management in favore di un allentamento della presa burocratica sull’economia e sulla società sovietica in generale, mentre la pubblica amministrazione era sottoposta ad un grado più elevato di democratizzazione e di regolamentazione giuridica, prevedendo l’estensione e il perfezionamento del sistema sul controllo dell’azione amministrativa dei funzionari pubblici. Una legge[19] determinava gli atti amministrativi ritenuti illeciti (che danneggiavano o che contrastavano con i diritti dei cittadini) e che erano suscettibili di denuncia penale e/o civile. Con la riforma delle procedure amministrative per la difesa e la garanzia dei diritti civili e soggettivi veniva superato il sistema informale di difesa epistolare del cittadino, che gli permetteva di denunciare alla stampa eventuali soprusi od ingiustizie. Un’altra serie di riforme comprendeva la revisione di alcuni principi legislativi e delle procedure legali: riforma costituzionale, ruolo della legge in Urss e della Procura, riassetto dei tribunali che doveva, innanzitutto, assicurare la legalità dell’azione amministrativa e/o penale.

 

Il senso di tutti questi provvedimenti stava nel bisogno del partito di rimuovere gli intralci peggiori dell’economia sovietica ormai stagnante, di sottoporre la res publica ad un controllo più incisivo e nel desiderio di dare maggiore credibilità allo Stato. In questo clima, era stata anche riesumata la teoria fondamentale della democrazia partecipatoria, che ispirava tutta la dottrina costituzionale ufficiale, per indebolire le resistenze di amministratori e funzionari e dare, di conseguenza, maggiore impulso alle riforme. Questa teoria veniva espressa attraverso l’incoraggiamento delle elezioni “contestate” nel partito, nei soviet e nei posti direttivi, e tramite la discussione aperta e franca sulle disfunzioni e i difetti del sistema. Il criticismo costruttivo era sostenuto e favorito dalla leadership del partito, per sensibilizzare e trovare consenso tra la popolazione sul tema delle riforme, senza tuttavia mettere in discussione i principi marxisti leninisti cui s’ispiravano le stesse riforme. Le riforme di Gorbačëv andarono ben oltre. Con l’intento di fornire nuovi impulsi alla crescita, egli cacciò, nei suoi primi dodici mesi di mandato, 46 dirigenti regionali su 156; il 50% dei ministri del governo e dei presidenti di organismi statali e il 30% dei segretari di partito furono rimossi. Circa duecentomila funzionari furono licenziati. In confronto con il numero totale dei burocrati di partito e statali (19 milioni), questa era una cifra insignificante, eppure provocò un’aspra resistenza da parte dei settori privilegiati della burocrazia.

 

La prima fase della campagna di riforma, com’è noto, si era focalizzata sulla glasnost’ (trasparenza), e mirava ad evidenziare il gap esistente fra i miti del sistema e i suoi reali difetti. In questa fase della campagna, i mass-media avevano giocato un ruolo preponderante nella guida del dibattito. La seconda fase della campagna si era invece concentrata sulla perestrojka, cioè sull’implementazione e realizzazione delle riforme. Il nuovo approccio ai problemi aveva, tuttavia, radici lontane. La dirigenza del partito, già dalla metà degli anni sessanta, si era posta il problema di una politica della trasparenza, che facesse emergere i limiti più macroscopici del sistema. Di quel periodo era stata la discussione accesa attorno all’uso delle elezioni “contestate” come mezzo fondamentale per scalzare la burocrazia. Erano stati, inoltre, fatti dei tentativi per migliorare lo stato dell’industria con l’introduzione del “contratto” e la riduzione dei particolarismi burocratici del piano. Il riconoscimento della necessità di una riforma di vasta portata e i tipi di provvedimenti suggeriti non erano, dunque, affatto nuovi. Nuovo era, invece, il realismo con cui si cercava di affrontare il problema nodale del “fattore umano” e dell’esistenza delle contraddizioni degli interessi nella società sovietica.

 

Una delle più importanti riforme politiche, della fine degli anni ottanta, era stata quella che aveva puntato sulla separazione tra lo Stato e le organizzazioni sociali. Alla XIX Conferenza del partito comunista (luglio 1988), veniva deciso di ridurre il ruolo del partito nell’amministrazione dello Stato, e di aumentare quello dei soviet. In quell’assise era stata posta molta enfasi sulla partecipazione popolare alle decisioni politiche, con lo scopo di controbilanciare lo “strapotere” del partito. Il perno su cui ruotavano principalmente le riforme politiche riguardava il processo di democratizzazione e di partecipazione popolare alle decisioni fondamentali del paese, in conformità con il dettato costituzionale sancito dall’art. 48: “I cittadini dell’Urss hanno diritto di partecipare all’amministrazione degli affari statali e sociali, alla discussione e all’approvazione delle leggi e delle discussioni d’importanza nazionale e locale. Questo diritto è assicurato dalla possibilità di eleggere e di essere eletti ai Soviet dei deputati popolari e ad altri organi elettivi dello Stato, di partecipare alle discussioni e alle votazioni di tutto il popolo, al controllo popolare, al lavoro degli organi statali, delle organizzazioni sociali e degli organi di iniziativa sociale, alle assemblee dei collettivi di lavoro e nei luoghi di residenza”.

 

Accanto alle riforme politiche erano state avviate anche riforme economiche. Queste riguardavano l’introduzione dell’autofinanziamento e dell’autogestione nelle imprese e di un sistema articolato d’incentivazione materiale e morale per aumentare la produttività del lavoro. In più, veniva introdotta la possibilità di un certo margine di attività privata, che si esplicava con il lavoro individuale (autonomo)[20] o per piccoli gruppi (lavoro d’appalto) sottoposti, comunque, entrambi a precise condizioni e vincoli. Ampio spazio veniva dato alla costituzione di piccole cooperative o di collettivi agricoli a conduzione familiare[21]. Altre riforme includevano il diritto delle imprese di trattare direttamente con l’estero. A tale scopo, veniva incoraggiata la costituzione d’imprese miste con le compagnie occidentali, a patto però che il 51% delle azioni fosse riservato ai partner sovietici. Altro punto centrale della riforma economica era la trasformazione della gestione dell’impresa, vale a dire il passaggio da un sistema di gestione “amministrativo” ad uno “economico”. Questa trasformazione si proponeva di ridurre l’eccessiva regolamentazione amministrativa, dando maggiore spazio alle imprese, alle associazioni e ai collettivi di lavoro, e di rimuovere la pratica diffusa dei cittadini di arricchirsi tramite redditi illegali o da non lavoro.

 

Gorbačëv, e altri leader di partito, avevano posto l’accento sul carattere “rivoluzionario” delle riforme. Cambiavano alla radice le strutture politiche, economiche e sociali. Aveva luogo una ridistribuzione del potere e delle libertà, dei diritti e dei doveri fra le classi, i gruppi e gli strati sociali della popolazione. Due erano le questioni che la grande portata teorica e pratica delle riforme sollecitava: 1) quali indirizzi perseguivano le riforme, e in nome di quali gruppi d’interesse venivano realizzate? 2) quali erano le potenziali vie di sviluppo che le riforme aprivano nella società?

 

A proposito della prima domanda, la sociologa Zaslavskaja aveva subito chiarito che le riforme non dovevano essere interpretate come un’occasione per far emergere lo scontro sociale latente. Esse non avrebbero dovuto fomentare la lotta “antagonistica” degli operai e dei contadini contro i lavoratori dell’apparato di partito, dell’amministrazione statale o del commercio e dei servizi alla popolazione. Le riforme si dovevano distinguere come una rivoluzione radicale democratica promossa dalle forze “sane” della società civile (i dirigenti politici ed economici d’impresa dalle tendenze progressiste, gli operai d’avanguardia e i contadini intraprendenti, l’intellighenzia socio-umanistica) e avversata dalle forze “reazionarie” (i lavoratori corrotti dell’apparato di partito e dell’amministrazione statale, una parte dell’intellighenzia socio-umanistica, i lavoratori responsabili del commercio e dei servizi e, infine, i rappresentanti della criminalità organizzata)[22].

 

Per quanto riguardava la seconda domanda, la sociologa aveva individuato due possibili vie di sviluppo: 1) quella radicale democratica; 2) quella liberale conservatrice. Sottolineava, da subito, l’insidiosità della via liberale conservatrice, poiché se la liberalizzazione presupponeva un processo di apertura e di abbattimento delle rigidità del sistema, per contro questa soluzione non avrebbe favorito (anzi, avrebbe ostacolato) la ridistribuzione del potere e delle libertà, dei diritti e dei doveri dei cittadini, e si sarebbe principalmente connotata per la conservazione o l’introduzione di nuovi privilegi di classe o di gruppo a scapito di altri. Questa via di sviluppo avrebbe sicuramente aperto le porte ad un capitalismo alla russa (peggiore di quello occidentale perché avrebbe risentito dell’arretratezza economica e sociale del paese). Il risultato sarebbe stato il ritorno dell’Urss al periodo in cui dominava una sorta di capitalismo parassitario per opera dei kulaki. Al contrario, la via radicale democratica si sarebbe battuta per la ridistribuzione equa della ricchezza tra i diversi gruppi/strati sociali. Avrebbe, inoltre, condotto alla revisione totale del modo di gestire il potere e l’informazione, alla creazione di strutture autonome di gestione e alla reale partecipazione popolare alle scelte fondamentali del paese.

 

Il destino del popolo russo dipendeva dalla via di sviluppo che sarebbe prevalsa. Se fosse stata vincente la via radicale democratica, allora dopo il miracolo cinese e giapponese si sarebbe assistito al miracolo sovietico. Da paese arretrato l’Unione Sovietica si sarebbe trasformata in uno Stato potente, moderno, dinamico e concorrente con gli altri paesi. Viceversa, se fosse passata la linea conservatrice liberale, il paese avrebbe perso la sua posizione di prestigio internazionale, si sarebbe trovato isolato dal resto del mondo e, cosa ancor più grave, la strada imboccata avrebbe assunto un carattere irreversibile.

 

Un’altra questione che era stata posta in quegli anni era quella di capire quale sarebbe stato il prezzo sociale che la società sovietica avrebbe dovuto pagare nel corso del cambiamento. Era possibile immaginare una trasformazione di portata “rivoluzionaria”, senza innescare alcun antagonismo? Essa implicava necessariamente la modifica relativa e assoluta delle condizioni dei gruppi/strati sociali e, quindi, la loro lotta per la difesa degli interessi particolari.

 

Ecco perché, secondo la Zaslavskaja, la strategia della gestione sociale aveva, tra i suoi compiti prioritari, quella di ridurre al minimo i conflitti e le tensioni, per diminuire il prezzo sociale da pagare. Bisognava puntare, nei limiti del possibile, a creare condizioni di accordo sociale. Ciò non significava, dal punto di vista della sociologa, approdare ad un compromesso tra i diversi interessi, ma piuttosto impegnarsi per far prevalere gli interessi “sani” su quelli “insani”, e ciò comportava per alcuni soggetti un guadagno e per altri una perdita. Il compromesso degli interessi avrebbe danneggiato e frenato il processo della riforma globale. La perestrojka innescava il conflitto. Ciò era inevitabile. I leader del partito dovevano essere pronti a fronteggiare la disputa e la diatriba degli interessi che la riforma sollevava e guidare il nuovo corso nella direzione voluta, possibilmente con le minime perdite e lesioni sociali.

 

La giustizia sociale (o socialista)

 

La Zaslavskaja suggeriva alcune regole fondamentali, affinché fosse eliminato lo squilibrio presente tra fini e strumenti e, di conseguenza, corretta una delle più evidenti ingiustizie caratterizzata appunto dalla diseguale ripartizione dei beni materiali e culturali tra la popolazione. La materializzazione concreta di questa politica era costituita da un programma complesso che poteva essere distinto in minimo e massimo. L’obiettivo dell’integrazione tra valori finali e strumentali ricadeva nel programma massimo, e sarebbe stato raggiunto una volta che tutti i gruppi di popolazione avessero ottenuto parità di condizioni e pari opportunità sia nell’uso degli strumenti sia nel raggiungimento dei fini. Nelle risoluzioni sul Piano di sviluppo economico e sociale dell’Urss per il 1986-2000 si era posta grande attenzione al tema dell’educazione della nuova generazione, al rafforzamento della base tecnica materiale dell’istruzione scolastica e professionale, al perfezionamento dell’orientamento professionale degli studenti. Erano previste importanti trasformazioni riguardanti le condizioni, la natura e il contenuto del lavoro. Si prevedeva il superamento delle sproporzioni più evidenti nella remunerazione delle diverse categorie di lavoratori, e si attribuiva importanza rilevante al perfezionamento del meccanismo di circolazione dei beni di consumo e dei servizi.

 

Accanto a questo che era il programma massimo, ve n’era uno minimo. Il programma minimo della giustizia sociale (o socialista) poneva tra i suoi compiti fondamentali: 1) la soppressione dei fenomeni più gravi generati dall’economia ombra (tenevaja ekonomika): corruzione, prevaricazione dell’interesse individuale su quello collettivo, redditi da non lavoro e illegali, rete di legami tra affaristi sommersi e funzionari corrotti dell’apparato statale; 2) il controllo dei redditi dei gruppi occupati prevalentemente nel lavoro individuale, prevedendo a partire da una base determinata di reddito la possibilità dell’obbligo di un’imposta progressiva. Una differenza troppo forte per unità di lavoro, rispetto alla produzione sociale, poteva portare alla formazione di un ceto al quale sarebbe andata una quota della ricchezza sociale troppo elevata rispetto alla restante massa di lavoratori. Gli interventi individuati per l’attuazione del programma minimo erano principalmente di natura correttiva, e se non portavano immediatamente ad eliminare le cause di fondo dell’ingiustizia sociale erano almeno utili per contenere alcune palesi ineguaglianze.

 

Parallelamente operava una linea strategica (riferita al programma massimo), che aveva essenzialmente lo scopo di: 1) rielaborare gli attuali meccanismi di pianificazione e gestione dell’economia; 2) superare gradualmente la divisione sociale del lavoro, che stava alla base delle ineguaglianze nei redditi, nei livelli culturali e nel prestigio sociale; 3) eliminare la differenza tra lavoro intellettuale e manuale; 4) omogeneizzare le possibilità di partenza per dare pari opportunità di sviluppo delle capacità e dei talenti dei vari gruppi sociali, che vivevano in regioni diverse del paese, in città o in campagna. L’avvio di questa politica avrebbe, in definitiva, permesso la coerente attuazione del principio “da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo il suo lavoro”.

 

In Urss, il problema dell’amministrazione dello Stato e delle sue articolazioni territoriali, dalla fine degli anni trenta sino ai primi anni sessanta, era stato affrontato soprattutto da giuristi e specialisti del diritto amministrativo. Tuttavia, la riconsiderazione del “fattore umano” nel sistema politico ed economico richiedeva l’adozione di un approccio multi-disciplinare, in grado di tenere conto della storia e dell’economia politica, della filosofia, della sociologia e psicologia sociale. Sulla base di questo approccio, a partire dalla rivoluzione d’Ottobre, la pianificazione scientifica centralizzata era stata la caratteristica fondamentale del sistema sovietico. La teoria, che giustificava ideologicamente la scelta del piano, partiva dal presupposto che i lavoratori, sostenuti dal clima inebriante della rivoluzione, non fossero guidati nell’economia, nel sociale e nella politica da interessi personali, bensì da interessi generali. Tuttavia, per una serie di motivi, l’entusiasmo collettivo era stato nel tempo smorzato dall’eccessiva centralizzazione e rigidità del metodo “amministrativo” di pianificazione, che aveva eluso i problemi emersi nel frattempo della contraddizione degli interessi, della democrazia imperfetta e dell’assenza della partecipazione popolare alle decisioni. In sostanza, la leva del “fattore umano” nell’amministrazione dello Stato, della politica e dell’impresa era stata completamente trascurata. Il riconoscimento del “fattore umano” trovava la sua giustificazione più importante nel fatto che la società socialista sviluppata non aveva soppresso le contraddizioni degli interessi (inclusi i bisogni) dei differenti gruppi sociali. Queste contraddizioni erano finalmente accettate, ed anzi per alcuni erano considerate la molla decisiva della dinamicità e della rigenerazione del sistema, della possibilità dell’affermarsi della creatività e del progresso futuro. Erano, insomma, una ricchezza.

 

La pianificazione statale centralizzata non poteva funzionare se mancava l’interesse e il coinvolgimento popolare nelle decisioni, così come la legge era inefficace se i cittadini non fossero stati motivati a rispettarla e applicarla. Molti provvedimenti erano diretti a superare il problema della mancanza dell’impegno dei lavoratori, con l’aumento degli incentivi materiali e morali per innalzare la produttività ed incoraggiare la partecipazione a tutti i livelli. L’ethos profuso dai leader del partito, per recuperare il controllo sostanziale dell’amministrazione pubblica e delle imprese, arrivava a comprendere anche provvedimenti di tipo “punitivo”, che includevano ammende, riduzioni dei premi, dimissioni forzate, sino al licenziamento diretto del management. E’ noto che Lenin rilevasse nel taylorismo la presenza di una serie di caratteristiche positive che potevano risultare utili nella realizzazione di un’organizzazione efficiente del lavoro. L’idea di Lenin era quella di trasformare ciò che nel contesto capitalistico gli appariva come un raffinato mezzo di brutale sfruttamento in un’appropriazione collettiva dei nuovi metodi di organizzazione del lavoro, tipici della grande industria meccanizzata. Era il taylorismo la via considerata più rapida ed economica per insegnare a lavorare ad una forza lavoro in larga parte nuova ed inesperta. Negli anni venti si trattava d’insegnare la razionalità del lavoro industriale ad una manodopera in maggioranza di origine contadina. Nel corso del trentennio di guida staliniana si era compiuta la grande trasformazione del paese da rurale ad urbano industriale. Ma è con l’inizio degli anni sessanta che cominciava ad aprirsi un dibattito su cosa fosse “razionale” (o irrazionale) nella gestione dell’impresa sovietica. Nella nuova fase di sviluppo industriale non si trattava d’insegnare ad ex contadini come diventare eccellenti operai, quanto piuttosto di far assimilare nuovi criteri e metodi di gestione delle risorse umane e strumentali ai direttori sinora esclusivamente concentrati sulla realizzazione (pressoché quantitativa) degli obiettivi del piano. Si trattava, insomma, di realizzare forme superiori di gestione e organizzazione del lavoro collettivo d’impresa.

 

I compiti della sociologia, delle scienze sociali e dell’organizzazione erano stati fissati in una serie di risoluzioni del partito a partire dai primi anni sessanta. Tali compiti miravano ad uno scopo fondamentale: l’applicazione di nuovi meccanismi di riorganizzazione del lavoro sociale nel quadro di una direzione scientifica della società socialista sviluppata. Tutto ciò avrebbe dovuto trovare attuazione con una serie di metodi d’intervento raccolti sotto la denominazione di pianificazione sociale intesa come “determinazione scientificamente fondata di obiettivi e di indicatori di sviluppo dei processi economici e sociali ed elaborazione dei mezzi principali per la loro traduzione operativa negli interessi della classe operaia e di tutti i lavoratori della società socialista”. Nella società socialista sviluppata erano considerate fondamentali tre esigenze: perfezionamento dei metodi di gestione, utilizzazione di nuove risorse per accrescere l’efficienza produttiva, sviluppo dell’attivismo sociale dei lavoratori. Vari autori enfatizzavano l’uno o l’altro di questi obiettivi. Sembrava esserci, in ogni caso, a giudicare dalla letteratura più vicina agli anni ottanta, una tendenza verso un approccio onnicomprensivo orientato alla contemporanea ottimizzazione di tutte e tre queste esigenze. Era, in pratica, il modello sistemico per programmi quello maggiormente favorito, che considerava insieme tutti gli aspetti della gestione pianificata, e si poneva l’obiettivo di superare le tradizionali conseguenze negative dell’approccio settoriale o per sfere di produzione del piano. In particolare, andava superata la dicotomia tra lavoro produttivo (es. quello dell’industria) e improduttivo (es: quello del terziario), che aveva pesantemente segnato il meccanismo di pianificazione, la politica degli investimenti e le scelte macro-economiche.

 

Al modello per programmi se ne affiancavano altri, come quello costruito su micro-obiettivi, incentrati sul miglioramento del clima di lavoro delle cellule organizzative, sui sistemi d’incentivazione materiale e morale ecc., che si differenziavano per la “qualità” dei contenuti e per le diverse prospettive temporali d’attuazione. L’approccio per programmi si giustificava con le necessità imposte dal progresso tecnico e scientifico e con la maggiore complessità organizzativa e sociale delle imprese. Gli aspetti più “pragmatici” (modello per micro-obiettivi) erano distinti da quelli economici e sociali, cruciali per la crescita generale del paese. Ovviamente, le diverse forme di pianificazione, pur nella diversità dei contenuti e dei tempi di esecuzione, erano ispirate da criteri comuni: centralismo democratico, oggettività, concretezza, ottimizzazione, scientificità e loro applicazione negli interessi esclusivi della classe operaia e di tutti i lavoratori della società socialista. Per la Zaslavskaja, la pianificazione, nel quadro del progetto di rinnovamento globale, doveva mirare alla revisione del sistema di direzione e gestione dello Stato, del partito e dell’impresa e ad un nuovo livello di politica sociale. Il nuovo metodo di direzione e gestione doveva costruire un sistema leale ed efficace delle relazioni economiche teso a stimolare l’interesse del lavoratore verso i risultati del proprio lavoro e di quelli dell’impresa. Apprezzare e premiare il contributo lavorativo individuale significava accrescere il livello quali-quantitativo dei prodotti e dei servizi finali da ripartire nella società. Il lavoro superfluo era uno degli ostacoli più evidenti allo sviluppo delle forze produttive (in molte imprese, affermava la sociologa, i lavoratori superflui rappresentavano il 5-15% della forza lavoro), ed era un freno per l’accelerazione del progresso tecnico scientifico. Di regola, la domanda superava l’offerta di lavoro, ma in condizioni diverse la situazione avrebbe potuto ribaltarsi. Era, quindi, importante procedere ad una ridistribuzione territoriale e settoriale della manodopera, riconvertendo in caso di necessità alcuni profili professionali. Inoltre, se il salario e altri benefits dei collettivi di lavoro fossero stati direttamente collegati ai risultati produttivi dell’impresa, allora per il collettivo era importante sapere chi (e in che modo) dirigeva l’azienda. La nuova legge sulle Imprese[23] introduceva il principio dell’eleggibilità del management, modificando a fondo i rapporti tra lavoratori e direttori e stimolando la scelta dal basso dei quadri direttivi. Dapprima questo principio era applicato a tutti i dirigenti d’èquipe e poi progressivamente ad altre categorie di personale dirigente: capireparto, sovrintendenti di reparto, settore o turno e i direttori di dipartimento dei sovchozy.

 

La base della strategia sociale consisteva nella regolamentazione dei rapporti fra i gruppi principali della popolazione, in base a nazionalità, classi e strati sociali, generazioni, composizione e tipologie diverse di famiglie, ecc. Uno degli aspetti fondamentali di politica sociale era quello di valutare in maniera diversa la posizione dei vari gruppi, con lo scopo d’individuare e intervenire sulle posizioni più svantaggiate. Questa politica teneva conto del principio della giustizia socialista nella regolazione dei rapporti economici e sociali e, in particolare, di quelli della ripartizione e distribuzione della ricchezza. La distribuzione dei Fondi sociali di consumo doveva essere compiuta sulla base del criterio della massima giustizia ed equità.

 

Dopo la rivoluzione d’Ottobre era stato eliminato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Occorreva ora realizzare un livello superiore di perfezionamento dei rapporti fra gli uomini. Il termine giustizia aveva un significato molto ampio, poiché abbracciava quasi tutte le sfere della vita dell’uomo: politica, giuridica, economica e sociale e, persino, la sfera dei rapporti familiari quotidiani. Per giustizia sociale si doveva sostanzialmente intendere la messa in pratica del più importante principio socialista: “da ognuno secondo le sue capacità ad ognuno secondo il suo lavoro”. Affermava la Zaslavskaja: “Per attuare il principio della giustizia sociale è necessario assolvere alcuni compiti. Per quanto riguarda la prima parte del principio ‘da ognuno secondo le sue capacità’: vanno in primo luogo eliminate tutte le differenze che caratterizzano i bambini e gli adolescenti appartenenti ai vari strati sociali, che vivono in zone diverse del paese, in città e in campagna. Vanno, inoltre, rese eguali le possibilità d’istruzione prescolastica e scolastica, potenziando le infrastrutture scolastiche, là dove mancano, e migliorando la qualità dell’istruzione. In questo modo si rende paritaria la posizione di partenza degli allievi che decidono poi di proseguire gli studi nelle scuole tecniche o all’Università. E’, tra l’altro, noto che più è alta la posizione dei genitori nella società, più è altrettanto alto il livello d’istruzione che ricevono i figli. In secondo luogo, la persona che ha un buon grado d’istruzione e qualificazione professionale deve trovare un posto di lavoro idoneo, dove possa esprimere al meglio le sue capacità e attitudini. Da noi non c’è disoccupazione, ma ciò non significa che ognuno lavori nel posto adatto alle sue capacità. Prendiamo ad esempio una località rurale: la scelta del posto di lavoro è in questo caso molto limitata, e la gioventù rurale si trova in condizioni diseguali in confronto con la gioventù che vive in città. Un altro problema sorge in relazione ai lavoratori creativi: si è ancora ben lontani dalla situazione in cui ognuno di loro potrà lavorare esprimendo totalmente il proprio talento. E la soluzione di questo problema dipende non solo dal sistema di distribuzione dei posti di lavoro, ma anche dal cambiamento della loro struttura generale nella produzione sociale. Adesso si sta predisponendo un programma di graduale liquidazione del lavoro fisico pesante; la struttura dei posti di lavoro diventerà più attraente e sarà, di conseguenza, più facile soddisfare le esigenze delle persone che vorranno impegnarsi in lavori creativi. In terzo luogo, vanno garantite ai lavoratori, già occupati in determinati posti, reali opportunità di lavorare in modo tale da esprimere il proprio talento. Molti problemi sono anche connessi alla seconda parte della formulazione del principio fondamentale del socialismo ‘a ciascuno secondo il suo lavoro’. In primo luogo, ciò significa il perfezionamento del sistema di retribuzione del lavoro. Negli ultimi due, tre decenni, si è proceduto ad un aggiustamento di questo sistema, ma a passi lentissimi. E’ aumentata, in maniera del tutto sporadica, la paga di alcuni gruppi di lavoratori, ma il risultato è stato che il lavoro qualificato dell‘ingegnere è retribuito molto peggio del lavoro degli operai non qualificati. In questo campo esistono ancora molte altre forme d’incongruenza. In secondo luogo, si è presentato il problema di una regolamentazione della retribuzione per coloro che svolgono un’attività lavorativa individuale. Colui che lavora in questa sfera economica, e che ottiene buoni risultati, deve indiscutibilmente essere pagato bene. Ma affinché il suo reddito non risulti oltre misura e affinché questa situazione non crei, di conseguenza, tensione sociale fra i gruppi, è indispensabile un sistema ben congegnato d’imposizione di un’imposta progressiva. Certamente tale sistema deve essere, in ogni caso, meditato; non deve essere un sistema che risulti da un punto di vista economico incomprensibile. In terzo luogo. Da noi si è formato un mercato dei beni di consumo diviso in tanti mercati individuali ai quali hanno accesso alcune categorie di lavoratori. Tenendo conto della riduzione graduale del deficit delle merci, sarà necessaria la creazione di un unico mercato dei beni di consumo con un unico forte rublo d’acquisto. Ancora un problema. Da noi, gli alloggi, il servizio sanitario ed altri servizi sono in pratica gratuiti. Persino i generi alimentari fondamentali hanno prezzi irrisori, tali per cui a tutta la popolazione è garantito un reddito minimo. Ma cos’è preferibile: ottenere un alloggio gratuito indipendentemente dal proprio stipendio o, al contrario, ricevere una retribuzione migliore ed ottenere in relazione ad essa un alloggio che risponda ai criteri della dimensione e della qualità desiderata?[24].

 

Dunque, per la Zaslavskaja, la perestrojka si connotava come una pianificazione molto articolata tesa a realizzare una molteplicità di programmi e obiettivi qualitativamente diversi posti su differenti piani temporali. Innanzitutto, essa era la pianificazione dei processi economici. Qui il contenuto principale era lo sviluppo del progresso tecnico scientifico e l’introduzione delle sue acquisizioni nei processi produttivi reali. Questo tipo di pianificazione si applicava a tutti gli aspetti della gestione d’impresa. I piani economici non potevano, tuttavia, limitarsi alla definizione di soli indici tecnici, scientifici, produttivi ed organizzativi. Essi dovevano conglobare anche indici sociali e culturali per contribuire ad una crescita totale dei rapporti di produzione e delle forze produttive. Era, inoltre, necessario elaborare una proiezione delle conseguenze sociali derivanti dall’attuazione dei piani economici (e individuare i mezzi sociali più efficaci per consentire la realizzazione dei piani stessi). Le pianificazioni economiche presupponevano la regolazione dei processi sociali e politici. Per questo motivo, gli obiettivi dovevano essere subordinati e correlati allo sviluppo della democrazia e della disciplina socialista, cioè al perfezionamento degli strumenti di controllo sociale e partecipazione dal basso alla gestione e alla completa eliminazione di qualsiasi forma di sfruttamento, corruzione e disonestà presenti nei vari gruppi di popolazione.

 

Nella pianificazione dei processi era ritenuta d’estrema importanza la direzione verso la quale erano volti gli sforzi del cambiamento. La Zaslavskaja, insieme con altri studiosi come Butenko, riproponeva il primato della politica e del sociale sull’economia, assolutamente necessario per guidare correttamente il cambiamento, come stava avvenendo in Cina. Il desiderio di occuparsi più di economia e meno di politica si sarebbe potuto realizzare - come diceva Lenin - solo nel caso in cui non ci fossero stati pericoli ed errori politici. La pianificazione riguardava anche la vita spirituale della società (duchovnaja zhizn’ obščestva), ossia la formazione di una cultura etica e spirituale nell’individuo costituita da nuove forme di vita economica, sociale e politica che avrebbero reso impossibile l’esistenza di una folla solitaria e di una solitudine di massa. Nella società socialista l’individuo prima che oggetto della pianificazione ne era il soggetto.

 

Nel socialismo sviluppato, la coincidenza tra attività cosciente delle masse ed esigenze obiettive dello sviluppo si manifestava per le ben note ragioni: alienazione della proprietà privata, eliminazione delle classi sfruttatrici, dominio della proprietà sociale dei mezzi di produzione ed egemonia dell’ideologia marxista leninista. E’ per tutto ciò che soggetti, contenuti e scopi della pianificazione erano ben diversi da quelli “irrazionali” dell’economia di mercato dei paesi capitalistici. La forma di pianificazione socialista doveva incidere sulla coscienza internazionalistica e “patriottica” allo stesso tempo dei lavoratori, sulla loro cultura educativa, morale e spirituale. Doveva riuscire a sradicare dalle loro coscienze le sopravvivenze del passato e impedire che fossero influenzati da ideologie fuorvianti.

 

Infine, nel modello di pianificazione generale della società, proposto dal gruppo siberiano (T.I. Zaslavskaja, A.G. Aganbegjan, L. Abalkin, G. Popov, N.Ja. Petrakov, S. Šatalin, N. Šmelev, P.G. Bunich), erano considerati come strumenti utili d’indagine le ricerche sociologiche su argomenti come la composizione socio-professionale del collettivo di lavoro, i rapporti nei gruppi di lavoro e l’attivismo sociale e produttivo. Le ricerche sociologiche dovevano mirare alla riduzione o eliminazione di una serie di aspetti negativi, che tradizionalmente caratterizzavano i rapporti di lavoro nelle imprese sovietiche, quali le infrazioni alla disciplina lavorativa, l’alto turnover del personale, le insoddisfacenti condizioni del lavoro. Un secondo modello di rilevazione, che si collocava ad un livello più alto di elaborazione, era quello che sviluppava ricerche sociologiche sui mutamenti negativi nella struttura demografica della popolazione, sullo studio dei gruppi e degli strati sociali di cui era composta la società, la loro interazione e l’analisi, a sua volta, dei diversi interessi che agivano nel paese. Ricerche che allo stato presente erano solo di tipo teorico e filosofico, non corredate da indici socio-economici (quali quantitativi), dato che la tradizione della sociologia sovietica “quantitativa” si era per il momento limitata ad affrontare i micro-ambienti (la famiglia, il collettivo di lavoro, il partito).

 

Il concetto di politica sociale nel contesto della perestrojka

 

Nella letteratura sociologica sovietica si faceva spesso distinzione tra quella che veniva definita come politica sociale in senso stretto (social’naja politica) e quella che, al contrario, era definita come politica sociale in un senso più ampio (obščestvennaja politica). La prima si caratterizzava come un insieme di misure statali tese a sostenere quei gruppi e/o strati sociali che per una serie di motivi si trovavano in condizioni materiali più difficili rispetto ad altri gruppi. La seconda si caratterizzava, invece, come un sistema orientato al raggiungimento di finalità sociali più articolate e di maggiore portata.

 

La politica sociale in senso stretto aveva come suoi obiettivi la creazione delle condizioni necessarie a garantire la soddisfazione dei bisogni fondamentali della popolazione, l’aumento del tenore di vita e il rafforzamento della giustizia socialista nel sistema dei rapporti economici e sociali. La politica sociale nella sua accezione più ampia aveva, invece, come obiettivi la trasformazione del sistema burocratico amministrativo in un sistema sociale complesso, differenziato e multiregolato, in grado di garantire la crescita economica; il perfezionamento del meccanismo economico, tenendo conto di alcuni ammortizzatori sociali; la politica dei quadri; il rinnovamento degli istituti politici e giuridici; lo sviluppo della glasnost’, ecc.

 

La Zaslavskaja aveva concentrato la sua attenzione sulla politica sociale in senso stretto, analizzandola in rapporto costante al nuovo meccanismo economico. Quest’ultimo poneva inevitabilmente alcuni gruppi specifici di popolazione in una condizione materiale meno vantaggiosa in confronto con altri gruppi. La politica sociale aveva lo scopo di compensare il peggioramento delle condizioni materiali dei gruppi più vulnerabili. Oltre ad avere sue specifiche funzioni, essa conteneva in sé anche quella di sostegno allo sviluppo dell’economia. Ma proprio a questo punto si produceva un’inversione di tendenza rispetto al concetto tradizionale di politica sociale sovietica. Se fino ad ora lo sviluppo dell'economia era stato il "mezzo" attraverso cui la società poteva realizzare i suoi fini, nella nuova situazioneera fondamentale da parte dello Stato sostenere e regolamentare l'applicazione delle leggi del mercato e del pieno calcolo economico, mentre la politica sociale doveva prioritariamente assolvere alla mera funzione di difesa sociale. I processi di privatizzazione in atto, anche se in forma ancora embrionale, e l’affacciarsi della disoccupazione avevano imposto l'adozione di misure di tutela sociale. Alla soglia degli anni novanta era introdotto il sussidio di disoccupazione (gennaio 1991) e venivano stabiliti tetti minimi di salario e di pensione. Il diverso approccio alle politiche sociali, secondo i dirigenti sovietici, trovava giustificazione nel livello di sviluppo in cui si trovava la società di allora. La soluzione a qualsiasi problema sociale necessitava di tali mezzi materiali che senza la crescita accelerata dell'economia avvicinarsi alla sfera sociale era praticamente impossibile. Affermava la Zaslavskaja: “Lo sviluppo accelerato dell'economia permetterà la crescita del livello di vita della popolazione e, di conseguenza, aumentando il benessere generale, crescerà anche la quota di ricchezza (il fondo) destinato ai consumi sociali, alla sicurezza sociale, ecc. La politica sociale potrà, a sua volta, regolare il sistema di distribuzione della ricchezza creata secondo criteri di maggiore equità[25]. In sostanza, solo uno Stato economicamente forte, che avesse risolto nel suo seno la contraddizione fondamentale tra produzione e soddisfacimento dei bisogni e il divario tra produttività del lavoro e retribuzione, dove esisteva, insomma, un alto livello di benessere, avrebbe potuto esercitare la sua funzione di Stato sociale (social'noe gosudarstvo).

 

Epilogo

 

 Lo scopo delle riforme avviate da Gorbačëv era di stabilire un’economia di mercato socialista seguendo il precedente della Nep. Ma già nel ’90 e nel ’91 il leninismo e la Rivoluzione d’ottobre erano stati respinti, e gli intellettuali e gli economisti, che avevano abbracciato la via radicale democratica, cominciarono a far appello ad una transizione verso il capitalismo.

 

Il passaggio al mercato “socialista” si stava compiendo attraverso l’immiserimento della popolazione. Il ritorno al processo di accumulazione primitiva aveva portato in primo piano le dinamiche sociali. Il processo era appena cominciato e una parte fondamentale della popolazione si trovava già sotto la soglia di povertà. La condizione penosa in cui si trovava l’economia sovietica aveva indotto i consiglieri economici di Gorbačëv a proporre, su consiglio dei monetaristi thatcheriani, l’eliminazione dei sussidi per i generi alimentari e per gli affitti troppo onerosi, di modo che la legge della domanda e dell’offerta determinasse liberamente i prezzi di questi beni. Pochi anni dopo questo consiglio fu messo in pratica con effetti devastanti sulla popolazione.

 

Inoltre, l’Urss incominciava a pagare pesantemente la crescita rapidissima dei conflitti nazionali, la situazione politica interna di estrema instabilità (che si manifestava nel continuo ricambio dei ministri e del personale politico), e il prezzo della corsa agli armamenti e della politica di dipendenza economica dai Paesi occidentali per quanto riguardava il rifornimento di tecnologie e di beni di consumo con il rimborso del debito a questi Paesi e alle strutture economiche sovranazionali, soprattutto al Fondo Monetario Internazionale. L'indebitamento con l’estero, insieme con il costante rallentamento dei tassi di sviluppo economico interno, aveva sottratto risorse importanti ai fondi sociali di consumo, al punto tale che una famiglia media non era più in grado di soddisfare i bisogni minimi essenziali.

 

Il principale punto debole delle riforme gorbačëviane era che si voleva conseguire la crescita economica principalmente attraverso l’aumento dei ritmi di lavoro e la disciplina di fabbrica, accordi sulla produttività e individuazione di un sistema d’incentivi e di sanzioni economiche per accrescere l’efficienza nell’uso delle risorse, liberalizzazione e crescita dei prezzi, tagli ai sussidi sociali e chiusura delle fabbriche obsolete escludendo i lavoratori dai processi produttivi. Se all’inizio della perestrojka le persone, alle quali veniva chiesto qual era l’aspetto più tragico nel campo dei consumi, mettevano al primo posto il cattivo approvvigionamento dei beni e dei prodotti di consumo, dopo sei anni di perestrojka costoro mettevano al primo posto l’aumento costante dei prezzi. Poco o niente era stato detto su come ristrutturare la grande industria e l’agricoltura collettivizzata su vasta scala, che erano in definitiva quelle realmente decisive per risollevare le sorti dell’economia sovietica. Non si andava al di là dell’affermazione sulla necessità di una transizione dell’economia da un sentiero di crescita “estensivo” ad uno “intensivo” (transizione da realizzarsi attraverso la crescita della produttività del lavoro e l’uso più efficiente di tutte le risorse produttive), che la pianificazione su base amministrativa non fosse più compatibile con la crescita ulteriore del paese, ma non si diceva nulla riguardo a quale pianificazione bisognasse puntare, limitandosi a ripetere che lo sviluppo delle forze produttive non era più conciliabile con le forme di proprietà esistenti. Ma si pensava davvero di rimettere in piedi l’economia sovietica con la piccola proprietà agricola o l’attività lavorativa individuale? Poiché, nella migliore delle ipotesi, la prima avrebbe potuto essere un’azienda di autoconsumo (e quale paese al mondo si basava su un’agricoltura di autoconsumo?) e la seconda rappresentare un esiguo comparto dell’economia. Si gridava ai quattro venti che le imprese commerciali, le piccole e medie imprese fossero restituite alla proprietà privata o date in affitto. Ma per quanto riguardava, invece, settori trainanti come quello delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, delle risorse energetiche, dell’aeronautica e cosmonautica, dei trasporti o della grande industria, come bisognava procedere? Privatizzare anche qui o lasciare tutto (o una parte) nelle mani della proprietà sociale? A queste domande non venivano date risposte autorevoli, mentre sempre più frequenti erano le dichiarazioni di fallimento dell’intero esperimento sovietico, con il conseguente rafforzamento dell’orientamento a fare “piazza pulita” per lasciare spazio soltanto al mercato e al profitto.

 

Il velleitarismo di chi si trovava a dirigere lo Stato più grande del mondo, con l’apertura simultanea di troppi fronti, sia sul piano interno che su quello internazionale, con la conseguente perdita totale del controllo “politico” del processo di cambiamento stava rischiando “appena” di rovinare l’esistenza a centinaia di milioni di sovietici. Le pressioni per una riforma centrata sul mercato si erano andate sempre più radicalizzando nel tempo. Dal prospettare una situazione in cui la maggior parte della produzione delle imprese avrebbe dovuto continuare ad essere determinata dalle commesse statali e dagli ordini degli organi di pianificazione, in base alle priorità centralmente stabilite, si era passati nell’arco di pochi anni a prospettarne una in cui mercato e concorrenza - anche tra più forme di proprietà - avrebbero dovuto sostituire la pianificazione come principali regolatori del processo economico. E mentre le massime autorità sovietiche continuavano a parole a sostenere fermamente “l’inaccettabilità dell’idea di rinunciare all’economia pianificata e di accettare la disoccupazione”, “forme più efficienti di proprietà socialista” e che “qualsiasi forma di proprietà avrebbe dovuto escludere l’alienazione dei lavoratori dai mezzi di produzione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, nella realtà erano già in atto spinte per il ripristino dei meccanismi di produzione capitalistici. Sempre più si parlava di privatizzazione, e non solo delle piccole industrie, delle piccole aziende e dei servizi, mentre si affievoliva, sino a sparire poi del tutto, l’idea di piano e di esperienze di autogestione.

 

In tutto il periodo in cui Gorbačëv fu al potere, le riforme non avevano fatto che peggiorare la situazione generale. Nel 1986 Gorbačëv aveva espresso la speranza che alcuni miglioramenti del meccanismo economico potevano bastare, e si era dichiarato contrario a ribaltare in modo totale il passato sovietico. Nel 1988 aveva criticato fortemente il passato stalinista e aveva accettato l’idea di un’economia di mercato socialista (con la messa in pratica del principio della formazione dei prezzi), nella quale la proprietà collettiva e l’autogestione operaia avrebbero dovuto sostituire la burocrazia di Stato e il sistema amministrativo di comando. Molti sondaggi d’opinione avevano mostrato nel 1989 e 1990 che la maggioranza della popolazione era a favore di una democrazia socialista riformata ed era contraria all’introduzione di un sistema prevalentemente capitalistico. Nel 1991 Gorbačëv aveva abbandonato l’idea della democrazia dei produttori associati e dell’autogestione operaia, persuadendosi che le imprese di Stato dovessero essere convertite in società per azioni di proprietà del pubblico. Nel dicembre di quell’anno e nel gennaio del 1992 uscirono dei decreti (ukazy), che autorizzavano il passaggio immediato dei kolchozy e dei sovchozy alla condizione di società per azioni, una vera e propria decollettivizzazione forzata e obbligatoria, che inferse un colpo molto grave all’agricoltura. La completa privatizzazione dell’economia agricola aveva portato a differenziazioni sociali profonde con l’emergere di gruppi ristretti di contadini ricchi e una grande maggioranza di contadini impoveriti. Nel 1992, la Russia di El’cin e dei suoi sostenitori (in primis Egor Gajdar e Anatolij Čubajs) abbracciava definitivamente il libero mercato sul modello suggerito dai consiglieri americani dell’Istituto Hoover di Stanford e da quelli inglesi del British Institute of Economic Affairs, dando inizio ad una vera e propria “controrivoluzione”.

 

Le riforme di Gorbačëv, prese dall’alto, senza che la loro azione fosse accompagnata da un partito capace di guidarla (il partito comunista era ormai morente, prima di essere messo definitivamente fuori legge) e senza un centro sufficientemente forte avevano portato alla paralisi totale e indubbiamente spianato il terreno al capitalismo. Con ogni probabilità, Gorbačëv non voleva la restaurazione del capitalismo. Come sostiene Moshe Lewin, egli aveva percepito i pericoli di un liberismo selvaggio e i suoi effetti distruttivi. L’esempio dell’Europa dell’Est confermava che non esistevano panacee, e il modello brasiliano era servito come esempio negativo. A peggiorare poi la situazione, sino a portarla alle estreme conseguenze (e non furono certamente i conservatori-reazionari o i nostalgici dello stalinismo!) ci pensarono proprio quei democratici radicali (con in testa El’cin), che il gruppo siberiano aveva accreditato come tra i promotori della perestrojka, guidando la transizione non verso un socialismo “riformato” e democratico, che restituisse il potere reale ai Soviet, alla democrazia proletaria, ma piuttosto verso il capitalismo puro e duro (una sorta di transizione rovesciata). Questi burocrati “democratici radicali” erano in buona parte coloro che, nonostante il crollo del Pcus e dello Stato unitario plurinazionale, erano rimasti alla testa di importanti settori economici e delle aziende, avendo pur sempre una loro vita autonoma. Utilizzando le capacità d’iniziativa di cui disponevano erano rimasti al loro posto di comando, guidando il complesso militare-industriale. Da tecnocrati, legati alla grande industria, avevano visto sempre più il loro potere vacillare con la legge sui fallimenti e la restrizione dei crediti alle industrie. Allora, quale idea migliore se non quella di acquistare a prezzi stracciati, approfittando della distribuzione delle azioni popolari (i famosi vouchers distribuiti gratuitamente alla popolazione nel biennio 1993-1994), le industrie statali o comprare per poco o nulla addirittura dei latifondi per poi arruolare gli affittuari alle loro dipendenze? Costoro salirono in sella alla testa della nascente borghesia. Ma questi nuovi imprenditori, molti dei quali usciti appunto dall’apparato di partito e statale, si occupavano meno di tutti dell’organizzazione della produzione, dei rapporti economici e della messa a punto dei rifornimenti alla popolazione, mentre erano invece intenti ad accumulare il proprio capitale con la speculazione, la spoliazione delle risorse naturali e statali del paese, le tangenti e altri tipi di guadagno “dall’aria” (come si dice alla russa). La borghesia, nella sua fase embrionale, combinava forme di penetrazione del capitalismo, le più moderne rappresentate dalle multinazionali, e forme più retrograde e barbariche di accumulazione primitiva delle prime fasi del capitalismo. Dopo il golpe dell’agosto 1991, tutta la politica della dirigenza fu tesa alla cancellazione definitiva dell’“anomalia” sovietica e all’integrazione del paese nel mercato capitalistico mondiale. Con il crollo dell’Urss, la scelta del ceto borghese dominante fu quella di trasformarsi definitivamente in classe di proprietari oligarchi; scelta che avrebbe permesso a questo ceto di arricchirsi enormemente e in pochi anni, mentre il paese cadeva nel caos più assoluto e nella disoccupazione di massa: “Molti membri dell'intelligencija e della nomenklatura accettarono, infine, senza esitare il neoliberismo e i suoi sacrifici perché speravano di abitare nei quartieri bene e non nelle bidonville: il prezzo da pagare della crisi sovietica sarebbe stato pesante, ma essi speravano che sarebbero stati altri a pagare la fattura”[26].

 

Allegato:

 

Il dibattito sulle contraddizioni sociali nell’Unione Sovietica

 

di Pierre Naville*

 

Per tutto un certo periodo, nel pensiero sovietico lo studio delle contraddizioni esistenti nella società ha cessato di essere all’ordine del giorno. Stalin ed il suo regime avevano imposto il silenzio alle loro manifestazioni, se non nei fatti, almeno nell’espressione scritta e verbale. Nell’URSS tutto veniva allora considerato nella prospettiva della “solidarietà”: antagonismi, contraddizioni ed opposizioni erano definitivamente scomparsi. Al massimo, si ammetteva l’esistenza di inevitabili squilibri, di scompensi, di sopravvivenze del passato. I filosofi e gli economisti sospendevano così la validità delle leggi della dialettica, che essi d’altronde predicavano alle frontiere di uno stato che sembrava incarnare il modello perfetto di stato delineato da Hegel.

 

Il problema riemerse nella stampa sovietica in occasione della pubblicazione in russo del secondo volume delle Opere Scelte di Mao Tse-tung, apparso a Pechino nel 1952. Questo volume conteneva fra l’altro l’opuscolo, scritto da Mao nel 1937, intitolato Sulla contraddizione. Lo stesso Stalin, in alcune sue note per il XIX Congresso del Pcus, non poté fare a meno di alludere ad alcuni antagonismi ancora esistenti nella società sovietica; ma lo fece riportando tali antagonismi all’“opposizione tra il vecchio ed il nuovo” o ad altre antitesi, singolarmente insignificanti di fronte alla realtà effettiva delle numerose contraddizioni presenti nella vita quotidiana della popolazione, a dispetto della cecità dei filosofi, degli economisti e dei funzionari.

 

Dopo la morte di Stalin, “il problema delle contraddizioni” ritorna a poco a poco di attualità nelle discussioni scientifiche e si trova oggi al centro di una riflessione nuova. Molti sono gli articoli dedicati a questo tema da economisti, da filosofi e persino da studiosi di logica e di matematica. Possiamo affermare con sicurezza che la causa di questo risveglio di interesse non deve essere cercata né in un ritorno a Hegel, né nella difesa di alcune brevi annotazioni leniniste. Esso è piuttosto frutto della stessa evoluzione sociale e di una nuova libertà di pensiero. Dopo il XX Congresso, che ha “autorizzato” la manifestazione pubblica di certe difficoltà del regime, i redattori dei giornali, soprattutto i lettori che ad essi inviavano le loro lettere non tendono più a presentare certi fatti come anomalie o deficienze episodiche, ma come espressione di vere e proprie contraddizioni. Un lettore scrive, ad esempio, alla “Komsomol’skaja Pravda” del 22 giugno 1960: “Non pensate che sia prematuro entusiasmarsi per gli sputnik e per la conquista dello spazio, quando mancano ancora gli alloggi, gli asili e le derrate alimentari? Se sapesse quanto vengono a costare questi missili, la gente resterebbe colpita e sconcertata. Dite ad un operaio, ad un operaio qualsiasi che potrebbe mandare il proprio bambino all’asilo, pagare due volte di meno un metro di stoffa ed acquistare un ferro da stiro: sono certo che griderebbe: ‘Per amor di Dio, non lanciate più missili’”.

 

Critiche di questo genere si leggono ormai abbastanza spesso nella stampa quotidiana. E’ interessante notare che esse sono espresse sotto forma di contraddizioni: allo stato attuale delle cose, la produzione di missili è in contraddizione con la produzione di certi beni di consumo. I problemi della priorità, dell’adattamento, della scelta, della decisione vengono oggi formulati in modo meno burocratico di una volta, ed ognuno di essi suscita molti problemi nuovi. All’indomani della morte di Stalin, il Manuale di economia politica, pubblicato sotto gli auspici dell’Accademia delle scienze dell’URSS, ammetteva che nel regime del lavoro esistevano ancora contraddizioni di ogni genere. Certo il Manuale le presentava come semplici differenze: ma ciò che la teoria considera come “differenza” può ben essere sentito dalla popolazione come opposizione, come contraddizione. Il Manuale affermava: “In regime socialista, permangono residui dell’antica divisione del lavoro: la differenza essenziale tra lavoro manuale e intellettuale, tra il lavoro dell’operaio e quello del contadino, tra il lavoro semplice e quello qualificato, tra il lavoro di facile e quello di difficile esecuzione”. Oggi, leggendo la stampa sovietica, si ha spesso l’impressione che tali differenze implichino in realtà profonde opposizioni, non meno acute di quelle che si manifestano nei regimi di tradizioni borghesi: la popolazione non si inganna.

 

Le pubblicazioni scientifiche cercano di porre il problema delle contraddizioni sociali in forma nuova. Benché non sembrino ancora poter operare in piena libertà, queste riviste hanno pubblicato nel corso di questi ultimi anni numerosi articoli ai quali va riconosciuto almeno il merito di aver aperto un dibattito, destinato ad estendersi sempre più. La breve opera di Mao Tse-tung non aveva certo molte pretese di scientificità. Era tutta imperniata sull’idea delle due possibili forme di contraddizione: universale e particolare. Mao basava questa distinzione su un’annotazione di Lenin che dice: “L’antagonismo e la contraddizione sono cose del tutto differenti. Nel socialismo scompare l’antagonismo, resta la contraddizione”. Dopo di lui, questo tema è stato ripreso da molti autori sovietici, ma non si può dire che i loro argomenti abbiano raggiunto un livello autenticamente scientifico o siano fondati su criteri scientificamente validi. Si riafferma l’esistenza di “contraddizioni non antagonistiche” ogni volta che si allude a difficoltà, scompensi, errori, scelte difficili o infelici, fenomeni di mancato adattamento, o anche soltanto quando - come oggi accade sempre più spesso - le critiche e le rivendicazioni giungono ad esprimersi senza essere immediatamente represse.

 

Che i primi a porre il problema siano stati i pianificatori e gli economisti è un fatto del tutto naturale. Nel 1956, nasceva una discussione sull’articolo di Ja. Kronrod A proposito delle contraddizioni economiche nel socialismo (“Voprosy Filosofii”, n. 2, 1956), nel quale l’autore si chiedeva con franchezza se una delle fonti delle contraddizioni nel socialismo non fosse eventualmente da ricercare, indipendentemente dalle esigenze del piano, nella stessa dinamica dei rapporti in regime socialista. A questo interrogativo A. Krylov (Sulle contraddizioni nello sviluppo delle forze produttive, “Voprosy Filosofii”, n. 4, 1957) rispose che queste contraddizioni avevano radici ben più profonde nel rapporto stesso tra l’uomo e la natura: “Lo sviluppo delle forze produttive in generale, e in particolare degli strumenti di produzione, deriva indubbiamente dal processo stesso del lavoro, dalle sue contraddizioni interne, dall’asservimento da parte dell’uomo delle forze della natura che costituisce l’essenza delle forze produttive. La contraddizione reale e sempre rinascente tra gli uomini e la natura rappresenta la contraddizione interna di un fenomeno quale è il lavoro, in cui l’uomo, con la sua attività, funge da intermediario nello scambio di oggetti tra se stesso e la natura”. Tuttavia, altri autori ritengono che il problema non possa essere risolto mediante formule tanto generali e che sarebbe invece opportuno analizzare, nei molteplici rapporti reali, la dinamica delle contraddizioni sociali, in modo da risolverle prima che esse possano produrre effetti così negativi da compromettere gli obiettivi da raggiungere. B.S. Ukrajncev, ad esempio, osserva nell’articolo Il problema della soluzione a tempo opportuno delle contraddizioni della società socialista (“Voprosy Filosofii”, n. 5, 1957) che “la contraddizione principale (tra l’agricoltura e l’industria), presente anche nella società socialista, non può essere un fenomeno al di fuori della storia…Nella vita della società possono talvolta sorgere contraddizioni che frenano il progresso, invece di promuoverlo. Così, le contraddizioni tra i fattori obiettivi e soggettivi che riflettono gli errori commessi nel lavoro pratico, i malintesi o i dissensi tra gruppi particolari di persone o anche tra paesi, non fanno altro che ostacolare lo sviluppo. In una società socialista si hanno a disposizione tutti i mezzi possibili per evitare il prodursi di queste contraddizioni o per risolverle praticamente se esse dovessero, nonostante tutto, ripresentarsi”.

 

Il problema venne ripreso da Ja Kronrod nel corso di un convegno organizzato nel 1958 dalla sezione per le scienze sociali dell’Accademia delle scienze dell’URSS, i cui atti furono pubblicati (Problemi economici dell’edificazione del comunismo, “Voprosy Ekonomiki”, n. 9, 1958). Da allora questo problema è sempre stato all’ordine del giorno. Kronrod non esita ad affermare che “il compito principale dell’economia politica del socialismo è lo studio delle contraddizioni inerenti ai rapporti socialisti di produzione”. Egli chiede che si smetta di parlare dei rapporti di produzione come se essi fossero soltanto “rapporti di collaborazione fraterna e di solidarietà socialista tra uomini liberati dallo sfruttamento”, definizione che, secondo lui, ha solo un carattere descrittivo e morale, inadatto ad esprimere l’evoluzione reale della vita sociale. Kronrod sostiene che nel socialismo esistono “contraddizioni sociali costanti”: nei rapporti di proprietà, nel lavoro sociale, tra la produzione, la distribuzione, la circolazione, ecc. Tuttavia si tratta di contraddizioni “non antagonistiche”, come si usa dire in Cina e nell’URSS. In altri termini, la società socialista “ignora conflitti di classe insolubili”. Eppure “proprio queste contraddizioni costituiscono la fonte dello sviluppo dell’economia socialista”. Da questo punto di vista, Kronrod critica quei filosofi che tentano di riportare tutte le contraddizioni della società socialista alla lotta tra il “vecchio” ed il “nuovo”, tra il positivo ed il negativo, e fa notare che alcune classiche contraddizioni rilevate da Marx nell’analisi del capitalismo e che si ritrovano nell’Unione Sovietica (lavoro astratto e lavoro concreto, valore di scambio e valore d’uso, produzione e consumo, lavoro manuale ed intellettuale, ecc.), non “possono essere riportate alla lotta tra fattori di progresso e fattori di regresso”.

 

Gli organismi della pianificazione hanno così proposto in forma nuova un certo numero di importanti problemi pratici. Negli anni 1959-1960, sono stati agitati, ad esempio (a) il problema delle contraddizioni tra produzione dei beni strumentali e dei beni di consumo, (b) il problema delle contraddizioni tra decisioni centralizzate e decentralizzate, e (c) il problema della contraddizione all’interno della “divisione socialista del lavoro”.

 

Queste questioni non sono trattate solo dal punto di vista teorico: vengono studiate anche le loro immediate ripercussioni sulla vita sociale, sul comportamento e sull’attività quotidiana dei lavoratori. Sino a pochi anni fa, esse venivano risolte, secondo le direttive ufficiali, ricorrendo allo schema degli squilibri o degli adattamenti, venivano cioè ridotte a deficienze di carattere amministrativo. Ma la persistenza di questi “squilibri” induce a chiedersi se essi non abbiano per caso un carattere organico, se essi cioè non siano il prodotto di contraddizioni essenziali al regime socialista, al regime di “costruzione del comunismo”, così come è inteso nell’URSS.

 

Nel corso delle discussioni sollevate da questi problemi si assiste al riemergere di vecchie polemiche fra la dialettica dei “distinti”, sostenuta da Benedetto Croce, e la dialettica delle contraddizioni di origine hegeliana e marxista. Oggi molti economisti sovietici si chiedono, ad esempio, se non sia più facile risolvere il problema di scegliere all’interno dell’alternativa presentata dai due settori della produzione sociale (beni di produzione e beni di consumo), tenendo conto di certe contraddizioni che si manifestano tra essi, invece di ricorrere a calcoli tecnici in cui l’arbitrio del potere introduce soltanto una falsa “solidarietà”.

 

Secondo certi autori, anche l’esperienza dei sovnarchoz (consigli dell’economia nazionale – n.d.r.) rivela che il decentramento non è affatto un problema amministrativo o tecnico, ma è espressione di una tensione sociale - che si manifesta sul terreno delle decisioni economiche ad ogni livello - tra l’onnipotenza accentrata del partito e il potere locale di decisione. E gli articoli sempre più numerosi dedicati alla cooperazione fra stati “socialisti” od alla “divisione internazionale socialista del lavoro”, cominciano ad indicare che questa cooperazione non è priva di contraddizioni, alcune delle quali sembrano per il momento difficilmente superabili. A questo proposito sono molto significative le aspre controversie tra Pechino e Mosca. E’ senza dubbio difficile giudicare, sulla base degli studi pubblicati in riviste destinate ad un pubblico ristretto, in che modo siano sentite dal pubblico le contraddizioni della vita sociale nell’Unione Sovietica. Ognuno di essi, invece di analizzarle dal punto di vista teorico, cerca di trarsi d’impiccio alla bell’e meglio. Eppure è interessante seguire il dibattito in corso sulla contraddizione perché esso, occupandosi di un tema tanto importante per la filosofia ufficiale, implica numerosi problemi che non tarderanno a farsi sentire in tutta la loro urgenza.

 

Opere consultate:

 

Libri:

 

- T. GRANT:

Dalla rivoluzione alla controrivoluzione, E.C. Editoriale Coop., Trento, 1998.

- C. CARPINELLI:

La società sovietica negli anni della perestroika, editrice Nuovi Autori, Milano, 1991.

- B.V. RAKITSKIJ, A.N. ŠOCHIN:

Zakonomernosti formirovanija i realizacii trudovych dochodov pri socializme, Moskva’, 1987.

- A.P. BUTENKO:

La perestroika contre les blocages du socialisme, Progress, 1988.

- E.F. BORISOV, G.I. LIBMAN:

Chrestomatija po obščestvovedeniju, Progress, 1988.

- T. ZASLAVSKAJA, R.V. RYVKINA:

Sociologija ekonomičeskoj žizni, Novosibirsk, 1988.

- S.L. SENJAVSKIJ:

Social’naja struktura sovetskogo obščestva v uslovijach razvitogo socializma (1961-198O gg.), Moskva’, 1985.

- A. KAUANOVA:

Obraz žizni i byt rabočich semej, Alma-Ata, 1982.

- A.G. NOVICKIJ, G.V. MIL’:

Zanjatost’ pensionerov (social’no-demografičeskij aspekt), Moskva’, 1981.

- B. GRANCELLI:

Le relazioni industriali di tipo sovietico, F. Angeli, 1986.

 

Saggi:

- T.I. ZASLAVSKAJA:

“Čelovečeskij faktor razvitija ekonomiki i social’naja spravedlivost’”, in Kommunist, n. 13/1986;

“Neobchodimost’ perestrojki diktuetsja, konečno, ne tol’ko ekonomikoj”, in Nauka i žizn’, n. 11/1987;

“0 strategii social’nogo upravlenija”, in Nauka i žizn’, n. 9/1988.

- A.P. BUTENK0:

“Teoretičeskie problemy soveršenstvovanija novogo stroja: o social’no-ekonomičeskoj prirode socializma”, in Voprosy filosofii, n. 2/1987;

“Po povodu pis’ma R.I. Kosolapova”, in Voprosy filosofii, n. 12/1987.

- R.I. KOSOLAPOV:

“Aktual’nye voprosy koncepcii razvitogo socializma”, in Sociologičeskie issledovanija, n. 2/1985;

“Pis’ma v redakciju”, in Voprosy filosofii, n. 12/1987.

- M.0. RUTKEVIČ:

“0 razvitii sovetskogo obščestva k bessklassovoj strukture”, in Kommunist, n. 18/1985.

- V.N. KUDRIAVCEV:

“Vzaimosvjaz’ pravovogo regulirovanija i social’nych interesov”, in Voprosy filosofii, n. 1/1987.

- M.I. PISKOTIN:

“The legal foundations of policy and administration”, in Co-existence, n. 25/1988.

- A. JAKOVLEV:

“Dostiženie kačestvenno novogo sostoianija sovetskogo obščestva i obščestvennye nauki”, in Kommunist, n. 8/1987;

“Issledovanija po social’noj strukture sovetskogo obščestva”, in Voprosy filosofii, n. 10/1987.

- V.G. KOSTAKOV:

 “Zanjatost’: deficit ili izbytok?”, in Kommunist, n. 2/1987.

- V. BUGROMENKO:

“Territorial’nyi aspekt socialističeskoj spravledivosti”, in Kommunist,n. 1/1987.

- G. MOROZOV:

“Selu kak gorodu”, in Kommunist, n. 1/1987.

- I. IL’INSKIJ:

“Razvitie socializma i molodëž’”, in Kommunist, n. 6/1987.

- V. ROTAN:

“K voprosy o kadrach i sposobnostjach”, in Kommunist, n. 1/1987.

- V.V. SMIRNOV

”Politological studies of state administration”, in Co-existence, n. 25/1988.

- A. VIŠNEVSKIJ:

“Čelovečeskij faktor v demografičeskom izmerenii”, in Kommunist, n. 17/1986;

“0 čelovečeskom faktore i social’noj spravledivosti”, in Kommunist, n. 3/1987.

- Mc AULEY:

“Politics in the Soviet Union”, Harmondsworth, Penguin books, 1982 (recensione al libro).

 

Pubblicato nel sito http://www.homolaicus.com/

 



*Cristina Carpinelli ha scritto diversi saggi sulla transizione della Russia verso un nuovo sistema economico e politico. Ha, inoltre, pubblicato La società sovietica negli anni della perestroika (Nuovi Autori, 1991), Donne e famiglia nella Russia sovietica, caduta di un mito bolscevico (F. Angeli, 1998), Identità in transizione: i Paesi dell’ex-Urss dopo il collasso del socialismo reale (Cespi, dic. 2002), Donne e povertà nella Russia di El’cin (F. Angeli, 2004). Collabora con diverse riviste e fa parte del Comitato scientifico del Centro Studi Problemi Internazionali (Cespi) di Milano.

[1] Sul dibattito delle contraddizioni sociali nell’Unione sovietica, che si era aperto alla fine degli anni ’50, rimando al saggio di Pierre Naville (Directeur de recherches presso il CNRS), qui di seguito riportato come Appendice.

[2] T.I. Zaslavskaja.  “Lo stato dell’economia sovietica. Il rapporto siberiano”, (a cura di) Viktor Zaslavski. Centro Gino Germani, 1985 (versione italiana).

[3] T. Zaslavskaja. Urbanizacija i rabočij klass v uslovijach naučno-techničeskoj revoljucii. Akademija Nauk SSSR, Institut meždunarodnogo rabočego dviženija. Moskvà 1970; pag. 103.

[4] A. Butenko. La perestroika contre les blocages du socialisme, Progress, 1988; pag. 45.

[5] A. Butenko. Op. cit.; pag. 45.

[6] R.I. Kosolapov. “Aktual’nye voprosy koncepcii razvitogo socializma, in Sociologičeskie issledovanija,n. 2/1985; pag. 17.

[7] A. Butenko. Op. cit.; pagg. 57-74.

[8] T. Zaslavskaja. “O strategii social’nogo upravlenija”, in Nauka i žizn’, n. 9/1988; pag. 37.

[9] A. Jakovlev. “Dostiženie kačestvenno novogo sostojanija sovetskogo obščestva i obščestvennye nauki”, in Kommunist, n. 8/1987; pag. 20.

[10] A. Jakovlev. Op. cit.; pagg. 7-8.

[11] A. Jakovlev. Op. cit.; pag. 12.

[12] A. Butenko. “Teoretičeskie problemy soveršenstvovanija novogo stroja: o social’no-ekonomičeskoj prirode socializma”, in Voprosy filosofii, n. 2/1987; pag. 28.

[13] A. Jakovlev. Op. cit.; pag. 6.

[14] I. Il’inskij. “Razvitie socializma i molodëž’”, in Kommunist, n. 6/1987; pag. 22.

[15] A. Vološin. “O čelovečeskom faktore i social’noj spravledivosti”, in  Kommunist, n. 3/1987; pag. 104.

[16] V.G. Kostakov. “Zanjatost’: deficit ili izbytok?”,  in Kommunist, n. 2/1987; pag. 81.

[17] B.V. Rakitskij, A.N. Šochin. “Socialističeskaja spravledivost’ i obščie principy raspredelitel’noj politiki socialističeskogo gosudarstva“, in Zakonomernosti formirovanija  i realizacii trudovych dochodov pri socializme, M. 1987; pag. 33.

[18] A. Butenko. “ La dialectique des forces productives et des rapports de production”, in La perestroika contre les blocages du socialisme, op.cit.; pag. 102.

[19] Legge “Sulla procedura per appellarsi al tribunale nel caso di illeciti commessi da funzionari che violano i diritti dei cittadini”, entrata in vigore nell’estate del 1987.

[20] Il 1° maggio 1987 entrava in vigore la legge sull’attività lavorativa individuale, che reintroduceva la proprietà privata seppure su piccola scala.

[21] Nel marzo del 1988 veniva adottato un nuovo statuto dei kolchozy, che consentiva agli agricoltori di affittare terre per un periodo massimo di 50 anni. Lo statuto stabiliva, inoltre, che la superficie della terra e la quantità di bestiame privato autorizzate, sarebbero state d’ora in poi fissate dall’assemblea di ogni kolchoz, e che quest’ultimo non era più soggetto alla giurisdizione dell’amministrazione regionale per quanto riguardava la scelta sui piani di semina e di consegne allo Stato. Nel maggio del 1988 veniva, inoltre, approvata la “legge sulle cooperative”, che  consentiva lo sviluppo di attività economiche indipendenti, soprattutto nei settori del commercio, dell’artigianato e dei servizi. 

[22] Un’indagine interessante, che descriveva l’atteggiamento dei vari gruppi e/o strati sociali nei confronti della perestrojka, era stata pubblicata nel libro Inogo ne dano di T.I. Zaslavskaja e R.V. Ryvkina (vedi saggio “O strategii social’nogo upravlenija perestrojkoi”), di cui vengono qua di seguito riportati molto in sintesi i risultati. In quest’indagine era stato rilevato che i due gruppi di età, che si caratterizzavano per una più alta attività sociale e che erano i maggiori fautori del cambiamento, erano i giovani compresi nella fascia d’età 35-38 anni, e le persone di tarda età comprese nella fascia 55-60 anni. Queste due generazioni avevano potuto godere, durante la loro giovinezza, di una relativa libertà; la prima dopo il 1983 e la seconda nella metà degli anni ‘50-‘60. Tutte le altre generazioni intermedie avevano vissuto, al contrario, la loro gioventù nella calamità sociale e non erano state di grande aiuto per la società. Esse si caratterizzavano, infatti, per un grande pessimismo, credevano debolmente nei valori socialisti, e valutavano con scetticismo la possibilità di un cambiamento nei rapporti economici e sociali. Fra i componenti di una stessa classe, strato e gruppo sociale si potevano individuare persone che avevano un atteggiamento riguardo alla perestrojka, che non era sempre unidirezionale, ma anzi era talvolta contrastante. I dati raccolti mostravano la non univocità dei comportamenti dei soggetti sociali, persino se rappresentanti di uno stesso gruppo sociale, nei confronti del cambiamento, e stava a testimoniare innanzitutto la complessità e varietà dei comportamenti, dietro i quali si celavano conflitti d’interessi reali. L’indagine non rilevava tutti i gruppi e gli strati sociali della società sovietica, pur dando un quadro d’insieme realistico.

I promotori della perestrojka non erano un gruppo numeroso (3 su 10). Tra loro si annoveravano i dirigenti politici ed economici d’impresa dalle tendenze progressiste, gli operai d’avanguardia e i contadini intraprendenti. Infine, l’intellighenzia socio-umanistica. I sostenitori della perestrojka formavano il raggruppamento sociale più diffuso (dopo quello dei conservatori). Costoro appartenevano a quasi tutti i gruppi sociali (7 su 10) ed anche all’interno di uno dove erano presenti atteggiamenti conservatori o, addirittura, reazionari (dirigenti politici e d’impresa, intellighenzia socio-umanistica, componente di base degli operai e dei contadini, intellighenzia tecnico-scientifica e lavoratori responsabili della gestione). Ciononostante, essi testimoniavano il largo consenso sociale di cui godeva la perestrojka. Gli alleati erano soprattutto i piccoli imprenditori e la componente di base degli operai e dei contadini (i lavoratori manuali), con l’importante differenza che il comportamento complessivo dei piccoli imprenditori era quasi tutto orientato a favore della perestrojka, mentre quello dei lavoratori manuali (contadini e operai) era anche di tipo conservatore o neutrale/passivo. I sostenitori apparenti s’incontravano, soprattutto, negli strati dell’intellighenzia che adempivano sia a funzioni esecutive che direttive (dirigenti politici e d’impresa, intellighenzia socio-umanistica e tecnico-scientifica, lavoratori responsabili della gestione). Al contrario, non si riscontrava un simile camuffamento tra i lavoratori responsabili del commercio e dei servizi e tra la classe operaia e contadina (e gli artigiani), i cui comportamenti verso la perestrojka erano orientati verso una precisa direzione. I primi non potevano che esprimere una posizione di chiusura rispetto alla perestrojka, poiché essa osteggiava fortemente i loro interessi economici e sociali; i secondi non avevano, invece, nel complesso, nessun motivo oggettivo (tranne una piccola parte conservatrice e reazionaria della componente operaia e contadina) per schierarsi contro il progetto di riforma. Gli osservatori interessati rientravano in gruppi sociali molto diversi, che esprimevano al loro interno una struttura comportamentale assai eterogenea e che messa a confronto con altre era assai differente (a titolo d’esempio, cfr. la struttura degli atteggiamenti dell’intellighenzia socio-umanistica - che di tutti i gruppi sociali considerati era la meno omogenea - rispetto a quella dei lavoratori responsabili del commercio e dei servizi). Essi comprendevano coloro che auspicavano sia lo “status quo” che il cambiamento (con una prevalenza di quest’ultimi). Non erano compresi tra gli osservatori interessati quei gruppi, il cui tipo d’attività e d’interesse spingeva i loro componenti ad essere “promotori” (operai d’avanguardia e contadini intraprendenti), “aperti sostenitori” della perestrojka (piccoli imprenditori, dirigenti politici e d’impresa) o, al contrario, “oppositori” rappresentanti della criminalità organizzata. I neutrali erano i rappresentanti del lavoro manuale (componente di base degli operai e dei contadini), che non avevano sostanzialmente alcun interesse particolare immediato da difendere, e che quindi non avevano nessuna ragione di ostacolare la perestrojka. I sostenitori e i conservatori allo stesso tempo della perestrojka erano presenti in quasi tutti i gruppi sociali, eccezion fatta per gli operai d’avanguardia e i contadini intraprendenti, nonché per i piccoli imprenditori che non avrebbero mai legato la propria sorte a quella della perestrojka, se avessero avuto idee conservatrici e reazionarie. Per la stessa ragione, non s’incontravano sostenitori e conservatori allo stesso tempo tra i lavoratori responsabili del commercio e dei servizi, tra la parte corrotta della classe operaia (strato minoritario privilegiato) e tra i rappresentanti della criminalità organizzata, che non potevano essere in alcun modo a favore della perestrojka. Il gruppo apertamente reazionario coagulavaattorno a sé la parte corrotta dei lavoratori responsabili della gestione, una parte dell’intellighenzia socio-umanistica, i lavoratori responsabili del commercio e dei servizi, lo strato privilegiato minoritario della classe operaia ed, infine, i rappresentati della criminalità organizzata.    

[23]  La legge sulle Imprese, approvata nell’estate del 1987, affermava il principio dell’autonomia delle imprese sino all’eleggibilità dei manager, del criterio del calcolo economico (samookupaemost’): la produzione doveva coprire i costi, dell’autonomia finanziaria (samofinansirovanie): le imprese dovevano finanziare le loro attività senza il ricorso alle sovvenzioni statali. 

[24] T.I. Zaslavskaja, “Neobchodimost’ perestrojki diktuetsia, konečno, ne tol’ko ekonomikoj”, in Nauka i žizn’,  n. 11/1987; p. 36. 

[25] T. Zaslavskaja, "O strategii social'nogo upravlenija perestrojkoj" in Inogo ne dano, Progress, Moskvà, 1988; p. 34.

[26] Moshe Lewin, "Gorbačëv e l'essenza della perestrojka" in Il Passaggio, n. 4/5 - luglio/ottobre 1991; p. 10.

 

* Directeur de recherches presso il CNRS. Questo saggio, scritto nei primi anni Sessanta, è stato pubblicato nel libro L’URSS Diritto Economia Sociologia Politica Cultura, (a cura di) Michel Mouskhély, volume primo, Casa editrice Il Saggiatore, 1965; pp. 497-502.