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Convegno - Napoli, 21-23 novembre 2003: I
problemi della transizione al socialismo in URSS
Introduzione al Convegno
di Sergio Manes
In primo luogo permettetemi di rivolgere un sincero ringraziamento a tutti i
relatori che hanno accettato di intervenire in questo Convegno che, per essere
assolutamente privo di qualsiasi sostegno finanziario, non ha potuto assicurare
a nessuno non dico un “compenso”, ma, neppure, le spese vive di viaggio e di
soggiorno. È stato, certamente una dimostrazione concreta di grande senso di
responsabilità e di condivisione delle motivazioni del Convegno.
E un ringraziamento va a tutti coloro che hanno incoraggiato e sostenuto lo
sforzo – che sembrava, all’inizio, essere temerario – degli organizzatori, che
– senza alcun sostegno né politico, né culturale, né economico – hanno
tenacemente perseguito l’obbiettivo di organizzare questo Convegno come prologo
– addirittura – alla costituzione di un Centro studi che affronti stabilmente i
problemi della transizione al socialismo, a partire dalle esperienze realizzate
– seppure temporaneamente sconfitte – o ancora in atto.
Probabilmente è questo un motivo – aggiuntivo, ma non secondario – della vasta
e convinta adesione a questa iniziativa: vogliamo dar vita a un Centro che, a
partire proprio dalla comprensione scientifica dei fenomeni storici più
significativi di tutto il ’900, sia in grado di analizzare condizioni,
problemi, difficoltà, errori di quei percorsi, ma anche di contrastare
efficacemente la deriva sciagurata e liquidazionista del revisionismo storico,
che sappia interpretare e valorizzare quelle esperienze, indicare –
possibilmente – percorsi al passo con le condizioni storiche del nostro tempo,
consegnare alle nuove generazioni valori e idee-forza capaci – queste sí – di
trasformare e rinnovare la società, di dare definitivamente l’assalto al cielo.
Un grazie, ancora, a chi è intervenuto per assistere ai lavori e – speriamo –
voglia portare nel dibattito il contributo del proprio punto di vista, delle
sue critiche, dei suoi suggerimenti. L’essere, non di rado, venuti da lontano
sopportando disagi e spese testimonia un interesse che conforta e avvalora la
scelta di dar vita a questo percorso.
E un ringraziamento, infine, va ai due unici – per il momento – Enti culturali
che hanno voluto sostenere questa iniziativa poiché hanno colto sia
l’importanza storica di una indagine sistematica e qualificata su una questione
che è stata centrale in tutta la storia del secolo scorso, sia la valenza
scientifica della sua impostazione e dei suoi intenti. Mi riferisco,
evidentemente, all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e all’Istituto di
Scienze Filosofiche e Pedagogiche dell’Università degli Studi di Urbino. Il
primo ha confermato ancora una volta d’essere un’isola di libertà per la
ricerca scientifica, pur nel momento oscuro che attraversiamo, e – come nella
sua pluridecennale tradizione – ha di buon grado dato il suo patrocinio
all’iniziativa. Consideriamo significativo e di buon auspicio che questo
percorso di ricerca prenda le mosse proprio dalla gloriosa sede di questo
Istituto che tante battaglie – anche dure e difficili – ha sostenuto in favore
e a sostegno della libertà di ricerca, per il perseguimento di risultati
scientificamente validi, per l’affermazione e la diffusione di valori alti. Il
ringraziamento è altrettanto caloroso nei confronti dell’Istituto di Scienze
Filosofiche e Pedagogiche dell’Università di Urbino che – per primo – ha rotto
la cortina di sostanziale indifferenza e di strisciante ostilità di certi
ambienti accademici e istituzionali ad affrontare con rigore scientifico
l’analisi di un fenomeno così complesso e importante e che si vorrebbe già
indagato, compreso, superato, archiviato e, preferibilmente, dimenticato.
L’offensiva revisionista da troppi anni sta operando devastazioni nella
storiografia, nella memoria collettiva, nelle coscienze delle nuove
generazioni, spesso contando sulla ottusa arrendevolezza o sulla complicità
attiva di intellettuali, di organismi, di istituzioni. È urgente e necessario
porre un argine a questa azione devastante e che è contraria a qualsiasi rigore
scientifico. Noi contiamo sull’esempio di questi due Enti che hanno dato il
patrocinio alla nostra iniziativa: ci auguriamo che valga a indurre altri Enti
e Istituzioni a schierarsi apertamente a difesa della libertà e del rigore
della ricerca storica.
Possiamo già registrare anche un altro dato positivo: l’interesse che questo
Convegno e la proposta di formazione di un Centro studi hanno suscitato in
molti ambienti. Questa attenzione è dovuta certamente all’importanza che il
problema della transizione al socialismo ha avuto nella storia del ’900 e che
ha ancora oggi per le esperienze ancora in corso. Una attenzione che è andata
crescendo in questi anni in ragione del miserabile degrado della politica,
delle devastazioni che la sconfitta dell’esperienza sovietica ha determinato,
dell’indifferenza e dell’ostilità scoperta e preconcetta che da ogni parte sono
state alimentate. Paradossalmente, anzi – come non di rado è già accaduto nella
storia –, le speranze opportunistiche di oblio o l’accanimento demonizzante
hanno cominciato ad ottenere l’effetto opposto, dal momento che né l’una né
l’altro potevano dare né spiegazioni né motivazioni. Con tutta evidenza è giunto
il tempo per molti – almeno, per gli studiosi e i militanti più attenti – di
intraprendere un percorso che sia capace di portare ad una comprensione seria,
razionalmente e scientificamente valida, che faccia giustizia di ogni
interpretazione di comodo.
A questo interesse si accompagna, però, evidentemente, anche l’aspettativa di
risultati importanti. E questo ci carica di responsabilità difficili e gravose.
Di questo bisogna essere tutti consapevoli. Pensiamo che ci sia un solo modo di
farlo: riuscire, finalmente, a costruire insieme un percorso comune di lavoro,
fatto di ricerca, di informazione, di formazione. Allora anche l’interesse e le
aspettative di tanti potranno trasformarsi in collaborazione e sostegno. E
questo renderà sempre meno difficile e pesante il compito che ci siamo assunti.
Tocca a noi lavorare bene, non deludere le aspettative e guadagnare sul campo
la fiducia necessaria.
Una grande difficoltà iniziale è stata – e lo è ancora – dovuta anche alla
sfiducia dilagante e alla disgregazione delle forze di progresso e di
rinnovamento, anche di quelle intellettuali.
Ma, fortunatamente, anche su questo terreno la realtà sta visibilmente
cambiando.
Si sta facendo strada, finalmente, la convinzione che una più avanzata e
consapevole comprensione dell’esperienza della transizione al socialismo
nell’URSS sia essenziale non soltanto per comprendere i limiti, gli errori e –
più in generale – quali fattori abbiano determinato gli avvenimenti degli anni
’89-’91, ma anche per valutare appieno il valore delle sue conquiste e,
soprattutto, per capire come orientarsi per il futuro. Così come l’analisi di
altri percorsi di transizione – prima di tutto di quelli ancora in atto – è
fattore irrinunciabile per comprendere il presente e le sue contraddizioni e, quindi,
per potere consapevolmente operare le necessarie scelte politiche.
Non è azzardato dire che una migliore comprensione delle esperienze di
transizione al socialismo può essere preziosa per recuperare un corretto
rapporto tra teoria e prassi, tra concezione del mondo e agire politico volto
alla trasformazione.
Ed è l’unica strada utile a chi voglia rilanciare – in concreto e in positivo –
i valori e i traguardi del comunismo, non come modello, ma come progetto
possibile per “cambiare lo stato di cose presente” e raggiungere concreti
obbiettivi di liberazione.
In realtà una riflessione seria, attenta, rigorosa, sull’esperienza della
transizione al socialismo è stata sempre accuratamente evitata dai gruppi
dirigenti di tutte le formazioni politiche
provenienti dalla vecchia matrice
comunista, sia di quelle che proclamano di averla “superata”, sia di
quelle che ancora dichiarano di richiamarvisi in qualche modo.
Questo “reato di omissione” – di per sé gravissimo, perché ha lasciato campo
libero alla denigrazione e alla calunnia più sfrenate – non esaurisce le
responsabilità di quei politici e di quegli intellettuali: questi stessi gruppi
dirigenti – che avevano, per primi, quasi mezzo secolo fa, dato la stura ad una
lettura distorta, “revisionista”, di quella storia – non hanno esitato ad
assumere, in modo assolutamente acritico, accuse, falsità e giudizi negativi –
perfino demonizzanti – che l’avversario, dopo il golpe di Eltsin, ha
forsennatamente rilanciato.
Emblematica è la vicenda del giudizio sulla figura e sull’opera di Giuseppe
Stalin. In realtà un giudizio storico adeguato su quel periodo e
sull’esperienza – comunque straordinaria – realizzata sotto la direzione
bolscevica, non è stato mai formulato. Dal 1956, ad appena tre anni dalla morte
di Stalin, l’attacco politco devastante di Krushev spalancò le porte ad una
serie infinita di denigrazioni e di vere e proprie falsificazioni della storia,
a cui imbarazzi incomprensibili, pudori perbenisti e pentitismi interessati
hanno spianato la strada per un intero mezzo secolo.
La pesante responsabilità dei gruppi dirigenti – politici e intellettuali,
sovietici e non – del comunismo è stata di avviare prima e di consentire poi
quest’opera di sistematica demolizione delle esperienze di transizione, di aver
súbito rinunciato a trovare le motivazioni reali anche dei fenomeni di
involuzione o degenerazione, di aver alimentato – con la propria acquiescenza
prima e con la complicità attiva poi – l’opera dei diversi nemici delle
esperienze di transizione.
Il periodo “staliniano” è stato usato, in realtà, per demolire ed espungere il
leninismo e l’esperienza sovietica dalla storia del ’900 e dalla memoria del
movimento operaio, si è voluto recidere alla radice una prassi che aveva già
dato – e avrebbe potuto dare ancor più in futuro – esiti pericolosissimi per le
classi dominanti. Il revisionismo storico, avviato con il “rapporto segreto”,
si è fatto carico di fare questo “sporco lavoro” mescolando le carte e
spargendo a piene mani velenose falsità. Gran parte dei fatti sulla base dei
quali sono stati condannati e demonizzati Stalin e il bolscevismo, nulla hanno
mai avuto a che vedere con quel periodo della storia sovietica, ma, piuttosto,
con quello successivo, quello in cui i “critici” di Stalin e del bolscevismo
avevano preso in mano la direzione del partito e dello Stato e avevano operato
scelte sostanzialmente diverse.
È mancata e manca a tutt’oggi una riflessione sistematica e scientifica. Allo
scandalismo delle “anime belle”, teso alla criminalizzazione – attraverso
l’attacco alla figura e all’opera di Stalin – di un’esperienza che ha cambiato
il corso della storia e la faccia del mondo, che ha fatto vacillare ovunque il
potere costituito imponendo cambiamenti epocali, non è stata mai opposta
l’analisi rigorosa dei dati e dei fatti. Anche i comunisti cinesi e albanesi –
e i tanti che nel mondo li seguirono per anni su quella strada – mostrarono
insufficienze incredibili e intollerabili esemplificazioni schematiche e
dogmatiche che non aiutarono in alcun modo a comprendere ciò che stava
accadendo.
Solo molto più tardi – troppo –, in anni più recenti, sforzi individuali si
sono volti ad avviare una riflessione e sono riusciti a fornire spunti
interpretativi preziosi.
Nel proporre la formazione del Centro studi sulla transizione e
l’organizzazione di questo Convegno abbiamo sostenuto che con la rivoluzione
d’Ottobre prese le mosse una straordinaria esperienza che cambiò il corso della
storia aprendo concretamente una strada del tutto nuova all’umanità per la conquista
della propria liberazione e che impresse agli eventi una incredibile
accelerazione. Il proletariato e le classi subalterne, i popoli coloniali,
oppressi e sfruttati, fecero irruzione nella storia rivendicando – non per sé
soltanto, ma per l’intera umanità – pienezza di diritti e di dignità,
battendosi per la eliminazione definitiva dalla società umana delle cause
strutturali e sovrastrutturali della disuguaglianza.
Eppure, agli occhi di tanti “rivoluzionari” – allora e in seguito – niente
sembrava consentire e avvalorare la scelta “temeraria” dei bolscevichi: né la
concezione astratta e metafisica del marxismo che quei critici avevano; né le
condizioni materiali e culturali della Russia zarista; né i rapporti di forza
politici e militari; né – apparentemente – gli stessi livelli di capacità
egemonica del processo rivoluzionario. Eppure Lenin e i bolscevichi seppero
cogliere non soltanto l’opportunità, ma anche la necessità che la storia
concretamente poneva ai comunisti di prendere – nonostante tutto – il potere.
È l’aver operato questa scelta coraggiosa in perfetta sintonia – contrariamente
a quanto critici vecchi e nuovi, interni ed esterni, hanno sempre sostenuto –
con un corretto uso della teoria marxista, che fa dell’esperienza sovietica un
fatto ancora più significativo: lo sviluppo delle contraddizioni aveva reso
possibile e necessario operare il salto rivoluzionario, tentare l’assalto al
cielo, ed i bolscevichi fecero questa scelta di coraggio e di coerenza. Né la
fecero sull’onda dell’emotività o dell’opportunità contingente determinati dal
macello imperialista della guerra e dalla caduta dell’autocrazia zarista: essi
reiterarono questa stessa scelta quando la immaturità delle condizioni impedì
che la rivoluzione dilagasse e incendiasse il mondo. Il gruppo dirigente
bolscevico dovette operare una scelta difficilissima: tentare di “esportare” e
imporre la rivoluzione con le baionette dell’Armata Rossa, rinunciare al potere
conquistato o accettare la sfida e la responsabilità che la storia aveva dato
loro. Non c’erano altre scelte possibili. Essi, coerentemente, decisero –
materialisticamente e dialetticamente – di percorrere la strada inesplorata
della costruzione di una società nuova in condizioni difficilissime e, così, di
imprimere concretamente una accelerazione a quella stessa storia che sembrava
correre più di quanto prefigurazioni deterministiche prevedessero. L’URSS ha
rappresentato, in realtà, lo straordinario tentativo di individuare sul campo,
in concreto, i contenuti e le forme in cui la nuova società – la “futrura
umanità” – poteva organizzarsi: è la rappresentazione reale di come il marxismo
sia filosofia della prassi. Essa ha dato – nelle difficilissime condizioni
poste dalla storia – ad un ideale fino ad allora astratto di società, la forza
delle cose reali, che esistono concretamente, che possono essere viste,
apprezzate e giudicate dagli uomini in carne ed ossa; è stata l’approdo
raggiunto di un percorso che dalle elaborazioni utopistiche era andato
snodandosi, assumendo connotazioni razionali e possibili nella elaborazione
marxista e una prima concreta verifica nell’esperienza fugacissima e tragica
della Comune.
La straordinarietà e la grandiosità dell’esperienza sovietica stanno proprio in
questa giusta concezione del rapporto della teoria con la prassi che determinò
i bolscevichi ad accettare tutte le sfide che la storia stava ponendo, allora e
subito. Essi erano materialisti storici e dialettici, sapevano che la storia
non si sviluppa in modo lineare, omogeneo, graduale, meccanico, a differenza di
quanto ritenevano i loro critici del tempo: i Trotzkij, i Bucharin, i Bordiga e
tanti altri.
Lenin e i bolscevichi erano ben consapevoli degli squilibri che la immaturità
delle condizioni poneva loro e delle difficoltà enormi che avrebbero dovuto
affrontare. Tutta la storia della transizione in URSS racconta di questa lucida
consapevolezza e degli sforzi grandiosi e originali per vincere quelle
difficoltà. Basta sfogliare gli scritti di Lenin e degli altri dirigenti, o
leggere i documenti del partito per rendersene conto. Erano, del resto, sfide
assolutamente evidenti: quella di un paese economicamente, culturalmente e
socialmente arretrato; quella di un accerchiamento e di un’aggressione
imperialista che sarebbe proseguita anche dopo la fine del della prima guerra
mondiale; quella di un’epoca in cui la manifesta crisi strutturale del
capitalismo stava per intrecciarsi con un’incipiente organizzazione del lavoro
(e, dunque, con una particolare configurazione dei rapporti capitalistici di
produzione) che avrebbe portato al proprio limite di utilizzo le forze
produttive allora esistenti, e, tuttavia, ancora ben all’interno dei vecchi
rapporti di produzione.
L’URSS accettò tutte queste sfide. E le vinse.
Di un’altra sfida era prematura la possibilità di avere coscienza: quella del
livello di sviluppo allora raggiunto storicamente dalle forze produttive e in
cui il lavoro morto ancora incombeva e dominava sul lavoro vivo, in cui la
forza-lavoro non poteva ancora liberarsi nell’atto stesso della produzione
perché asservita ad altre forze produttive – il capitale e le macchine – rigide
come il modo di produzione in cui erano utilizzate. Questa sfida sarebbe stata
possibile molti anni dopo, proprio quando la parabola dell’URSS era giunta a
conclusione, e, comunque, a distanza di molti decenni da quando le scelte
krusheviane e breshneviane avevano strappato slancio e capacità rivoluzionaria
all’esperienza sovietica.
Ma se l’URSS non ebbe modo di misurarsi con il futuro anche su questo terreno,
la sfida è oggi davanti alle altre società di transizione ancora esistenti, e
ad essa non è possibile sottrarsi.
Oltre alla comune necessità di resistere all’aggressività dell’imperialismo,
c’è stato sempre – probabilmente – un tratto comune nelle difficoltà che tutte
le esperienze di transizione hanno dovuto affrontare, pur nella grande
diversità delle condizioni storiche. Questa difficoltà attiene proprio alla non
matura corrispondenza tra il livello qualitativo raggiunto dalle forze
produttive in sviluppo, e la tensione verso un radicale cambiamento – ma ancora
non giunta al punto di rottura – dei rapporti di produzione. Voglio dire che
tutte le società di transizione – e, prima e più di tutte, quella sovietica –
hanno dovuto affrontare l’opera di trasformazione e di innovazione senza che la
“massa critica” dello sviluppo storico – quantitativo e qualitativo – a livello
planetario delle forze produttive fosse raggiunto. Questo modo diverso di
leggere il problema fa risaltare ancor di più la giustezza delle scelte
sovietiche e la straordinarietà dei risultati raggiunti, e fa definitivamente
giustizia delle critiche e delle polemiche che – allora e dopo – hanno avuto
riguardo soltanto ai termini quantitativi e locali dello sviluppo assumendoli
come motivo per decretare l’impossibilità della transizione.
Intanto, per quello che riguarda l’esperienza della Russia dei soviet, resta il
fatto che l’URSS vinse le tre sfide essenziali che nessun revisionismo storico
o disfattismo preconcetto potranno cancellare o minimizzare: 1) riuscì ad
avviare e consolidare per molti anni rapporti di produzione e di scambio di
tipo socialista, nell’epoca di pieno sviluppo dei mezzi di produzione tipici
del capitalismo; 2) questo risultato fu reso possibile perché fu portata fino al
proprio limite l’innovazione nei rapporti di produzione e di scambio, pur sulla
base di forze produttive ancora tipiche dell’epoca del capitalismo e pur nelle
condizioni della unificazione dei mercati a livello mondiale e nonostante
l’accerchiamento e l’aggressione dell’imperialismo; 3) fu capace – perfino – di
forzare e piegare – fino ai limiti del possibile – forze produttive e modi di
produzione alle esigenze del nuovo ordine che veniva tenacemente ricercato,
esplorato, costruito. I piani quinquennali sono forse l’espressione più alta di
questa volontà e di questa capacità di mettere il vecchio al servizio del
nuovo, mentre i successi (economici, sociali, scientifici, etc.) raggiunti ne
sono l’espressione tangibile.
Le sfide furono tutte vinte, alcune per molti anni, altre per sempre, su
terreni quasi sempre essenziali che riguardavano non un piccolo gruppo, e
neppure un singolo paese, ma l’intera classe degli sfruttati e tutta l’umanità.
Esistono una tensione e una valenza universali della transizione nell’URSS che
non possono essere sottaciute né mistificate.
Furono vittorie che sono ancora sotto i nostri occhi, non come ricordi
scoloriti o persistenze residuali del passato, ma come conquiste ancor vive,
vitali, gonfie di potenzialità, nella coscienza – certo – di milioni e milioni
di uomini, ma – prima di tutto – nella prassi del nostro tempo. Basterà
ricordare le condizioni di lavoro e di vita della classe proletaria o il
protagonismo dei popoli nella lotta per la propria liberazione. Paradossalmente
le vittorie dell’URSS sono sopravvissute all’esperienza che le aveva
direttamente realizzate o rese possibili.
E, tuttavia, occorre valutare con rigore anche un diverso dato che è emerso
drammatico, disarmante, dagli anni che sono seguiti alla sconfitta. Un dato che
lascia spesso smarriti coloro che sono stati legati a quelle esperienze, e che
viene sistematicamente enfatizzato e strumentalizzato dagli avversari di sempre
per ribadire, con von Hayek, che, dopo tutto quelle esperienze erano sbagliate
fin dall’inizio, che sono vissute grazie a metodi totalitari, ecc. ecc.
Questo dato terribile, ma obbiettivo, è l’effetto devastante che il “crollo”
ha avuto in quelle realtà, non di rado
con la conseguenza di una completa desertificazione delle coscienze, di una
estrema difficoltà (qualche volta la completa mancanza) di reazioni e di
persistenze resistenti. E, all’opposto, dovunque il ritorno del capitalismo –
spesso nelle forme più sfrenate e selvagge – è stato tanto repentino quanto
invasivo, e ha inevitabilmente comportato e trovato sponda nell’insorgenza di
mafie particolarmente aggressive e spietate. È un esito sconcertante che ha
quasi sempre rovesciato completamente non soltanto i rapporti di forza, ma
anche i valori, che ha certamente cause riconoscibili, ma che non possiamo
sbrigativamente considerare soddisfacenti ed esaustive, che non spiegano tutto,
e che debbono essere, quindi, ulteriormente esplorate, scavate più a fondo.
La parabola dell’esperienza di transizione nella Russia sovietica – qualunque
sia il giudizio che ne venga dato, anche da parte dei suoi più pervicaci e
velenosi avversari o degli sciocchi detrattori – ha spostato in avanti
l’orologio della storia che ben difficilmente si potrà far tornare indietro.
Questo merito straordinario se fa giustizia anche dei grilli parlanti che
avrebbero voluto la rinuncia a quell’eperienza, offre un elemento concreto e
positivo di giudizio che può sgominare il disorientamento e fare giustizia del
pessimismo e della rassegnazione seguiti all’involuzione e al “crollo”.
La sconfitta subita, per quanto terribile, appare allora non decisiva, ma ,
piuttosto, come una battuta d’arresto – grave ma non definitiva –, perché nella
realtà di oggi sono ben visibili, diffusi e irreversibili gli esiti positivi di
quell’esperienza. La storia non torna sui suoi passi. Solo i reazionari e gli
imbecilli possono pensarlo. Ma anche gli sconfitti possono portare il proprio
avvilimento fino al punto di crederlo, se alla percezione di una realtà
diventata più difficile si accompagnano la rinuncia e l’accettazione rassegnata
sia della sconfitta sia della demolizione sistematica di valori e orizzonti. È
su questo terreno che si gioca la nuova sfida per il futuro dell’umanità.
Resistere non basta: la partita si gioca a due, e le difficoltà del nostro
tempo, per quanto enormi, non sono certamente maggiori di quelle che i
bolscevichi si trovarono di fronte. Se più difficili condizioni esistono, sono
esclusivamente per la inadeguatezza del soggetto rivoluzionario.
C’è, però, anche il lato positivo della medaglia.
Non si riparte da zero. In questi anni di grigiore non tutti hanno rinunziato a
capire, ed oggi disponiamo di spunti interessantissimi, di corrette
impostazioni di ricerca, perfino di studi importanti. E, tuttavia, questi sono
il frutto meritevolissimo di sforzi individuali, il più delle volte condotti in
sostanziale isolamento: rare ed episodiche sono state le occasioni e le
opportunità di riflessione comune, di confronto ravvicinato, di dibattito. Vien
da pensare che in questo, come in molti altri ambiti – essenziali e complessi
–, sia molto difficile e di troppo lungo periodo poter conseguire ulteriori e
decisivi risultati su queste stesse basi. Pensiamo che sia necessario – e oggi
anche possibile – continuare insieme questi percorsi di ricerca, mettendo in
comune fonti, risorse, intelligenze, e pensare insieme i percorsi di ricerca,
confrontarli, percorrerli.
Paghiamo – certo –, anche nel campo della ricerca, il prezzo della mancanza
dell’intellettuale collettivo. Paghiamo il vuoto di elaborazione teorica e di
iniziativa politica non in conseguenza dello scioglimento del Pci e non
soltanto in ambito italiano, né solo dal 1991: la liquidazione del Pci fu essa
stessa il frutto – sciagurato, ma maturo – di eventi e involuzioni di lungo
periodo e di ben più ampia sofferenza.
Non sembri superfluo sottolineare l’inesistenza dell’intellettuale collettivo
in questo momento della storia: molti, troppi non ne sono ancora convinti o,
almeno, non ne traggono tutte le conseguenze, finendo per disperdere una
quantità incredibile di energie – le proprie e quelle di chi è da loro
organizzato o influenzato – nel disperato tentativo di trasformare (o di
conquistare) al ruolo di intellettuale collettivo organismi residuali
dell’opportunismo più sciatto.
Tutti concordiamo sul fatto che toccherebbe all’intellettuale collettivo
organizzare, dirigere e realizzare il giusto e necessario lavoro di ricerca e
di analisi: solo per questa via i risultati potrebbero essere posti in
relazione con altri ambiti di ricerca, generalizzati, finalizzati ad un
rilancio consapevole e meditato dell’iniziativa politica volta alla
trasformazione che, proprio da quei risultati, potrebbe trarre orientamento,
vigore e slanci decisivi. Toccherebbe, cioè, ad un soggetto attento al ruolo
centrale e irrinunciabile della teoria nel processo di cambiamento non
meccanico né graduale della realtà sociale, consapevole della necessità di non
determinare mai lo scollamento tra l’analisi
e l’iniziativa politica, né un isterilimento del patrimonio teorico del
marxismo in stereotipi schematici e dogmatici, né il suo scadimento nel
pragmatismo e nel gradualismo.
La ovvia constatazione della mancanza di questo soggetto e delle difficoltà
connesse alla sua ricomposizione non autorizza in alcun modo alla rinunzia ad
affrontare – sia pure con difficoltà e rischi maggiori – i compiti che ci sono
di fronte. Credo che il tenace lavoro di comprensione di straordinarie
esperienze come quelle della transizione, di recupero di valori positivi, di
riappropriazione di una corretta concezione del mondo e della storia sia
irrinunciabile per la ricostruzione dell’intellettuale collettivo.
È un cammino irto di problemi e di rischi.
Intanto, però, una prima difficoltà è stato dimostrato che può essere superata:
questo Convegno è stato organizzato con il dichiarato intento della prospettiva
di un Centro studi permanente e sono stati concretamente superati gli ostacoli
che la sfiducia, lo scetticismo e la dispersione delle forze avevano accumulato
in questi anni nella coscienza collettiva.
Anche la mancanza di risorse economiche è stato – e resta – un grande problema:
quelle disponibili presso il Centro Culturale “La Città del Sole” erano e sono
troppo modeste per disegni ambiziosi come quelli di organizzare un convegno di
elevato livello culturale e scientifico e – addirittura – di “mettere in piedi”
un centro permanente di studi. Ma, intanto, il convegno è in corso, e questo
può voler dire che esistono altre risorse oltre a quelle economiche, e queste –
di cui possiamo disporre più facilmente – dobbiamo metterle a frutto: per
citarne qualcuna, lo spirito di abnegazione, il senso di responsabilità, la
passione politica e la tensione ideale. È ciò che è accaduto anche questa
volta, e questa circostanza accresce la valenza di quest’incontro di lavoro
perché sfugge alla logica dei soliti incontri rituali, “professionali”, tra
addetti ai lavori. Contiamo di poter affrontare e risolvere anche il problema
di più lungo termine delle risorse necessarie per il Centro mettendo insieme le
intelligenze, le energie, le opportunità.
Anche su questo terreno, tuttavia, non ci nascondiamo le difficoltà e i rischi
derivanti dall’indifferenza e dall’ostilità verso un lavoro come quello che ci
prefiggiamo di affrontare. È del tutto evidente che la seria conoscenza e la
lettura rigorosa dell’esperienza della transizione al socialismo rischiano di
smontare e far crollare invenzioni e interpretazioni volutamente e – spesso –
scioccamente denigratorie o demonizzanti. Ci rendiamo conto, allora, che sarà
difficile strappare sostegni e risorse, tanto più che molti – pur interessati o
astrattamente disponibili – non vorranno rischiare d’essere essi stessi
demonizzati o emarginati. Sappiamo che sarà complicato trovare il modo di vincere
diffidenze e indifferenze.
Ciò non di meno andremo avanti con fiducia e tenacia.
Ben più seri, però, sono i rischi politici della nostra intrapresa. Possiamo
fin d’ora prevederne alcuni e, in qualche modo, premunirci: dovremo essere
attenti all’insorgenza continua di quelli meno evidenti, mano a mano che
andremo avanti nel nostro lavoro.
L’offensiva denigratoria e demonizzante delle esperienze di transizione non
accenna ad attenuarsi e, anzi, sembra guadagnare nuovi adepti nel seno stesso
di aree che sostengono arbitrariamente di continuare a riferirsi ad un’idea sia
pure confusa e astratta di comunismo. L’agitarsi smanioso di chi pensa di
accreditarsi agli occhi di avversari e complici provando a liberarsi di un
passato ingombrante e sgradito può essere ancora più insidioso, ma non deve
indurci a deviare dal giusto rigore scientifico e metodologico: non dobbiamo
indulgere alla tentazione di riproporre o cadere in una visione stereotipata,
apologetica e trionfalistica dell’esperienza sovietica e, più in generale,
delle società di transizione. Sebbene dettata dalla volontà di contrastare le
forsennate distorsioni che si fanno di quelle esperienze, sarebbe una scelta
antidialettica, sterile e inconcludente.
C’è, all’opposto, il pericolo che – a un certo punto del percorso e nonostante
le buone intenzioni iniziali – si cada in un atteggiamento aristocratico,
intellettualistico, artificiosamente asettico, più incline a soddisfare fini e
percorsi particolari – accademici e non – che a perseguire il rigore scientifico.
Né possiamo sottovalutare il rischio che deriva da una sostanziale
incomprensione dei fenomeni, da una visione schematica o dogmatica della
realtà, dal problema troppo pressantemente sentito e sbrigativamente risolto di
operare sul piano politico. Il “tradimento” per anni è stata l’unica
spiegazione che si è data della involuzione nei partiti comunisti e nelle
realtà di transizione. Si tratta, in realtà, di una categoria di comodo, che
non spiega niente, profondamente antimarxista perché prescinde dalle cause
oggettive, materiali e riconduce tutte le questioni a ruoli e scelte soggettive
o individuali. L’uso di questa categoria, pur se meno frequente, esiste ancora
ed è lo specchio del permanere di immaturità e inadeguatezza teorica e metodologica.
Sconfiggere questa persistenza vuol dire centrare la propria indagine sulle
motivazioni reali, profonde, anche del fenomeno degenerativo che ha portato al
crollo, sfuggendo alla tentazione – sempre ricorrente – di scivolare nel
politicismo, nel soggettivismo di analisi astratte e unilaterali – pur se
suggestive – che contengono solo una parte della verità. Nella nostra ricerca
dovremo costantemente riferirci alla prassi, alla realtà materiale,
strutturale, dei fenomeni che andremo ad osservare e studiare, sia nelle sue
rappresentazioni specifiche, sia in quelle generali. È sempre il livello di
sviluppo delle forze produttive e le sue relazioni con i rapporti di produzione
– non in un’area specifica, ma su base epocale e planetaria – che determina in
ultima istanza i reali rapporti tra le classi.
Il primo, essenziale insegnamento di Marx è quello che emerge dal suo stesso
impegno scientifico e politico, di studio e di lavoro. Nostro compito
essenziale e irrinunciabile oggi è, allora, l’analisi del capitalismo
transnazionale contemporaneo, è la critica dell’economia politica del nostro
tempo.
Hans Heinz Holz non si stanca mai di ricordarci che il marxismo non è un
sistema di proposizioni rigide e di categorie dogmatiche. È, invece, uno
strumento di interpretazione – cioè di trasformazione – della realtà, un
sistema teorico costantemente volto verso la prassi, sia per trarne gli
elementi reali della conoscenza, sia per effettuare la verifica di quanto
elaborato che, però, non è mai astratta e sterile ma, già essa stessa, concreta
trasformazione della realtà.
Il marxismo è, dunque, ad un tempo, flessibile – nel senso che è mirato a
conoscere una realtà in continuo e complesso mutamento – e rigoroso, poiché
muove da una precisa visione del mondo e della storia – la concezione
materialistica e dialettica – volta a individuare i termini, le relazioni e le
tendenze oggettive delle trasformazioni incessantemente in atto nella prassi.
Se questo è davvero il marxismo, è impossibile rinchiuderlo in schemi, in
formule, in stereotipi, di qualsiasi tipo, e qualunque sia l’intento di questo
impossibile imprigionamento, celebrativo e apologetico o denigratorio e
demonizzante.
Siamo perfettamente consapevoli d’essere particolarmente deboli, poco
“attrezzati”, rispetto ad alcuni ambiti di ricerca, pure assolutamente
centrali: non abbiamo bisogno per accorgecene che critici interessati o “grilli
parlanti” vengano ad eccepirlo con intenti dilatori o liquidatori.
Queste carenze sono un dato reale, obbiettivo, ineludibile, che ha, anche,
precise cause che in parte già conosciamo o che possiamo conoscere e rimuovere:
occorrono coraggio, pazienza, tenacia, capacità di attingere con fiducia alle
risorse che, pure, esistono.
Una cosa deve essere chiara: la consapevolezza di debolezze e difficoltà non
può costituire alibi per non fare, per rinviare ancora, per rinunciare o per
tornare a rinchiuderci, rintanarci, nella ricerca individuale.
In verità la realtà che viviamo non è affatto disperante; è, al contrario,
molto meno precaria e difficile di quanto appaia ad una lettura sfiduciata,
frettolosa o interessata.
Il Convegno che ci apprestiamo a tenere, del resto, pur con le sue carenze, è
esso stesso la prova concreta che la situazione è cambiata radicalmente
rispetto a soltanto qualche anno fa. L’idea di avviare un percorso di ricerca
sistematico sui problemi della transizione dal capitalismo al socialismo non è
nata recentemente. Se ne è cominciato a parlare fin dal 1997, e per ben cinque
anni ogni buona intenzione è cozzata contro un muro di disattenzione, di
sufficienza, di scetticismo. Ma in cinque anni la realtà cambia, e, finalmente,
la proposta non è apparsa più né illusoria, né velleitaria: all’opposto si è
dimostrata tanto vicina alla sensibilità e all’interesse di coloro a cui si
rivolgeva da avere, spesso, una risposta entusiastica e gravida di speranza.
Difficoltà e carenze restano, ne siamo consapevoli. E, tuttavia, il primo
ostacolo – per certi versi il più insidioso e difficile perché paralizzante – è
stato superato. Ora è possibile mettere in campo le energie e le risorse già
disponibili – per quanto esigue siano ancora – su linee programmatiche e su
iniziative qualificate ed effettivamente
praticabili, con i piedi ben saldi per terra, con grande realismo,
capaci di acquisire e coordinare le conoscenze, di individuare e indirizzare i
filoni di ricerca, di formare quadri. Non è moltissimo, forse, e, certamente si
tratta di risorse ed energie ben al di sotto di quelle di cui sarebbe
auspicabile disporre. Ma è quello che effettivamente abbiamo, e non è neppure
troppo poco.
E non è tutto, perché esistono anche tantissime energie non schierate, perfino
critiche – pur se non prevenute – nei
confronti delle esperienze di transizione da cui è possibile attingere
criticamente conoscenze e contributi.
È opportuno, allora, fin dal primo momento definire con molta chiarezza gli
intenti.
Né questo Convegno, né il costituendo Centro studi vogliono essere iniziative
fatte, per così dire, “in famiglia”, tra i “soliti noti”, né possono essere di
tipo “militante”. Sono e, probabilmente, saranno presenti opinioni e punti di
vista diversi, per due motivi fondamentali. Innanzi tutto sarebbe impossibile
ritenere di avere una visione esaustiva e univoca di un fenomeno così ampio e
complesso: non ci sarebbe, allora,
alcun motivo per costruire un centro permanente di studi. Per di più
sarebbe mortificante rinchiudersi in una saccente visione autoreferenziale,
minoritaria e inconcludente. Inoltre, le obbiettive insufficienze dell’attuale
“sapere collettivo” e della riflessione comune sull’argomento, nonché la
necessità di un approccio rigorosamente scientifico alla ricerca, impongono
l’apertura, il confronto, il dialogo tra conoscenze e punti di osservazione
ulteriori e diversi. Il che non vuol dire indulgere a un qualsiasi rapporto o
interlocuzione con chi opera sistematicamente la falsificazione della realtà
praticando opposizione calunniosa e denigrazione preconcetta delle esperienze
di transizione.
E allora, il Convegno e, ancor più, il Centro non sono iniziative di pochi per
pochi, ma di chi si sente parte di quella storia, e che sente di appartenervi
con orgoglio, perché ha la consapevolezza che si tratta di un’esperienza che ha
improntato di sé l’intero secolo e – ancora, nonostante la sconfitta – proietta
valori e prospettive nel nuovo millennio; sono iniziative di chi vuole
comprendere fino in fondo, di chi è convinto sia necessario individuare le
linee dello sviluppo storico e “starci dentro”, in un cammino che è stato
soltanto interrotto.
Lo studio di un fenomeno – o, ancor più, di un intero periodo – della storia
vuol dire misurarsi con fatti concreti, con bisogni e comportamenti di milioni
e milioni di uomini, con ben determinate situazioni materiali (vale a dire
strutturali). Non si studiano le idee, le opinioni, le riflessioni “teoriche”:
ci si misura con queste solo a partire dalla prassi, dopo aver analizzato e
compreso sia i fatti e la struttura della società che è in esame, sia i bisogni
e i comportamenti degli uomini che ne fanno parte.
Il Convegno vuole aprire un percorso, permettere realisticamente la verifica
dell’esistenza delle condizioni minime per la formazione del Centro studi. Non
si tratta di una scelta presa a tavolino, fatta con dovizia di mezzi, per
smania o protagonismo intellettualistico, ma operata a partire e ben dentro le
difficoltà e le contraddizioni che noi tutti viviamo in questo nostro tempo.
Compito del Convegno è quello di sventagliare le questioni, individuare ed
esaminare limiti e difficoltà, fare la ricognizione delle forze che è possibile
mettere in campo, impostare il percorso della ricerca. E questo è stato chiesto
ai relatori di tener presente. In questo vogliamo cercare di innovare evitando
che anche questo nostro primo momento di lavoro si risolva nella solita
passerella delle idee che non serve a niente e a nessuno. Pensiamo, invece, che
la riflessione comune che ci accingiamo a fare sia preludio anche alla
riproposizione in positivo delle esperienze di transizione, perché occorre far
conoscere e affermare nuovamente i valori positivi e l’orizzonte di
liberazione, di solidarietà e di uguaglianza di quei percorsi. Soprattutto
verso i giovani.
Nel programma di questo convegno sono presenti “vecchi saggi” accanto a
“giovani sapienti”.
Non è casuale questo accostamento. È mia profonda convinzione che occorra
puntare decisamente e coraggiosamente sui giovani che rappresentano l’unica
nostra speranza. Occorre operare perché i “vecchi saggi” possano trasmettere a
giovani dotati, volenterosi e risoluti le proprie conoscenze e i frutti delle
loro riflessioni, e, ad un tempo, siano in grado di comunicare e insegnare ad
essi il metodo. Unire la profondità di pensiero e la tenacia dei migliori
intellettuali marxisti con l’entusiasmo e la vivacità intellettuale di giovani
dotati è la strada da percorrere. Dobbiamo formare un gruppo stabile e
qualificato di giovani studiosi che costituiscano il nucleo della ripartenza,
che possano essere elemento essenziale della riflessione da compiere, che siano
baluardo contro la cialtroneria pseudoscientifica, che siano fattore non
secondario della formazione del nuovo intellettuale collettivo.
Per questo nel nostro lavoro dovremo non soltanto essere attenti all’andamento
della nostra ricerca sull’esperienza della transizione, ma – nel farlo –
dovremo tener d’occhio altri ambiti di studio e di approfondimento che, pure,
vengono affrontati, e operare attentamente per formare questi e molti altri
giovani quadri intellettuali.
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