www.resistenze.org - pensiero resistente - dibattito teorico - 23-02-11 - n. 352

Estratto dal saggio introduttivo di Adriana Chiaia a La (ir)resistibile ascesa al potere di Hitler di Kurt Gossweiler, Zambon editore
 
Il piano inclinato
 
di Adriana Chiaia
 
Premessa
 
Nel 90° anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, aderente all’Internazionale comunista, si sono moltiplicati, nei convegni e nelle pubblicazioni che si richiamano al comunismo, gli interventi di studiosi e di intellettuali, impegnati nell’analisi delle cause della mutazione genetica del Partito Comunista Italiano, uno dei più forti partiti comunisti dei paesi capitalisti dell’Europa occidentale, nel Partito Democratico, attraverso le fasi del PDS e DS. Unanime e scontata la critica impietosa del Partito Democratico, su cui quindi non vale la pena di soffermarsi.
 
Importante è invece richiamare l’attenzione su una questione di grande importanza nel cui merito tali analisi si differenziano quando si tratta di individuare le origini di tale nefasta metamorfosi.
 
Ad esempio, Vittorio Gioiello, in apertura della prima parte della sua documentata analisi sul percorso PCI-PD, “Dal PCI al PDS. Storia critica di un passaggio di campo” (Vedi l’Ernesto n. 2, 2010), scrive: “Per comprendere, al di là degli aspetti trasformistici di Occhetto, le vicende che hanno portato alla fine del Pci, bisogna risalire alla fine dell’esperienza della ‘solidarietà nazionale’, durante la quale avviene una rottura fra la politica del Pci e la società italiana”. E, dopo aver descritto gli aspetti filosofici e politici delle teorie neo-liberiste imperanti nel mondo capitalista e nella “sinistra” craxiana, fissa il punto cruciale dell’adeguarsi del PCI a queste concezioni opportuniste e revisioniste scrivendo: “Il XVII Congresso (1986) sancisce l’appartenenza del Pci alla sinistra europea di cui si dichiara ‘parte integrante’. È la sanzione del prevalere della destra comunista che ha in Napolitano il suo esponente principale”.
 
Diversamente da questa impostazione e da altre simili, per molti studiosi marxisti, né i “giri di boa” sopra ricordati, né l’occhettiano “indimenticabile ‘89” sono altrettanti punti di partenza, bensì costituiscono le tappe successive del percorso, già da lungo tempo iniziato con il prevalere delle correnti revisioniste all’interno del PCI, che ha portato dall’esplicito abbandono della teoria marxista-leninista e dal rifiuto della via rivoluzionaria per la conquista del potere da parte della classe operaia, alla negazione della lotta di classe e, addirittura, della concezione della società divisa in classi.
 
Il punto di partenza, secondo quest’ultima analisi, va ricercato a monte, nel partito nuovo di Togliatti. Con l'VIII° Congresso del 1956, Togliatti e il gruppo che aveva prevalso nella direzione del PCI (dalla quale era stato escluso Pietro Secchia) sancirono la strategia di integrazione nella democrazia borghese e nell’ordine capitalistico italiano, sull’onda – e perfino essendone gli antesignani, insieme alla Lega dei comunisti jugoslavi – della svolta controrivoluzionaria impressa dalla cricca revisionista chrušceviana alla strategia del PCUS in Unione Sovietica.
 
Condividendo questo punto di vista, nel mio saggio introduttivo all’opera di Kurt Gossweiler La (ir)resisitibile ascesa al potere di Hitler, ho puntato l’obiettivo sulla concezione togliattiana del partito nuovo, sulla sua prassi e sulle disastrose conseguenze per i militanti comunisti, per i lavoratori e per le masse popolari italiane. Ho successivamente ripercorso per sommi capi, nell’economia di quello scritto, le ulteriori tappe del “piano inclinato”, fino alla caduta nel pantano del partito veltroniano.
 
Sono profondamente convinta che la questione di individuare le cause, le modalità e i tempi nei quali il revisionismo moderno ha prevalso nel Partito Comunista Italiano abbia non soltanto un grande valore teorico, ma sia determinante affinché la teoria e la prassi di un autentico partito comunista (che da più parti si proclama di voler ricostruire) non ricalchino la stessa via e non commettano gli stessi errori.
 
Per questo motivo ritengo utile riproporre il mio scritto al fine di dare un contributo al dibattito che – al di là delle celebrazioni contingenti – è tutt’altro che esaurito.
 
1. Il revisionismo del partito nuovo di Togliatti
Ovvero: il punto di partenza
 
L’VIII Congresso del PCI si svolse dall’8 al 14 dicembre 1956, a pochi mesi dal XX Congresso del PCUS.
 
“Ma il XX Congresso non era stato soltanto la denuncia dell’opera di Stalin: da esso e dal complesso delle sue impostazioni e delle sue conclusioni politiche, veniva una conferma della linea seguita da tempo dalla Direzione del PCI e da Togliatti, e anche una spinta ad approfondire la ricerca e ad andare avanti con maggiore forza lungo questa linea. […]. Questi documenti [le Tesi approvate dal XX Congresso] fecero fare un balzo in avanti alla nostra elaborazione dell’avanzata democratica al socialismo”.[i]
 
Mentre il XX Congresso si era abbattuto come un maglio sul movimento comunista e sui movimenti di liberazione nazionale ed aveva seminato disorientamento e scoraggiamento e generato incredulità, rabbia e dolore nei militanti comunisti, le correnti revisioniste dei partiti comunisti ne avevano tratto vantaggio per la loro affermazione.
Il Partito comunista italiano aveva addirittura precorso i tempi.
 
Palmiro Togliatti, proveniente da Mosca e sbarcato a Napoli il 27 marzo 1944, portava con sé il prestigio di delegato del Partito comunista d’Italia all’Internazionale comunista e di membro del suo Comitato esecutivo e poi dell’Ufficio di organizzazione del segretariato.
 
Questo prestigio si rafforzò “sul campo” quando Togliatti fece uscire dall’immobilismo la Giunta esecutiva del Comitato di Liberazione nazionale, che riuniva i partiti antifascisti delle regioni italiane liberate, paralizzata dalle divisioni concernenti la soluzione della questione istituzionale. Ricordiamo che gli alleati anglo-americani consideravano come unici interlocutori il re Vittorio Emanuele III ed il governo presieduto da Badoglio, governo che aveva ottenuto anche il riconoscimento dell’Unione Sovietica. Togliatti convinse il PCI e gli altri partiti del CLN che era indispensabile rimandare le soluzione della questione istituzionale alla conclusione della guerra di liberazione dai tedeschi, condotta al nord dalle formazioni partigiane e a sud della linea gotica dagli alleati anglo-americani, essendo assolutamente prioritario l’obiettivo della cacciata dei tedeschi e dei loro servi fascisti.
 
Bisognava quindi che i partiti antifascisti partecipassero al governo Badoglio; la questione istituzionale si sarebbe risolta, una volta liberata l’Italia, attraverso una Assemblea costituente democraticamente eletta.
 
La svolta, cosiddetta di Salerno, dalla sede provvisoria del governo, fu accettata da tutte le componenti del CLN (con l’eccezione del Partito d’Azione che però fu presente nel nuovo governo con due rappresentanti), compreso il gruppo dirigente del PCI, che la considerò una mossa tattica.
 
Se la critica di Togliatti per l’intransigenza dei rappresentanti del PCI sulla questione istituzionale che di fatto avevano trascurato l’obiettivo prioritario della vittoria della guerra di liberazione fu condiviso da tutto il gruppo dirigente, con alcuni distinguo (Scoccimarro l’accettò per disciplina), la critica complessiva alla linea politica del partito e alle concezioni marxiste-leniniste che l’avevano ispirata nel passato trovò forti resistenze, in particolare nel Centro dirigente del Nord, dove il partito, attraverso le Brigate Garibaldi costituiva il nerbo e la forza dirigente del Comitato di Liberazione Alta Italia (CLNAI) nella guerra partigiana e guidava la lotta armata nelle città occupate organizzato nei gruppi di azione patriottica (GAP) e nelle Squadre di azione patriottica (SAP), oltre ad essere l’animatore delle lotte di massa culminate nei grandi scioperi del ‘43 e del ’44.
 
Longo, nella riunione convocata dal partito a Milano, cui partecipano Scoccimarro e Negarville, polemizza con l’estensione che Amendola, Novella e Negarville (che si fa portatore di queste posizioni) vogliono dare alla rettifica delle posizioni di linea. Egli, dopo aver riconosciuto l’errore relativo al governo Badoglio, dice:
 
“Non sono d’accordo con il modo in cui mi pare essi concepiscano il Fronte nazionale [di lotta antifascista]. Essi sottovalutano, di fatto, e qualche volta negano addirittura, il problema della direzione interna del Fronte nazionale, della funzione di motore e di avanguardia che deve avere il nostro partito e la classe operaia e le forze di sinistra […]. Giorgio [Amendola] si scandalizza perché a Milano parliamo di Partito comunista alla testa della classe operaia e di questa alla testa delle forze popolari, e di queste alla testa del fronte nazionale. […]. È proprio questa funzione di avanguardia e di motore del fronte nazionale che mi pare non vedano Gino, Giorgio ed Ermete [Novella, Amendola e Negarville], funzione che non va esente da lotte interne, ben inteso, perché non vi è progresso senza lotta, non vi è coalizione senza lotta interna. La divisa di Giorgio, Ermete e Gino mi pare che sia: tutto ciò che piace ai nostri alleati, niente che dispiaccia loro; cioè rinuncia completamente a ogni funzione di stimolo e di direzione”.
 
E, rivendicando con orgoglio l’azione condotta dal Partito:
“Si pensa che non dovevamo scatenare i movimenti economici, che non si dovevano orientare anche contro i padroni collaborazionisti e profittatori della occupazione tedesca, che non si dovevano costituire le brigate Garibaldi? Se sì, lo si dica, perché questa è la nostra linea e le frasi, le formulazioni non sono che un riflesso dell’insieme della nostra linea”.[ii]
 
A sua volta il gruppo “romano” della direzione del PCI, considerò errate, dogmatiche e settarie le posizioni emerse a Milano. Togliatti rimandò la discussione ideologica al compimento della liberazione del paese, ma prese le misure organizzative opportune mandando Amendola ad affiancare il Centro dirigente del Nord e moltiplicando il suo solerte lavoro di “propagandista” del partito nuovo a Napoli e nelle città che man mano si liberavano dall’occupazione tedesca, a Roma e a Firenze.
 
Le riserve e le rivendicazioni di cui abbiamo parlato discendevano dalla consapevolezza del fatto che oltre alla soluzione del problema del governo Badoglio, Palmiro Togliatti era assertore convinto di concezioni e di obiettivi strategici di ben altro spessore, che comportavano un radicale cambiamento nella linea politica e nelle strutture del partito ed era deciso a farle prevalere.
 
A Napoli Togliatti anticipò la linea generale che poi ribadirà in infinite occasioni: il PCI non si pone l’obiettivo di “fare come la Russia”.
 
“L’obiettivo che noi proporremo al popolo italiano di realizzare, finita la guerra, sarà quello di creare in Italia un regime democratico e progressivo […] proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi avidi ed egoisti della plutocrazia, cioè del grande capitalismo monopolistico. Questo vuol dire che non proporremo affatto un regime il quale si basi sull’esistenza e sul dominio di un solo partito. In una parola nell’Italia democratica e progressiva vi saranno diversi partiti corrispondenti alle diverse correnti ideali e di interessi esistenti nella popolazione italiana”.[iii]
 
Il partito nuovo avrebbe costituito lo strumento per il raggiungimento di questo obiettivo.
 
“La classe operaia […] intende oggi assumere essa stessa accanto alle altre forze conseguentemente democratiche, una funzione dirigente nella lotta per la liberazione del paese e per la costruzione di un regime democratico. Partito nuovo è il partito capace di tradurre in atto questa nuova posizione della classe operaia, di tradurla in atto attraverso la sua politica, attraverso la sua attività e quindi anche trasformando a questo scopo la sua organizzazione. In pari tempo il partito nuovo che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema dell’emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione”.[iv]
 
L’altro pilastro su cui poggiava la strategia togliattiana per il raggiungimento della democrazia progressiva era l’alleanza con le masse cattoliche che “hanno sofferto dal fascismo, odiano il fascismo quanto lo odiamo noi e possono e debbono essere nostre alleate nella costruzione di un’Italia democratica”.[v]
 
Nel discorso che tenne a Firenze il 3 ottobre 1944, Togliatti ricorda che Gramsci aveva affermato la necessità di “una solida alleanza tra le masse operaie e le masse contadine” e, forzandone il senso – e non sarà la prima né l’ultima volta – lo estende all’alleanza con le masse contadine cattoliche che costituirebbero la base di massa della Democrazia cristiana. Di qui, l’ulteriore passaggio all’alleanza politica con questo partito, che Togliati considera l’erede del Partito popolare.
 
Dopo la liberazione di Roma, nel suo discorso al teatro Brancaccio, dice:
 
“Siamo disposti come partito comunista, alleato del partito socialista, a stringere con il partito della democrazia cristiana un patto di azione comune il quale prevede la lotta delle grandi masse comuniste e socialiste e delle grandi masse cattoliche per un programma comune di rigenerazione economica, politica e sociale”.[vi]
 
De Gasperi, nel celebre discorso tenuto a Roma il 23 luglio nello stesso teatro Brancaccio, in cui esprime apprezzamento per “l’aspirazione universalistica sovietica e persino per Stalin, “per il grande maresciallo e grande condottiero di popoli” [non si sa mai, nell’eventualità che venisse Baffone, ndr] e perfino rivendica la primogenitura dell’Internazionale “basata sull’eguaglianza, sulla fraternità universale sulla paternità di Dio”, fondata duemila ani prima da Gesù Cristo,“un altro proletario, israelita come Marx” [!], ringrazia per il rispetto manifestato dal Partito comunista per la fede cattolica, ma temporeggia sulla proposta di alleanza.
 
Ma Togliatti insiste imperterrito e siamo ai distinguo nella classe dirigente democristiana, in vista di alleanze interclassiste. A Firenze, dopo aver sottolineato la forza organizzativa della DC, dice:
 
“… Ora, in questo partito […] si trovano da un lato uomini che provengono dalle classi possidenti borghesi i quali sono orientati parte in modo antifascista e parte in modo conservatore, dall’altro lato si trovano grandi masse di lavoratori, di operai anche e soprattutto di contadini”.[vii]
 
De Gasperi continuerà a temporeggiare e a consultarsi con Luigi Sturzo, che si trovava ancora negli Stati Uniti, fino al Patto di Roma che il 9 giugno sancì l’unità sindacale nella Confederazione generale del Lavoro (CGIL) fondata sulla più ampia democrazia interna”, “indipendente da tutti i partiti” e che vide, per la prima volta nella storia, l’ingresso paritetico dei cattolici nel sindacalismo libero, di classe. Davanti a quello che chiama “esperimento pieno di rischi ma che vale la pena di fare”, De Gasperi considera che non convenga respingere quella “mano tesa”, anche perché si augura che la lotta sindacale attenui la lotta di classe e che la presenza dei cattolici impedisca che il sindacato torni ad essere strumento della lotta politica. Comunque, la diffidenza della gerarchie ecclesiastiche e della stessa DC si esplicita nella fondazione delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (ACLI), collaterali alla componente cattolica del sindacato unitario, il cui presidente è Achille Grandi, contemporaneamente segretario generale della CGIL (insieme a Di Vittorio per i comunisti e a Canevari per i socialisti) Questa iniziativa si accompagna all’istituzione della Coltivatori diretti che raggruppa i piccoli e medi proprietari agricoli.[viii]
 
Se si escludeva la via rivoluzionaria alla presa del potere da parte della classe operaia, e quindi il partito nuovo era in sostanza un partito riformista, qual era l’analisi della situazione economica e quali le alleanze che avrebbero permesso di imboccare la “via italiana al socialismo”?
 
Una formulazione complessiva ed organica della strategia del PCI riguardo alla politica economica e alle alleanze con cui conseguire le “riforme di struttura” ci viene offerta dalla seguente citazione di Togliatti, della cui lunghezza ci scusiamo:
 
“La necessità di obiettivi parziali corrisponde oggi, per noi, alla possibilità di un’avanzata verso il socialismo che sia democratica e – relativamente – pacifica. È una necessità che in altri tempi non poteva venire concepita come invece si può fare oggi. Il socialismo non aveva ancora riportato quelle grandi vittorie che oggi gli consentono di affermarsi in una terza parte del mondo. L’economia non si era ancora sviluppata sino all’odierna fase del capitalismo monopolistico di Stato. Non si erano create ancora quelle condizioni per cui alcuni principi nettamente socialisti, come quello della pianificazione economica, non possono più essere respinti a priori, ma si impongono persino a coloro che poi cercano di travisarli e contraffarli nella pratica. Il pesante dominio dei monopoli non aveva ancora creato quelle possibilità, che oggi esistono, di nuove alleanze della classe operaia, nella sua lotta per il socialismo, con estesi strati di piccola e media borghesia e di intellettuali. Gli stessi contadini piccoli e medi proprietari potevano essere considerati, nel passato, come una massa non penetrabile alle nostre idee e restia al contatto con la classe operaia, mentre oggi questa situazione sta cambiando. E non si trova forse in uno dei nostri autori classici […] [i puntini di sospensione nel testo nascondono forse il nome di Bucharin? ndr] l’affermazione che la conquista di una collaborazione con strati decisivi della piccola borghesia e dei contadini coltivatori conduce a porre in modo diverso lo stesso problema della dittatura del proletariato? Non dimentichiamo, infine, la estensione e la profondità raggiunte dal movimento organizzato degli operai e dei lavoratori, le conquiste democratiche realizzate nel nostro paese, la impossibilità per le classi borghesi di distruggere queste conquiste senza affrontare un combattimento nel quale probabilmente sarebbero battute […]. Non dimentichiamo nemmeno che la stessa esperienza della costruzione socialista, mentre ha enormemente arricchito la nostra dottrina e accresciuto la nostra forza, ha anche dimostrato, con i gravi aspetti negativi del culto della personalità, che il momento democratico deve assumere un valore decisivo non solo nella lotta per il socialismo, ma nella organizzazione e nello sviluppo di una società socialista”.[ix]
 
Emilio Sereni approfondisce ulteriormente l’analisi sulla genesi e sulla natura del capitalismo italiano descrivendolo come capitalismo finanziario monopolistico (e capitalismo monopolistico di Stato) innestato “sul vecchio tronco dello sfruttamento e dell’oppressione di tipo feudale” e che “l’abbattimento della dittatura fascista non è valso, finora, a liquidare compiutamente” e ne trae la conclusione che:
 
“… Portare a termine la rivoluzione antifascista significa pertanto, al tempo stesso, a questo livello delle strutture economiche di base, avanzare decisamente sulla via italiana del socialismo”.[x]
 
In breve, la politica economica del PCI si sostanzia nelle riforme delle strutture capitalistiche di base: lotta alla rendita fondiaria [e non alla proprietà fondiaria, ndr], modifica dei patti agrari, ecc. e – mediante le nazionalizzazioni e la prevalenza del capitale pubblico – nella sostituzione della programmazione del capitalismo di Stato favorevole alle oligarchie finanziarie con una programmazione democratica vantaggiosa per le classi lavoratrici e per i suoi alleati e, come si dice altrove, per i ceti medi e per il piccolo e medio capitale penalizzato dai monopoli.
 
Togliatti e gli altri dirigenti del partito nuovo, che si richiamavano ipocritamente alla dottrina marxista, dimenticano o fingono di dimenticare quello che scrisse Lenin a proposito del capitiamo monopolistico di Stato:
 
“Nella valutazione teorica del capitalismo moderno, cioè dell’imperialismo, è colto qui [si riferisce ad un passo di Engels, ndr] l’essenziale, vale a dire che il capitalismo si trasforma in capitalismo monopolistico. È da sottolineare capitalismo perché uno degli errori più diffusi è l’affermazione riformista borghese, secondo la quale il capitalismo monopolistico o monopolistico di Stato non è già più capitalismo e può essere chiamato ‘socialismo di Stato’, ecc. Naturalmente i trust non hanno mai dato, non danno sinora e non possono dare la regolamentazione di tutta l’economia secondo un piano. Ma per quanto essi stabiliscano un piano, per quanto i magnati del capitale calcolino in anticipo il volume della produzione su scala nazionale e persino internazionale, per quanto essi regolino questa produzione in base a un piano, rimaniamo tuttavia in regime capitalistico, benché in una sua nuova fase, ma, indubbiamente, in regime capitalistico. La ‘vicinanza’ di tale capitalismo al socialismo deve essere per i veri rappresentanti del proletariato un argomento in favore della vicinanza, della facilità, della possibilità, dell’urgenza della rivoluzione socialista, e non già un argomento per mostrarsi tolleranti verso la negazione di questa rivoluzione e verso l’abbellimento del capitalismo, nella qual cosa sono impegnati tutti i riformisti”.[xi]
 
Il partito nuovo si compattò, in parte per convinzione in parte per disciplina, sulla linea delle riforme di stratura per via pacifica e parlamentare e la sostenne fino in fondo.
 
Tuttavia la sua attuazione presupponeva la lotta politica per l’instaurazione di un governo democratico e progressista e, come riconosciuto nel dibattito interno:
 
“… I problemi delle riforme di struttura furono rinviati all’esame della Costituente e, quindi, alle decisioni del primo parlamento che sarebbe stato eletto sulla base della nuova carta costituzionale […]. La riforme di struttura non venivano poste, cioè, come condizione per dare subito alla ricostruzione un certo impulso e un indirizzo democratico”.[xii]
 
Di conseguenza il partito e i suoi militanti di base, che cominciavano ad organizzarsi anche nel Sud in stretta collaborazione con i socialisti, dedicarono tutte le loro energie puntando al successo delle sinistre nelle votazioni per l’elezione della Assemblea costituente e all’esito a favore della repubblica del referendum istituzionale.
 
Nelle votazioni che si svolsero il 2 giugno 1946, l’opzione repubblicana passò di misura ottenendo circa 12 milioni di voti contro i circa 10 milioni per la monarchia e con un forte divario tra Nord e Sud. Le votazioni per l’Assemblea costituente videro la maggioranza della DC con il 35,18% dei voti. Il PSIUP si collocò al secondo posto con il 20,72% dei voti, seguito dal PCI con il 18,96%. La Repubblica fu proclamata il 18 giugno. Il PCI gettò tutte le sue energie e tutte le capacità dei suoi quadri nella partecipazione attiva e propositiva ai lavori dell’Assemblea costituente. La Costituzione entrerà in vigore il 1° gennaio 1948. La Carta costituzionale, il suo valore progressista e la sua difesa divennero un altro asse portante della politica del PCI. Ecco come ne parlò Togliatti nel corso della IV Conferenza programmatica del partito che si tenne dal 9 al 14 gennaio 1955. Dopo aver ribadito i concetti dell’estremo grado di maturazione raggiunto dal capitalismo monopolistico e della conseguente maturità della trasformazioni socialiste, dice:
 
“… Che cosa sono, del resto, gran parte delle affermazioni e dei principi fondamentali della nostra Costituzione?” E, dopo aver elencato ed enunciato gli articoli 1, 2, 3, 4, 36, 41, 42, 43 e 45 [a cui per brevità rimandiamo i nostri lettori], prosegue: “Che cosa sono tutte queste affermazioni, questi principi, queste proposte contenute nella nostra Costituzione, in questo documento che deve essere e sarà il faro che guidi lo sviluppo della società italiana nei prossimi anni? È chiaro che noi abbiamo nella stessa nostra Costituzione le linee di un programma non soltanto politico ma economico e sociale, di ispirazione fondamentalmente socialista e di cui chiediamo la attuazione mentre rivendichiamo la difesa permanente e la restaurazione di tutte le libertà che nella Costituzione sono scritte”.[xiii]
 
Ricordiamo che la Costituente non ebbe la facoltà di legiferare. Da ciò dipendono tutti i limiti nell’applicazione dei principi sanciti nella prima parte della Costituzione. Lo stesso Togliati lo riconobbe in seguito: “…Nella stessa Costituzione non esistono però articoli i quali indichino concretamente quali sono i mezzi e gli istituti attraverso i quali verranno realizzate le indicate riforme e attuati i nuovi diritti del lavoro; anzi quando si passa alla seconda parte della Costituzione, la quale organizza in modo concreto il nuovo regime democratico, non vi è dubbio che in questa seconda parte la connivenza delle forze conservatrici della destra con quelle della Democrazia cristiana è riuscita a far passare una serie di disposizioni con l’esclusivo intento di porre ostacoli e barriere all’azione di quell’assemblea di rappresentanti del popolo la quale volesse veramente e speditamente marciare sulla via di un profondo rinnovamento economico e sociale del paese, applicando nei fatti le premesse della Costituzione”.[xiv] Tradotto: i governi delle successive legislature, attraverso le istituzioni statali (parlamento, consiglio dei ministri, ecc.), troveranno sempre il modo “democratico” per non applicare i principi fondamentali della Costituzione.
 
Il bilancio fallimentare della via parlamentare al socialismo
 
Esposte le principali concezioni che guidavano il partito nuovo, vediamo ora di fare un bilancio della loro applicazione nella pratica.
 
Nel 1944 e nel 1945 parvero aprirsi promettenti prospettive, se non ancora per la via pacifica al socialismo, almeno per la via pacifica al governo dello Stato.
 
Il 22 aprile 1944, il PCI e il Partito socialista di unità proletaria (PSIUP), insieme alle altre forze politiche del CLN, entrarono nel governo Badoglio e fu la prima volta per i partiti della classe operaia nella storia dello Stato italiano. Il 3 giugno il governo adottò la proposta di legge firmata dal ministro all’Agricoltura, il comunista Fausto Gullo. Il PCI continuò a far parte dei successivi governi, formatisi dopo le dimissioni a catena dei precedenti, sia del primo (18 aprile) che del secondo (22 aprile) dei governi presieduti da Ivanoe Bonomi (presidente del CLN), nel secondo dei quali Togliatti fu vice presidente.
 
Il PCI partecipa al governo Parri (costituito il 21 giugno 1945), nel quale Togliatti è ministro di Grazia e Giustizia. Dopo le dimissioni di Parri, dovute agli attacchi dei liberali contro la politica antifascista del governo, il PCI partecipa ai due successivi governi presieduti da Alcide De Gasperi, che vedono ancora la presenza di ministri socialisti e comunisti tra i quali Togliatti, ancora come ministro di Grazia e Giustizia.
 
Il 1946, come già ricordato, fu l’anno dominato dall’insediamento della Costituente, che iniziò i suoi lavori il 25 giugno e l’anno dall’instaurazione della Repubblica. Quattro giorni dopo la sua proclamazione ufficiale (presidente provvisori Enrico De Nicola), il 22 giugno venne concessa un’ampia amnistia, a firma del ministro di Grazia e Giustizia, Togliatti con l’obiettivo, dichiarato anche dal suo estensore, della pacificazione nazionale.
La conquista pacifica delle istituzioni governative pareva funzionare.
 
In realtà altri fattori giocavano a favore della presenza delle sinistre e soprattutto dei comunisti nei governi. Essi avevano alle spalle la forza del movimento partigiano che aveva combattuto alla macchia e nelle città occupate dal nemico nazi-fascista, che, non obbedendo al proclama del generale Alexander, aveva dimostrato di essere in grado di liberare vaste zone e città senza attendere i “liberatori” anglo-amenricani. Avevano alle spalle i grandi scioperi nelle fabbriche del ’43 e del ’44. Avevano alle spalle l’insurrezione vittoriosa del 25 aprile e il prestigio del CLNAI che l’aveva diretta e che si dimostrava capace di amministrare le regioni liberate.
 
In campo internazionale l’Esercito rosso, che ormai aveva liberato tutto il territorio dell’URSS aveva innalzato la sua bandiera sul Reichstag a Berlino. Gli alleati anglo-americani sembravano riconoscere il ruolo fondamentale dell’URSS nella sconfitta del nazismo.
 
In questo contesto era quanto meno prudente, in vista di un futuro incerto, accettare che l’eterno nemico social-comunista sedesse nella stanza dei bottoni. I fatti successivi con la loro testardaggine dimostreranno quanto effimera fosse questa collaborazione e sempre più accidentata la via pacifica al socialismo.
 
Disarmati i partigiani per ordine degli alleati anglo-americani, sottratto ogni potere politico-amministrativo al CLNAI nel governo delle città liberate, la restaurazione dei vecchi poteri, con l’aiuto dei partiti reazionari e conservatori e con l’appoggio determinante degli Stati Uniti, si mise in marcia.
 
La restaurazione
 
Sul piano politico - istituzionale
 
Il 1947 vide la rottura dell’unità antifascista con la scissione dell’ala destra del partito socialista, pilotata da Giuseppe Saragat, che dette vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI). Fu anche l’anno della cacciata dal governo dei socialisti e dei comunisti. Nel gennaio Alcide De Gasperi aveva fatto un viaggio negli Stati Uniti e si possono facilmente immaginare le direttive che ricevette, condite con promesse di congrui aiuti economici. Tuttavia, motivi di prudenza (il comunista Umberto Terracini era stato eletto presidente dell’Assemblea costituente) devono averlo indotto a soprassedere: il suo terzo governo (varato il 2 febbraio) era formato da ministri democristiani (Scelba al ministero chiave dell’Interno) e ancora per poco da ministri comunisti e socialisti. Una tempestiva e provvidenziale crisi di governo (13 maggio) gli permise di portare a termine l’espulsione delle forze di sinistra. La nuova compagine ministeriale comprendeva, oltre a Saragat promosso per meriti di anticomunismo vice presidente, democristiani, repubblicani e liberali. Che si trattasse di una operazione anticomunista promossa dagli Stati Uniti lo dimostra la contemporanea epurazione dei comunisti dai governi dei paesi dell’Europa occidentale: Belgio e Francia.
 
Ma non bastava ancora: bisognava conquistare la maggioranza in Parlamento e ricacciare le sinistre all’opposizione. La campagna elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile 1948, alle quali socialisti e comunisti si presentarono uniti nel Fronte popolare, si svolse all’insegna di una massiccia e terroristica propaganda anticomunista, organizzata dalla DC e dagli altri partiti di destra con l’appoggio determinante del Vaticano, e della pesante ingerenza degli Stati Uniti.[xv] I risultati furono quelli previsti: la DC, sfiorando la maggioranza assoluta, conquistò il 48,5% dei voti, il Fronte popolare si arrestò al 31%.
 
Come passo ulteriore, occorreva colpire la classe operaia spezzando la sua organizzazione sindacale unitaria.
 
Il 14 luglio un neofascista attentò alla vita di Palmiro Togliatti ferendolo gravemente. Raccogliendo la spontanea rivolta popolare (i partigiani avevano dissotterrato le armi che non erano state consegnate agli alleati), ed anche nel tentativo di contenerla, la CGIL proclamò lo sciopero generale. Fu il pretesto colto dalle componenti cattolica e saragattiana, contrarie allo sciopero politico, per provocare una scissione nel sindacato unitario e per la creazione della CISL (sindacato cattolico) e della UIL (sindacato dei socialdemocratici e repubblicani).
 
Epurazione e amnistia
 
Per quanto riguarda l’epurazione dei fascisti e dei collaborazionisti, bisogna premettere che gli anglo-americani, che protrassero fino al 1946 l’occupazione militare dell’Italia, avevano non solo dato un sostegno decisivo ai gruppi monopolistici del grande capitale perché restaurassero le loro posizioni di potere, ma avevano posto un veto all’epurazione di capitalisti, di uomini politici e di militari corresponsabili del regime fascista.
 
Tanto per fare un esempio ricordiamo il caso dei padroni della Fiat e dall’amministratore delegato dell’azienda, ing. Valletta, responsabile del regime di controllo poliziesco finalizzato all’ intensificazione dello sfruttamento imposto dal regime fascista per la produzione in tempo di guerra. Dopo un lungo processo alla fine del quale venne condannato, Valletta, in seguito a trattative e a considerazioni opportunistiche sui suoi buoni rapporti con gli alleati statunitensi, venne non solo assolto ma reintegrato nella sua posizione di capo del personale.[xvi] Altrettanto accadde per gli altri capitalisti collaborazionisti del regime fascista che, per tutta riconoscenza verso gli operai che avevano salvato le loro fabbriche dalle distruzioni dei nazisti in fuga, cominciarono a limitarne le libertà conquistate, a sabotare l’attività delle commissioni di fabbrica e a perseguitare, isolare e perfino licenziare le avanguardie di lotta, con particolare accanimento contro i comunisti.
 
L’amnistia De Gasperi-Togliatti, emanata il 22 giugno 1946, fissava il limite della depenalizzazione al 31 luglio 1945. Togliatti, sottoposto alle critiche della base del suo partito ed in particolar modo della sua componente partigiana, spiegò che il provvedimento d’amnistia era stato:
 
“…. ispirato da due considerazioni fondamentali: si trattava prima di tutto di staccare il paese e alcune autorità di esso da quell’atmosfera di lotta, anzi di guerra civile cui erano ancora in gran parte ispirati i giudizi che venivano pronunciati in quei tempi”.[xvii]
 
La magistratura, come l’apparato amministrativo e burocratico dello Stato, non era stata neppure sfiorata dall’epurazione antifascista e nemmeno le leggi ereditate dallo Stato sabaudo e da quello fascista erano state abrogate, come avevano tentato di fare, con apposite disposizioni, mai applicate, i CLN, e quindi l’applicazione dell’amnistia da parte dei tribunali fu arbitraria e discriminatoria: ne beneficiarono i fascisti e ne furono penalizzati i partigiani. Le corti di giustizia agirono con inusitata velocità e dei circa 12.000 fascisti incarcerati alla fine del luglio ’47, 10.000 avevano conquistato la libertà.[xviii]
 
Ben diverso il comportamento delle corti nei confronti dei partigiani. Lo denuncia in reiterate occasioni Pietro Secchia nei suoi discorsi al Senato:
 
“Migliaia di cittadini, di partigiani, benemeriti della patria vengono arrestati, bastonati, insultati, colpiti nel loro onore e seviziati, portati a scavare le fosse [dove erano stati seppelliti i boia fascisti torturatori di partigiani condannati e giustiziati dai tribunali dei CLN, ndr.], fatti oggetto degli scherni e del ludibrio dei traditori risparmiati dalla generosità del nostro popolo; vengono trattenuti in carcere per mesi e mesi…”.[xix]
 
Forze armate
 
In seguito ad una rivendicazione del CLNAI (del 18 maggio 1945)[xx], alcune migliaia di partigiani furono immessi nell’esercito e nelle forze di polizia, ma ci rimasero per poco. Dopo la rottura dell’unità antifascista, essi vennero eliminati uno ad uno dai successivi governi De Gasperi- Scelba – Pacciardi.
 
Al contrario vennero reintegrati e promossi i capi di stato maggiore collusi con il fascismo. Con i poteri che erano stati loro conferiti, ristrutturarono il corpo degli ufficiali discriminando coloro che avevano combattuto nella resistenza e riabilitando i peggiori collaborazionisti. Seminando a piene mani nelle formazioni dell’esercito, dell’arma dei carabinieri e della polizia l’ideologia reazionaria, costruirono dei “corpi separati”: un esercito contro il popolo e non un esercito del popolo e per il popolo.
 
Sull’onda della restaurazione dell’ordine precedente, furono rimossi i prefetti con un passato di militanza nella Resistenza (ad esempio il prefetto Trailo. Contro la sua destituzione, Giancarlo Pajetta alla testa di un folto gruppo di operai e di partigiani occupò la Prefettura di Milano) e reintrodotti i vecchi prefetti e i questori con un curriculum di fedeltà al regime fascista.
 
Mario Scelba, noto per lo slogan popolare come “il ministro dell’Interno che spara sulla folla e prega il padre eterno”, illustra le caratteristiche della quintessenza dei corpi separati di polizia. La Celere:
 
“I reparti celeri sono una specie di cavalleria motorizzata della polizia […]. Un reparto a cavallo lanciato al galoppo contro una folla, se […] è deciso a passare senza preoccuparsi che qualcuno vada a finire tra le gambe dei cavalli, certamente passa. E così erano i reparti celeri; […] pochi poliziotti su delle jeep che vengono lanciate alla massima velocità e che potevano muoversi agilmente anche salendo sui marciapiedi. […]. La loro forza dipendeva dalla rapidità del movimento e dalla decisone con cui operavano per disperdere grandi masse popolari. […] Poi, trovandosi i poliziotti sulle jeep al di sopra delle teste dei dimostranti, il loro compito diventa più facile […], mentre trovandosi sulla jeep lanciata a grande velocità, obbligava la gente a disperdersi, quindi senza creare vittime, salvo che qualcuno andasse a finire sotto la jeep…”.[xxi]
 
Scelba, nella sua cinica e ipocrita apologia della sua creatura, che “non avrebbe fatto vittime”, mentiva dimenticandosi di dire che i celerini, oltre ai manganelli, disponevano di mitra e li usavano a volontà. Nel solo periodo dal giugno 1947 al gennaio 1951 il bilancio della guerra condotta dagli “scelbini” fu di 81 uccisi tra i dimostranti e di 8 uccisi tra le “forze dell’ordine”. Nenni chiamò le operazioni condotte dalla Celere e dai carabinieri “squadrismo di Stato” in quanto essi operavano al di fuori di ogni legalità.[xxii]
 
Le stragi in risposta alle lotte
 
La prima tragica conseguenza della collusione della Democrazie cristiana in Sicilia con gli agrari, la mafia, alcuni settori del separatismo e i servizi segreti statunitensi fu la strage di Portella delle Ginestre (1947). I contadini, che con le loro famiglie festeggiavano il 1° maggio furono falciati da raffiche di mitra e dal lancio di bombe a mano dalla banda di Salvatore Giuliano assoldato allo scopo. Gli uccisi furono 11 e i feriti 27.
 
In generale, quando fu rotta l’unità antifascista e la Democrazia cristiana venne definitivamente scelta dal Vaticano e dagli Stati uniti come baluardo contro il comunismo, le lotte operaie e contadine in difesa dei loro diritti e le lotte politiche in difesa della democrazia e della pace furono oggetto delle più efferate e premeditate violenze poliziesche.
 
Il tragico bilancio della guerra interna contro i proletari, condotta dalle forze di polizia riorganizzate e indottrinate ai fini della crociata anticomunista, è il seguente: dal gennaio 1948 al settembre 1954 nelle file dei proletari si ebbero in totale le seguenti perdite: 70 caduti; 5.104 feriti; 148.269 arrestati o fermati; 61.243 condannati; anni di carcere 20.426.[xxiii]
 
Il PCI, dal dopoguerra e per lunghi anni organizzò e diresse le lotte di massa: da quelle per la difesa dell’occupazione e per la riforma agraria a quelle contro il Patto Atlantico, contro la legge truffa, ecc., tuttavia era sempre più evidente la sproporzione tra l’alto livello di combattività e il prezzo di sangue pagato dalle masse e i deludenti risultati delle corrispondenti battaglie parlamentari.
 
Un esempio tra tutti. Dall’immediato dopoguerra il PCI e i PSI si posero il problema della soluzione dell’annosa e mai risolta questione meridionale. Dettero vita a forme organizzative e a piattaforme rivendicative unitarie che si concretizzarono in grandi mobilitazioni di braccianti e contadini per l’occupazione pacifica delle terre incolte. Si ricorderà, tra i tanti, l’eccidio di Melissa (30 ottobre 1949), sanguinosa risposta della polizia che lasciò sul terreno 2 morti e 15 feriti.
 
Nelle aule parlamentari che, bene o male, dovevano tener conto di queste lotte, i comunisti e i socialisti furono costretti a votare contro il progetto della Cassa del Mezzogiorno presentato dalla Democrazia cristiana (luglio 1950). Essi denunciarono i veri scopi di quella riforma che, da un lato favorivano i capitalisti monopolistici, i quali intravedevano nel progetto la possibilità di utilizzare i fondi ERP per estendere al Sud i loro mercati e, dall’altro lato favorivano la DC intenzionata a fare, come fece, della Cassa un centro di corruzione e un serbatoio di voti. Tutto ciò non aveva niente a che fare con una vera riforma agraria. Tuttavia, quando il disegno democristiano fu approvato dalla maggioranza, le sinistre indirizzarono la mobilitazione di massa e la battaglia parlamentare al controllo dei modi e dei tempi di applicazione della legge. Un ben misero risultato, rispetto alla strategia delle riforme di struttura di base che, secondo Sereni, avrebbero permesso di avanzare verso il socialismo!
 
L’insofferenza per l’opportunismo della direzione del PCI che incanalava le lotte di massa nell’imbuto stretto delle aule parlamentari, fece sì che, in determinate occasioni, la collera del popolo esplodesse, come accadde in risposta al già ricordato attentato a Togliatti e come accadde a Genova, nel luglio ’60 quando, per respingere il tentativo provocatorio del MSI di tenere il suo congresso nella città medaglia d’oro della Resistenza, i giovani dalle magliette a strisce, i portuali e i vecchi partigiani si unirono, disarmarono i celerini e furono per ore padroni della città.
 
In quei casi i dirigenti del PCI si adoperarono per spegnere quelle fiammate e la borghesia, per un attimo impaurita, li ringraziò per la loro responsabilità democratica.
 
Malgrado la direzione del partito nuovo fosse consapevole del disagio che si manifestava nelle riunioni di numerose istanze di base[xxiv] e in alcuni documenti della Conferenza di organizzazione del 1955 e si rendesse conto degli ostacoli insormontabili contro i quali si infrangeva la linea strategica della “via italiana al socialismo”, non ci fu alcun cambio di rotta. Il PCI confermò la sua linea che aveva trovato pieno riscontro in quella revisionista del XX e XXII Congresso del PCUS, nel suo VIII Congresso – come sopra ricordato – e in tutti quelli successivi, tra i quali abbiamo ricordato il X, per l’aperto dissidio con le posizioni del Partito comunista cinese.
 
Nel memoriale di Yalta, considerato il testamento politico di Togliatti, egli ribadisce il principio dell’autonomia di ciascun partito comunista, principio che difendeva da molto tempo, manifesta la sua preoccupazione per una definitiva rottura tra i due più importanti partiti comunisti del movimento internazionale e avanza proposte di incontri bilaterali e di convegni interpartitici per evitare una definitiva condanna delle posizioni del PCC da parte del PCUS e di altri partiti comunisti. Tuttavia, nella parte dedicata alla politica interna del PCI ricalca gli stessi concetti che abbiamo precedentemente illustrato.
 
2. L’inarrestabile discesa
 
Conseguentemente ai criteri già enunciati all’inizio di questo capitolo, in base ai quali ci siamo proposti di inquadrare il presente in una prospettiva storica o, in altri termini, di rispondere alla domanda “come è cominciato?” e per evidenti limiti di spazio, non è possibile analizzare dettagliatamente in questa sede le fasi dell’ulteriore involuzione revisionista del PCI. Fasi che lo hanno portato, passo dopo passo, ad abbandonare definitivamente, sul piano teorico i principi del marxismo leninismo e della loro elaborazione gramsciana. e a dilapidare il prezioso patrimonio dei suoi quadri, uomini e donne, forgiatisi nelle galere e nel confino, nella lotta clandestina contro il regime fascista e nella lotta armata partigiana, costretti e isteriliti nella camicia di forza della “via pacifica e parlamentare al socialismo”.
 
Quello che è possibile fare è evidenziare a grandi linee le tappe principali della inarrestabile discesa del PCI lungo la china del revisionismo.
 
Negli anni Settanta e Ottanta, sotto la direzione di Berlinguer, il PCI, in politica estera accentuò la linea nazionalista – già presente nella concezione togliattiana – affermando con maggior radicalità, anche nelle assise internazionali, il principio della “unità nella diversità” dei partiti comunisti, in sostanza rivendicando l’indipendenza dalla comunità degli Stati socialisti ed in particolar modo dall’URSS (il cosiddetto strappo). D’altra parte venne enfatizzato il ruolo della Comunità europea (e dell’eurocomunismo) mentre, nel quadro della coesistenza pacifica in chiave revisionista, cioè della competizione economica e della collaborazione tra Stati ad ordinamento politico diverso, si dette per scontata ed accettabile l’appartenenza dell’Italia alla NATO, il cui “ombrello protettivo”, secondo la definizione di Berlinguer, era garanzia di sicurezza.
 
In politica interna l’obiettivo perseguito dal partito nuovo di Togliatti che, pur mirando ad un patto politico con la Democrazie cristiana, lo aveva inquadrato in un’alleanza, antifascista e in difesa della democrazia, tra le tre grandi correnti popolari, socialista, comunista e cattolica, si tradusse esclusivamente nella proposta politica del “compromesso storico”, portata avanti attraverso incontri e trattative semi-segrete tra i vertici dei rispettivi partiti: Amendola per il Partito comunista, Craxi per quello socialista e Moro (con le famose “convergenze parallele”) per la Democrazia cristiana.
 
Più in generale, il PCI degli anni Settanta e Ottanta che, disdegnando i principi della teoria marxista e leninista sullo Stato, considerati obsoleti (la Rivoluzione d’Ottobre aveva esaurito la sua spinta progressiva, Berlinguer dixit), aveva pervicacemente continuato a perseguire il fine strategico di trasformare dall’interno lo Stato borghese, lasciandone intatte le sue strutture di potere, finì per “farsi Stato”. In nome della lotta al terrorismo, il PCI appoggiò i governi della borghesia, dapprima impedendone la caduta con la sua astensione e poi partecipando alla maggioranze parlamentari di “solidarietà nazionale”. Contribuì con “la sua poco convinta opposizione”[xxv] all’approvazione della legge Reale del 1975 e addirittura non fece mancare il suo voto favorevole alla successiva “legislazione di emergenza” peggiorativa perfino del codice fascista Rocco.
 
Sul terreno pratico della lotta di classe che montava impetuosa in tutto il paese dalle fabbriche e dalla società, in un primo tempo (’68 e ’69) ne restò ai margini ed in seguito si schierò contro e condannò non solo la lotta armata, ma ogni forma di lotta dura e di autodifesa del proletariato, qualificando i picchetti e i cortei interni contro i crumiri, la resistenza agli sfratti, le occupazioni di case e scuole e i blocchi stradali, come estremisti ed estranei al movimento operaio.
 
In questo modo il PCI, segnando una cesura incolmabile con le sue gloriose origini, si separò definitivamente dai bisogni e dalle lotte delle classi lavoratrici perdendo quel contatto con le grandi masse proletarie che – parafrasando Stalin – rendono invincibile un partito comunista.
 
3. L’inevitabile punto di arrivo
 
Non restava che un altro passo da compiere: dall’opportunismo (collaborazione piena con la borghesia) al liquidazionismo.
 
Vi provvide l’ultimo segretario del PCI, Achille Occhetto, appoggiato dalla corrente “migliorista” (di cui faceva parte l’attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano) che avviò un lungo e “sofferto” dibattito interno sui destini del partito, culminato con il XX (numero fatale) Congresso svoltosi a Rimini nel febbraio 1991, nel corso del quale venne steso l’atto di morte del PCI e dato avvio alla sua mutazione genetica nel Partito Democratico della Sinistra (PDS). Il PDS, all’insegna della quercia, si liberava formalmente dei simboli e degli ideali che nei fatti aveva ripudiato da un pezzo.
 
Ma non bastava ancora: bisognava buttare alle ortiche ance il fastidioso nome di partito. Vi provvide Massimo D’Alema durante gli “Stati generali della sinistra” tenutisi a Firenze (12-14 febbraio 1998), sul tema “Sinistra del 2000”, creando l’organizzazione dei Democratici di sinistra (DS) che comprendeva, oltre al PDS, altre piccole formazioni di sinistra.
 
Quest’ultima operazione permise al suo principale protagonista di realizzare il vecchio sogno della partecipazione al governo, non proprio del partito della classe operaia, ma di una delle sue metamorfosi.
 
Ancora di più: Massimo D’Alema fu presidente del Consiglio (vediamo a che prezzo) di un governo, succeduto a quello guidato da Prodi che non aveva ottenuto la fiducia della Camera, e costituito il 22 ottobre 1998 al termine delle consultazioni del presidente della Repubblica Scalfaro. Questo governo:
 
“…sostenuto da una propria maggioranza parlamentare, ancorché formata da una coalizione […] diversa da quella formatasi con le elezioni del 1996 consentì di assolvere con dignità i propri compiti nell’Alleanza [Atlantica, Nato, ndr] di fronte all’immediatezza di un conflitto che di necessità avrebbe visto l’Italia nel ruolo di protagonista. Sono testimone all’on. D’Alema di aver mantenuto i propri impegni con scrupolo e determinazione…”.[xxvi]
 
Ma quali erano i compiti che l’Italia doveva assolvere nel quadro della Nato?
Lo “svelò” nei dettagli il colonnello Latorre nel corso di una cerimonia di “ringraziamento” davanti ai militari del VI stormo e alle loro famiglie:
 
“… da Ghedi [BS] sono arrivati in Puglia [Gioia del Colle] 85 uomini, 12 velivoli e 12 laser pod. Il rischieramento ha consentito di effettuare 418 ore di volo, che si traducono in 172 sortite: 6 di ricognizione e 166 di attacchi veri e propri, sferrati contro obiettivi selezionati di tipo prettamente militare: depositi di munizioni, caserme, aeroporti. V’è inoltre da specificare che per gli attacchi, sono state utilizzate bombe a puntamento laser e a caduta libera”.[xxvii]
 
Il colonnello, naturalmente, non dà conto dei cosiddetti “effetti collaterali”.
Ma diamo la parola direttamente al guerriero:
 
“Vorrei ricordare che quanto a impegno nelle operazioni militari noi siamo stati, nei 78 giorni del conflitto, il terzo Paese, dopo gli USA e la Francia, e prima della Gran Bretagna. In quanto ai tedeschi, hanno fatto molta politica ma il loro sforzo militare non è paragonabile al nostro: parlo non solo delle basi che ovviamente abbiamo messo a disposizione, ma anche dei nostri 52 aerei, delle nostre navi. L’Italia si trovava veramente in prima linea.” On. Massimo D’Alema.[xxviii]
 
In barba all’art. 11 della tanto osannata Costituzione!
 
4. Walter Veltroni, ovvero, la rovinosa caduta nel pantano del revisionismo
 
Il Partito democratico (PD), creatura dell’ex super-sindaco di Roma, ha perduto l’aggettivo di socialista ma in compenso ha recuperato il nome di partito.
 
Veltroni lo definisce in molti modi rivendicandone la originalità: “non era mai successo, in Italia e nemmeno in Europa, che un grande partito nascesse in questo modo: dal basso e non dall’alto, e da una così vasta partecipazione popolare”, “un partito strutturato più a rete che a piramide”, “un partito che costruisca una democrazia meno pesante e meno invadente, più lieve e più veloce”.
 
Anche immerso in tanta “leggerezza” Veltroni, personalmente, preferisce chiamarsi fuori “dai vecchi schemi che saranno superati con naturalezza”.
 
“Io qui oggi – dice al Lingotto di Torino – parlo non da uomo di partito e neanche da uomo di parte. Parlo da italiano. Da persona che ama il suo Paese e pensa che il destino dell’Italia venga davvero prima di ogni altra regione o considerazione particolare”.
 
Tuttavia, in un’altra occasione dà del PD una definizione più impegnativa, in una prospettiva, si fa per dire, storica:
 
“Il Partito democratico che nasce dalla confluenza di grandi storie politiche, culturali, umane. Che nasce avendo dentro di sé l’eredità di quelle formazioni che hanno restituito la libertà agli italiani, di quelle donne e di quegli uomini che hanno pagato con il carcere e con la propria vita il sogno di dare agli altri la libertà perduta. Quelle formazioni che hanno fatto crescere l’Italia e gli italiani, che hanno portato il nostro Paese a trasformarsi da una comunità sconfitta a una delle nazioni che siedono a pieno titolo al tavolo dei grandi della Terra […]. Quelle formazioni che hanno combattuto il terrorismo e l’hanno sconfitto”.
 
Tanta reticenza nel definire “quelle formazioni” e la stupefacente sintesi di oltre mezzo secolo di storia italiana si spiega nella seguente dichiarazione:
 
“Ciò di cui l’Italia ha bisogno è un partito del nuovo millennio. Una forza del cambiamento, libera da ideologismi, libera dall’obbligo di apparire, di volta in volta, moderata o estremista per legittimare o cancellare la propria storia”.
 
Questo trionfo di qualunquismo in campo ideologico, si intreccia con l’espressione di un forte nazionalismo patriottardo, che non manca, in tema di politica estera e di deferenza verso l’“amico” americano di far sentire qualche squillo di tromba.
 
“L’Italia deve poter disporre di uno strumento militare che le consenta, in coerenza con […] l’art.11 della Costituzione [D’Alema docet, ndr], di assicurare un’adeguata difesa del territorio nazionale; di svolgere da protagonista il ruolo che le compete nelle alleanze internazionali […]. La lotta al terrorismo resta un’esigenza essenziale da affrontare tramite le missioni internazionali […]. L’Italia deve confermare il suo impegno nella missione in Afghanistan, decisiva per vincere la guerra al terrorismo jihadista e nella riflessione strategica sul Medio Oriente e sulle crisi dell’area, tragicamente aggravate dall’errore compiuto dall’Amministrazione Bush con la guerra in Iraq”.
 
È la concessione di Veltroni agli “obblighi” dell’Italia verso la Nato a cui anche lui non può sottrarsi, mentre la “morbida” critica a Bush lascia intravedere l’auspicio di un nuovo rapporto con Barak Obama, anche lui impegnato per “il cambiamento e il progresso”.
 
L’amicizia con gli Stati Uniti, secondo Veltroni, deve essere rafforzata allo scopo di “costruire uno spazio comune transatlantico in campo economico […] per il governo della globalizzazione e della liberalizzazione e [che] diminuisca il rischio di crescenti protezionismi. Europa e USA assieme rendono tutto più facile e possibile…”
 
Prospettiva che cozza con le misure a cui, nel momento attuale, ricorrono i governi europei e quello statunitense nell’affannoso e vano tentativo di tamponare la crisi generale del capitale.
 
Il campo in cui il nostro supera se stesso è quello concernente il rapporto tra le classi sociali. Veltroni non solo è contrario alla lotta di classe che chiama “odio”, (borghesia e classe operaia sono per lui termini impronunciabili) ma è per la pacificazione tra le classi opposte, concezione che ovviamente non si traduce in mero interclassismo, ma nel far pendere la bilancia da una parte sola: a favore della classe capitalista.
 
“In Italia due - tremila imprese di medie dimensioni (ciascuna delle quali è al centro di una costellazione di decine, talvolta di centinaia di imprese più piccole) si sono ristrutturate, hanno tirato la cinghia, hanno sofferto, hanno innovato prodotti e processi, si sono internazionalizzate; e ora si sono riproposte da leader nell’economia globale. È merito loro se nel 2007 le nostre esportazioni, in valore, sono tornate finalmente a crescere. Quando si dice “imprese” si dice lavoratori e imprenditori insieme”.
 
Salari e profitti sono anch’essi termini sconosciuti per Veltroni! Tuttavia la sua ammirazione per le imprese piccole e medie si estende anche alle grandi e grandissime, come non manca di esternare facendo il panegirico dell’amministratore delegato dell’impresa italiana per antonomasia, la FIAT, Sergio Marchionne.
 
Costui, secondo Veltroni, non dimentica l’apporto degli operai al buon funzionamento della baracca, tanto da anticipar loro 30 (trenta) euro mensili sull’aumento contrattuale. Per carità, senza con questo gesto voler sabotare la contrattazione nazionale!
 
In materia di evasione fiscale Veltroni si muove sulla stessa linea della giustizia super partes, bacchetta i lavoratori del pubblico impiego, anticipando la crociata del ministro Brunetta contro i “fannulloni”.
 
“Non è con gli odi di classe che si sconfigge l’evasione […]. Da questa consapevolezza faccio derivare un impegno preciso: io penso ad un Partito democratico che in tema di lotta all’evasione fiscale bandisca dalla sua cultura politica ogni pregiudizio classista, considerando altrettanto esecrabili quell’imprenditore che evade, quel pubblico dipendente che percepisce lo stipendio e non fa quello che dovrebbe e chi offre lavoro nero”.
 
Ed infine perché non riconoscere l’utilità del capitale finanziario?
 
“… non c’è dubbio che oggi esista un grave squilibrio tra pressione [fiscale] sulla rendita da un lato e pressione sul lavoro e sull’impresa dall’altro. Anche in questo caso vorrei bandire ogni equivoco: un ben funzionante mercato finanziario è una delle condizioni dello sviluppo: e il mercato finanziario funziona bene se è aperto. E, per aprirsi, non può sopportare forme di prelievo fiscale sulle rendite incompatibili con quelle prevalenti nell’area economico-finanziaria e monetaria di riferimento”. Qui Veltroni supera a destra il ministro Tremonti con la sua (peraltro puramente demagogica) Robin Hood Tax.
 
I lettori perdoneranno se abbiamo abbondato con le citazioni, ma ci è sembrato che nessuna sintesi o parafrasi avrebbe potuto rendere giustizia al pensiero veltroniano e dare la esatta misura della miseria intellettuale e morale in cui è affondato l’erede del PCI che, anche se oggi dice di non essere mai stato comunista (e se intende dire di non aver mai creduto negli ideali comunisti, dice una verità), ha nel passato ricoperto cariche direttive nella Federazione giovanile del partito, è stato membro del Comitato centrale, deputato del PCI e direttore dell’Unità, giornale fondato da Antonio Gramsci.
 
Terminiamo con una breve rassegna di alcuni punti del programma del PD.
 
A onor del vero, non è che Veltroni non si occupi dei lavoratori. Lo fa, per quanto riguarda i lavoratori precari, proponendo “una sperimentazione di un compenso minimo legale fissato in via tripartita (parti sociali, governo) per i collaboratori economici dipendenti (con l’obiettivo di raggiungere 1000/1100 euro mensili)” È quella che Veltroni chiama flexisicutity.
 
Poiché ritiene che “imprenditori e lavoratori sono legati da un ‘comune destino’” propone “la partecipazione finanziaria con l’azionariato dei dipendenti e un più forte ruolo dei fondi pensione […]. La presenza dei rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio di Sorveglianza. […] Un legame diretto tra componenti della retribuzione dei lavoratori e utili di impresa (al di là della contrattazione di secondo livello fondata sulla produttività)”.
 
Ma non è proprio quello che vuole la Confindustria e gli altri affossatori della contrattazione nazionale?
 
Sorvoliamo sul “patto generazionale”, che è in sostanza un tentativo di mettere i giovani contro i vecchi che hanno il torto di vivere troppo a lungo e sull’appello alle donne perché tornino a lavorare (come se la disoccupazione femminile dipendesse da loro) e sulle promesse di improbabili servizi sociali e orari lunghi, che sa benissimo che nessun governo borghese attuerà.
 
Terminiamo con il punto di vista veltroniano sulla sicurezza, tema dominante nei rapporti sociali, nelle politiche governative e nella “pubblica opinione” creata ad arte dal monopolio mediatico di Berlusconi & C.
 
La sicurezza sul lavoro si risolve, secondo Veltroni con premi, incentivi e facilitazioni per le imprese che “investono” in sicurezza. Pene: neanche parlarne.
 
“…La sicurezza è un diritto fondamentale che non ha colore politico, che non è né di destra né si sinistra.[…]. Avendo ben presente il presupposto: integrazione e legalità, multiculturalità e sicurezza vivono insieme. […] Chi viene da lontano per scappare dalla fame e dalla guerra non può che essere almeno accolto da un Occidente egoista e avido. Ma per chi ruba ai cittadini quel bene prezioso che è la serenità c’è solo una risposta, ed è la severità e la fermezza… Chi viene qui per fare male agli altri o per sfruttare donne o bambini deve essere assicurato alla giustizia, senza se e senza ma”.
 
A proposito della giustizia “senza se e senza ma” che egli invoca soltanto per gli ultimi della società, abbiamo assistito alle sue reazioni dopo l’omicidio della signora Reggiani per mano di un immigrato romeno. In quella occasione il “mite” Walter, tirò fuori gli artigli e si precipitò a palazzo Chigi dove il Consiglio dei ministri dell’ormai agonizzante governo Prodi stava confezionando il “pacchetto sicurezza” pretendendo che vi fossero inserite norme più severe. Come se non bastasse ordinò una rappresaglia razzista, contro tutti gli accampamenti rom della capitale, abusivi e non, che furono prontamente sgomberati dalle forze di polizia nei giorni immediatamente seguenti.
 
Alle elezioni politiche del 13-14 aprile 2008 il PD ha deciso di “correre da solo”, rifiutando l’alleanza con i partiti della cosiddetta sinistra radicale da cui ha preso le distanze. Le liste elettorali che Veltroni ha presentato rispecchiano la filosofia del suo programma. Coerentemente con il la priorità del “problema sicurezza”, ha candidato Luigi De Sena, ex vice capo della polizia, Achille Serra già parlamentare di Forza Italia e già prefetto di Roma. Coerentemente con il suo “patto tra produttori”, ha candidato Colaninno, giovane leone della Confindustria, Massimo Calearo presidente della Federmeccanica, che non nasconde le sue posizioni reazionarie, accanto a sindacalisti come Nerozzi. Ma la cinica mossa di Veltroni che ha superato ogni limite di decenza è


stata la strumentalizzazione della tragedia della ThyssenKrupp con la candidatura di Antonio Boccuzzi, operaio scampato per miracolo alla sorte dei suoi compagni di lavoro.
 
Il PD non ha vinto, come sperava, le elezioni, ma ha creato un “governo ombra” con il quale conduce un’opposizione di sua maestà contro la coalizione vincente di Berlusconi, Fini e Bossi. Lo fa “senza odio e veleni” e senza incidere minimamente sulla politica dei suoi “avversari” che, forti di “avere i numeri”, procedono senza esitazioni, a colpi di decreti legge e col ricorso al voto di fiducia, nella demolizione sistematica di quel poco che resta delle conquiste dei lavoratori e delle strutture dello Stato sociale e nell’emanazione di sempre più pesanti misure repressive. La speranza di Veltroni resta quella di trovare a qualsiasi prezzo un accordo con il governo sulla riforma della legge elettorale che permetta l’instaurazione di un governo “che decida”, cioè il rafforzamento della dittatura della borghesia, mascherata da democrazia.
 
C’è solo da augurarsi che quella del PD sia l’ultima tappa della caduta verticale del fu PCI nel pantano del revisionismo e che dalle sue acque maleodoranti non emerga, dopo il Kautsky in sedicesimo, un Noske in sedicesimo.
 
(Estratto dal saggio introduttivo di Adriana Chiaia a La (ir)resistibile ascesa al potere di Hitler di Kurt Gossweiler, Zambon editore)
 
 


[i] Gerardo Chiaromonte, “Riforme di struttura e direzione politica del paese” in Storia, politica, organizzazione nella lotta dei comunisti italiani per un nuovo blocco storico, Critica marxista, quaderni - n.5, Roma, 1972, p. 43.
[ii] Le precedenti citazioni sono tratte da Paolo Spriano, Storia del Partito comunsta italiano. La Resistenza, Togliati e il partito nuovo, vol.V. Einaudi, Torino, 1975, pp. 319-320.
[iii] Ibidem, p. 389.
[iv] Ibidem, p. 388.
[v] Ibidem, p. 392.
[vi] Ibidem, p. 393.
[vii] Ibidem, p. 397.
[viii] Per maggiori dettagli, vedi op. cit., pp. 398-403 da cui sono tratte le precedenti informazioni.
[ix] Palmiro Togliatti, “Contro il dogmatismo per una politica marxista”, in Rinascita, 31 agosto 1963, citato in Critica marxista, p. 28.
[x] Emilio Sereni, “Antifascismo, riforme, programmazione” in Critica marxista, n. 2, 1971.
[xi] Lenin, “Stato e rivoluzione”, Opere complete, vol. 25, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 416-417.
[xii] Giorgio Amendola, Relazione al Convegno dell’Istituto Gramsci sulle Tendenze del capitalismo italiano nel 1962, citato in Critica Marxista op.cit., p 36.
[xiii] IV Conferenza nazionale del Partito Comunista Italiano, Edizioni di cultura sociale, Roma, 1955, p.54.
[xiv] Palmiro Togliatti citato in: Pietro Secchia, “I corpi armati dello Stato dopo la Liberazione”, Critica marxista, quaderni – n. 5, op.cit., p.185.
[xv] vedi Leonardo Sciascia, “La zia d’America” in Gli zii di Sicilia, Einaudi, Torino, 1978.
[xvi] vedi Liliana Lanzardo “Ricostruzione ed epurazione” in Classe operaia e Partito comunista alla FIAT, Einaudi, Torino, 1971, p. 95 e seguenti.
[xvii] Palmiro Togliatti, “Atti parlamentari (seduta del 25 febbraio 1949)” citato in: Cesare Bermani, Il nemico interno, ODRADEK edizioni, Roma, 1997, pp. 66-67.
[xviii] vedi op.cit. p.114.
[xix] Pietro Secchia, Discorso al Senato della Repubblica, 28 ottobre 1949 in La resistenza accusa, 1945-1973, Gabriele Mazzotta editore, Milano, 1974, p. 75.
[xx] vedi Critica marxista, quaderni – n. 5, op.cit., p.178.
[xxi] Cesare Bermani, Il nemico interno, op.cit. p. 289.
[xxii] vedi Cesare Bermani, Il nemico interno, op.cit. p. 289.
[xxiii] vedi Cesare Bermani, Il nemico interno, op.cit. pp. 290-293
[xxiv] vedi Ernesto Ragionieri,“Il Partito comunista italiano nella Resistenza: la nascita del ‘partito nuovo’”in La Terza Internazionale e il Partito comunista italiano, Einaudi, 1978, p. 398 e seguenti.
[xxv] vedi Adriana Chiaia (a cura di), Il proletariato non si è pentito, Giuseppe Maj editore, Milano, 1984, p. 281-282.
[xxvi] da una lettera di Carlo Scognamiglio (Udr), ex ministro alla Difesa del governo D’Alema, al Corriere della Sera,7 giugno 2001, http://www.corriere.it.
[xxvii] Dal Giornale di Brescia, sabato 10 luglio 1999.
[xxviii] per approfondimenti sull’intera vicenda del governo D’Alema, creato apposta per rispettare gli impegni Nato, vedi Promemoria:D’Alema va alla guerra DOSSIER a cura di Gruppo Zastava Trieste animperialismo-internazionalismo-slidarietà, http://www.arcipelago.org/storie%20italiane/dalema_jugo.htm.
 

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