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Lo spazio del riformismo è finito, ma quasi nessuno se ne è ancora accorto

Enzo Pellegrin

17/11/2014

I prodotti della Storia

Mentre le pale e gli uomini della protezione civile scavano nel fango Ligure e si contano le ennesime vittime di una stagione delle piogge che sgretola il Paese e le coscienze, l'UE fa sapere al governo italiano che sarà probabilmente necessaria una manovra aggiuntiva di 14 miliardi per raggiungere gli obiettivi di riduzione del debito a medio termine del 2015.

Come ognun sa, nonostante l'enorme impatto delle manovre di austerità imposte dai Governi Monti-Letta-Renzi (quest'ultimo - come il primo -  neppure legittimato da suffragio elettorale) non si sono avuti effetti sulla riduzione del debito pubblico. La ragione non sta - come spesso propagandato -  nei soli supposti e reali sprechi di un'incontrollabile spesa pubblica o di una corruzione dilagante od ancora di una incontrollata e defiscalizzata economia sommersa. Per quanto questo tipo di dati possano fornire conoscenze discutibili dal punto di vista scientifico e statistico, un noto rapporto di Visa Europa, a settembre 2014, stima che l'economia sommersa dell'unico paese europeo in crescita fino a poco tempo fa, la Germania, si aggirava nel 2012 sui 351 miliardi di Euro, 20 miliardi in più di quella stimata per l'Italia. Su tale quantitativo, l'impatto presunto della corruzione si sarebbe attestato, sempre per il 2012 ben a 250 miliardi di Euro, ponendo un paese senza problemi economici ai primi posti nella classifica della corruzione europea.

La ragione reale e nota dell'aumento del debito pubblico, indifferente ad ogni sacrificio di austerità, risiede nell'enorme spesa per interessi. Come evidenzia un noto articolo di Domenico Moro, la spesa per interessi "crebbe in Italia dall'8% del Pil nel 1984 all'11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d'Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell'eurozona dal 3,5% al 4,4%. Nel 1993 il divario tra i tassi d'interesse fu addirittura triplo, il 13% in Italia contro il 4,4% della zona euro e il 4,3% della Ue"(1).

Le ragioni dell'aumento della spesa per interessi sono diverse, ma in ultima analisi sono tutte in relazione con l'andamento del mercato finanziario dei titoli sovrani, dove a dominare è sicuramente la potenza economica dei prestatori, ormai in gran parte concentrati nei monopoli finanziari internazionali. Certo, alla base, vi sono le scelte dei governi. E' altrettanto noto che lo schizzare in alto dei tassi di interesse viene fatto risalire al famoso "divorzio" tra Bankitalia e Ministero del Tesoro del 1981, laddove fu imposta la terzietà della banca centrale eliminando la possibilità per il Ministero del Tesoro (e quindi per lo Stato) di ordinare alla Banca Centrale il riacquisto dei titoli invenduti alle aste del debito pubblico. Tale pratica evitava la speculazione internazionale sul debito sovrano oltre certi limiti, anche se - nell'ottica dei capitalisti - costringeva all'emissione di moneta nuova per effettuare l'acquisto, generava un andamento inflattivo che si riversava direttamente sull'aumento dei salari reali e del costo del lavoro, per il noto meccanismo della scala mobile. Il costo degli interessi schizzò in alto, generando quel disequilibrio della finanza pubblica che fu il grimaldello per il taglio della spesa, l'eliminazione della scala mobile con la diminuzione dei salari reali.  L'eliminazione di una importante componente del mercato finanziario, quale era la Banca Centrale, in grado di calmierare pubblicamente la speculazione col proprio potere di acquisto, espose il portafoglio sovrano ed i suoi interessi alla speculazione internazionale. Ancor oggi quel disequilibrio, perpetuatosi in modo indifferente rispetto alle manovre di austerità, costituisce la scusa, nelle gabbie normative dei rapporti con l'UE, l'Euro e la BCE, per pretendere nuovi tagli alle spese, nuovi esborsi e riforme che precipitano i rapporti di lavoro dei proletari sempre più verso il baratro della schiavitù.

Il rapporto della UE invero sottolinea "la necessità che si proceda con i tagli alla spesa, esprime dubbi sulla richiesta dei ministeri di tagliarsi le spese da sé, elenca una per una le privatizzazioni saltate quest'anno: la vendita del 5% di Enel (curiosamente il rapporto non cita Eni), del 40% di Enav e Poste, la «poco significativa» partita di giro sulle quote di Sace a Cassa depositi e prestiti. Il documento sottolinea il mancato taglio delle agevolazioni fiscali, elenca i vantaggi della promessa riforma del mercato del lavoro, il cui giudizio è però rinviato ai decreti attuativi. La riforma della scuola è un ottimo proposito, ma «richiede un impegno duraturo»." (2)

Ancora una volta la regolazione degli interessi economici è una direzione imposta da chi, nella società, è in grado di imporre le scelte più conformi alla propria posizione egemonica, ai propri interessi, per mezzo dell'egemonia culturale e politica sulla struttura delle repubbliche democratiche.

Di fronte a questa cruda realtà di funzionamento del sistema capitalistico, l'abitante della penisola sperimenta sempre più sulla propria pelle e coscienza le sue contraddizioni insanabili e l'inadeguatezza di tutti quegli atteggiamenti politici che non affrontano la questione fondamentale del suo rovesciamento, rifugiandosi e trincerandosi dietro l'ennesimo tentativo di sostituire la politica "buona" a quella "cattiva". Il fango delle alluvioni, così come il disagio delle periferie, la disoccupazione e la preparazione dei licenziamenti di massa sotto l'illusione delle "riforme per la crescita" (una crescita che non giunge e non giungerà mai) gridano ormai una sola evidenza: non esiste un capitalismo buono, e un "neoliberismo" cattivo, non ci sono alla base della crisi imprenditori non capiti, protetti od aiutati (con le risorse di chi?) e solamente politici incapaci o corrotti. Esiste il capitalismo e funziona così: l'orrore, la miseria e la morte che discendono dal suo funzionamento sono legati alla sua fenomenologia ordinaria, al suo divenire come potere dei pochi che concentrano su di loro le fondamentali leve economiche e costruiscono un mondo ad uso e consumo dei loro profitti.

Le periodiche grandi precipitazioni che colpiscono la penisola nel solito periodo di novembre non sono certo una novità, nonostante la disinformazione dei media di regime sparsa a piene mani. L'acqua assassina autunnale è un disastro tipico contro il quale una comunità dovrebbe approntare difese sistemiche, come contro le epidemie, il rischio sismico od altri caratteristici rischi ambientali od umani. Il fatto che ciò non avvenga dimostra inequivocabilmente come ciò sia il prodotto storico del funzionamento dell'economia capitalistica. La Liguria ed il ricco Nord Italia piegati dall'acqua che invade le case è fenomeno non molto differente dallo sviluppo di epidemie incontrollabili nei paesi africani. Il politologo americano Agosto H. Nimtz ricorda come "Negli ultimi decenni, in nome della lotta contro la spesa pubblica, gli sprechi e la corruzione, le agenzie internazionali di prestito, come il Fondo monetario internazionale, hanno richiesto, come condizione per ottenere nuovi finanziamenti, che  i governi africani riducessero le loro spese. Le élite africane hanno volontariamente accettato di farlo con i tagli imposti al settore sanitario e all'istruzione, contribuendo a creare la tempesta perfetta per il virus Ebola." (3)

Nel medesimo modo, il territorio italiano si sgretola per l'incuria del territorio, l'edificazione selvaggia per l'incasso degli oneri urbanistici, l'assenza cronica di investimenti nella manutenzione e nell'aggiornamento dei canali di sfogo delle acque. Colpa solo della solita endemica corruzione? Certamente no o non solo. Anche l'alluvione è un prodotto della storia, non solo un fenomeno naturale. E' un prodotto della subordinazione degli interessi primari dell'uomo a quelli economici dell'uomo capitalista. Non occorre essere corrotti per determinare questa direzione, basta agire da operatore economico nell'ambito di questo sistema, garantito dalla legalità vigente. Non stupisce dunque come, di fronte al disastro, la Liguria attenda ancora dal Governo la proclamazione dello stato di emergenza, mentre si inviano ministri solo per "promettere" una parziale deroga alla legge di stabilità che ingessa agli interessi del debito anche le finanze locali. Anche per il capitalismo è venuto il tempo di privilegiare i suoi più forti interessi: così accade che gli interessi degli edificatori o dei signori degli appalti soccombano di fronte a quelli più potenti dei monopoli finanziari che drenano a proprio favore, col grimaldello del debito, le ricchezze del paese.

Non è novità come, da lungo tempo, le risorse economiche del paese vengono drenate altrove, lontano dagli ulivi di Leivi, dalle strade genovesi, dalle fragili colline del savonese, in funzione di interessi diversi da quelli ormai dell'intera comunità, ma funzionali agli interessi di queste ristrette elitès che presiedono l'egemonia economica, accompagnate dalla composizione variabile di quegli individui che di volta in volta, cambiando numero, specie e connotazione politica, diventano loro serventi.

Non presenta differente fisionomia nemmeno il fenomeno delle rivolte delle periferie romane. Il fenomeno dell'immigrazione e dei sui effetti sulla popolazione del Paese è anch'esso prodotto politico. I vari governi di centro destra si sono limitati ad un'impostazione populistica, privilegiando norme bandiera come il reato di clandestinità che infognava i tribunali italiani con inutili ed inefficaci processi per direttissima, mai sostanzialmente ed in realtà controllando i flussi migratori. In questo modo, più che controllare e diminuire la clandestinità la si aumentava, venendo incontro così agli interessi di chi sfruttava tale condizione di ricattabilità e pseudoschiavitù. I governi di centro sinistra ed i loro supporter più radicali si sono invece ancorati ad un propagandato progressismo e pauperismo vestito dalla tutela di diritti individuali tipicamente borghesi, svincolati da una visione di classe e dai reali meccanismi economici che sono alla base di questo fenomeno. Strizzando l'occhio all'ipocrisia religiosa, si è sostituito il termine di immigrati a quello di "migranti", come se lasciare il proprio paese in condizioni di fortuna rispondesse all'esercizio di un romantico diritto di circolare per il mondo e non alla mera costrizione di lasciare condizioni di povertà create dagli stessi capitalisti occidentali, condizioni di povertà che lo stesso capitale si prepara a sfruttare sotto diversa forma una volta che il "migrante" attraversa il mare e giunge sul suolo della "libertà".

Si è dimenticato che il capitale, laddove è infastidito da lavoratori che  - come in Europa - detengono o detenevano  un patrimonio di forza politica e diritti, favorisce l'afflusso indiscriminato di altri lavoratori che, nei loro paesi africani, vivono in condizioni così terribili da accettare una schiavitù europea un po' più rosea. La rivoluzione industriale inglese e la chiusura degli "open fields", i campi comuni, per riversare milioni di contadini nella schiavitù industriale poco ha insegnato alle nostre anime belle del pauperismo radical-chic. Hanno dimenticato, se mai lo avevano imparato, come e perchè il capitale costruisce il suo esercito industriale di riserva. Si sono concentrati nella mistica del diritto naturale, dimenticando quali conseguenze poteva avere tale pianificata concorrenza tra poveri. Le efficaci immagini odierne ci restituiscono i sindaci di centrosinistra eroi di questo "gauchisme" dorato contestati dalle fasce popolari - in rivolta nelle periferie, nel fango delle alluvioni, nella rabbiosa povertà dei licenziamenti e della disoccupazione - che proclamano di voler difendere nei loro salotti o nei foyer dei teatri d'opera, mentre il malcontento popolare viene drenato dal qualunquismo e dal fascismo, cosa che accade ogniqualvolta si abbandona la prospettiva di classe.

Accanto al capitale, vi è un'altro grande colpevole dell'odierna barabarie. L'inadeguatezza delle prospettive politiche di chi solleva le contraddizioni e traccia una falsa via di uscita da esse. Di fianco agli orrori del capitale stanno in buona compagnia la miseria del riformismo da una parte e dell'antagonismo qualunquista dall'altra.
La gran parte del pensiero oppositore individua pur a grandi linee le contraddizioni dell'essere, ma è solito imputarle ad un "deficit di democrazia" che assalirebbe le istituzioni democratiche e rappresentative, il quale consentirebbe l'affrancamento da un serio controllo popolare e lo sviluppo di un "cancro della corruzione e del conflitto di interessi", vero motore delle asserite "decisioni sbagliate" della politica.
Il dato significativo per cui tale andamento politico si sia verificato nonostante le varie e profonde mutazioni nel colore e nel contenuto della direzione politica del paese dovrebbe aprire una finestrella di razionalità.

Miseria del riformismo

I risultati elettorali hanno permesso di installare alla guida dell'Italia, soprattutto nell'ultimo periodo politico, governi di diversissima composizione e colore: dai governi formati col chiaro appoggio di una destra finanziaria esplicitamente dichiaratasi tale, a governi di destra o sinistra populista, a governi ancora definiti "di progresso" e appoggiati e condivisi da quella sinistra che gode nel definirsi "antagonista o radicale", oggi ormai parcellizzata nei mille movimenti acefali in  giro per i diversi cortei e nelle briciole di passate strutture politiche.

Nonostante questo empirico variare delle vele, la barra degli interessi che ha guidato le scelte della comunità-paese è rimasta sempre ben dritta, come dimostrano le precise scelte in materia di finanza pubblica, politica del lavoro, "liberalizzazione" del mercato economico, pressione fiscale elevata sui ceti popolari e soprattutto sulla piccola borghesia dei lavoratori autonomi, presi spesso come comodo capro espiatorio fiscale, utili a mascherare la manovra dei reali interessi in gioco.

Fu così che, ad esempio, il divorzio tra Banca Centrale e Ministero del Tesoro venne promosso non nell'ambito di una politica destrorsa, ma a tutela della difesa dall'inflazione, argomento cui i ceti popolari sono sempre stati sensibilizzati a comodo nella direzione degli interessi del capitale. Ci si accorse poi che la politica inflattiva determinata dall'aumento di moneta non tanto sfavoriva i ceti popolari (i quali mantenevano il potere reale dei loro salari, garantiti dai meccanismi automatici) ma i ceti proprietari dei mezzi di produzione e dei mezzi finanziari.

Fu sempre così che la normalizzazione del mercato del lavoro, la svendita dei beni pubblici con le privatizzazioni, fu imposta nell'ambito di governi marcatamente spostati a sinistra che la garantirono con compensazioni culturali e folkloristiche agli aneliti del radicalismo, quali l'allargamento dei diritti individuali, ma anche con manovre di redistribuzone della ricchezza (fornita dalla leva fiscale), alla fine poi però rivelatesi inefficaci.

Nel primo governo Prodi l'attenzione fu catalizzata sulla lotta al berlusconismo, sulla lotta alla mafia ed alla corruzione che a parere di intellettuali e politici di sinistra bloccava l'eguaglianza nel paese, ma nel frattempo si aumentò l'Iva dal 19% al 20%, e si diminuì la progressività dell'Irpef, riducendo gli scaglioni di tassazione e l'aliquota massima per i paperoni italiani che andò dal 51% al 45%. Nel frattempo ci si indignava per l'evasione fiscale del mercatale. Con la famigerata legge Treu ebbe inizio la precarizzazione del lavoro. Come ricorda sempre Domenico Moro, la riforma  "secondo l'Ocse, ha inciso in termini di deregolamentazione del mercato del lavoro molto più della Legge Biagi, varata dal governo Berlusconi nel 2003."(4)

Nel frattempo, il collo di bottiglia delle "compensazioni di redistribuzione della ricchezza" divenne sempre più ristretto ed impraticabile man mano che il portafoglio spendibile delle risorse pubbliche veniva eroso dal debito collegato oramai per la maggiorparte ai rastrellatori dei monopoli finanziari internazionali.

Col secondo governo Prodi occorse mentire sulla reale desitinazione di quelle "bellissime" tasse che si prelevavano a piene mani dai ceti popolari: Padoa Schioppa riformò al rialzo il prelievo presunto degli studi di settore, in un mercato in cui il saggio di profitto del lavoro autonomo si riduceva drasticamente per liberalizzazione di tariffe e licenze, ma soprattutto aumentò le tasse dirette IRPEF  dei soli scaglioni relativi ai redditi più bassi!
Tale scandaloso sacco fiscale veniva sempre più ampiamente drenato a favore della spesa per interessi. La chiusura del cerchio si ebbe con l'introduzione del pareggio di bilancio nella legge fondamentale e con il fiscal compact, in virtù del quale ogni "redistribuzione di ricchezza" veniva vincolata - e di fatto prontamente inibita, dalla dinamica della finanza pubblica ormai controllata dagli interessi finanziari esterni allo Stato ed ala comunità sociale.

Come può accadere questo? Può essere imputato alla sola corruzione delle componenti di sinistra? All'asserito abbandono di politiche keynesiane?  Al "tradimento" della rappresentanza popolare? Non solo, e comunque ciò non spiegherebbe il dato fondamentale del sistema che finirebbe per spingere futuri e possibili "probi riformatori" nello stesso cul de sac.

Già Lenin, alla vigilia di quella che sarebbe stata la prima rivoluzione degli ultimi, con il saggio Stato e Rivoluzione, scritto nell'agosto-settembre 1917, si ricordava come l'insegnamento marxista aveva già evidenziato che le leve del potere in ogni raggruppamento sociale sono governate in modo reale da chi è in grado di esercitare l'egemonia economica. Il potere della ricchezza è in grado di determinare qualsiasi involucro politico. E' in grado di dominare ed influenzare cultura ed ideologia, sia del ceto e della fazione politica formalmente al potere, sia del ceto dominato.

"L'onnipotenza della «ricchezza» è. in una repubblica democratica, tanto più sicura in quanto non dipende da un cattivo involucro politico del capitalismo. La repubblica democratica è il migliore involucro politico possibile per il capitalismo; per questo il capitale, dopo essersi impadronito (grazie ai Pal'cinskij, ai Cernov, agli Tsereteli e soci) di questo involucro - che è il migliore - fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, nè di persone, nè di istituzioni, nè di partiti nell'ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo" (5)

L'altro dato fondamentale risiede nel fatto che il sistema capitalistico, per sua natura, se sopporta in modo contingente azioni compensative di redistribuzioni di ricchezza o stimolazioni keynesiane di sorta, alla lunga è costretto inevitabilmente ad eliminarle, mediante l'esercizio dell'influenza della ricchezza sull'involucro e le forme del potere.

Da tempo la realtà grida il carattere strutturale e non congiunturale della crisi: in questa fase storica si è raggiunta una tale accumulazione di capitale da non trovare adeguato saggio di profitto. Il calo del saggio di profitto blocca la produzione, gli investimeti e si rifugia nella finanziarizzazione e nel sostegno esterno al tasso di profitto, a sua volta generando bolle speculative. Il saggio di profitto negli Stati Uniti è passato dal 28,2 per cento del 1941-1956, al 20,3 per cento del 1957-80, al 14,2 per cento del 1981-2004. (6)

In tale ottica, il capitale, muovendo il suo involucro politico, tenta di far adottare dagli Stati politiche volte a sostenere artificiosamente tale tasso e quindi volte alla tutela preferenziale di tali interessi finanziari, generando diseguaglianza e da ultimo dando via ad una serie di crisi finanziarie. Si pensi all'elevata finanziarizzazione dell'economia voluta attraverso l'iniezione del massiccio credito al consumo nello scambio economico, attuata attraverso una pesante iniezione di liquidità nell'economia da parte della Banca Centrale americana (la Federal Reserve) che ha portato allo scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime. Con l'estensione di tale crisi alla sfera europea, il tasso di profitto che era risalito al 25.5 per cento nel 2006 è crollato nuovamente nel 2008 al 17,9 per cento.(7)

Illuminanti allora le osservazioni di Zoltan Zigedy a margine del recente forum della Real World Economics Review (RWER) sull'opera di Thomas Piketty. Zigedy osserva che la parte più discussa e contestata in ambito liberale e socialdemocratico è il concetto Pikettiano per cui "ceteris paribus, il capitalismo produce e riproduce sistematicamente la disuguaglianza. Dean Baker lo conferma quando dice: "È l'adozione di politiche favorevoli a questi interessi economici che hanno portato l'aumento delle quote di profitto negli ultimi anni, non una dinamica intrinseca del capitalismo, come si può leggere in Piketty" (il corsivo è di Zigedy)" (8) Prosegue l'economista osservando ancora , con illuminante pezzo che integralmente val la pena riportare:

"È la "dinamica intrinseca del capitalismo" che crea problemi a liberali e socialdemocratici. Se il capitalismo genera necessariamente la disuguaglianza, se la disuguaglianza risulta dalle leggi dello sviluppo capitalistico, allora le riforme non saranno mai abbastanza soddisfacenti per vincere la disuguaglianza sociale. Se dovesse essere vero che la disuguaglianza è un prodotto sistemico del capitalismo, allora un insieme di riforme, come sostenuto da quasi tutti i commentatori della RWER (e da Piketty), potrà, al massimo, solo rallentare o ritardare la crescita della disuguaglianza.

Ecco la questione che divide i riformisti del capitalismo dai socialisti e i socialdemocratici dai marxisti. I marxisti accolgono l'affermazione di Piketty che la disuguaglianza sia la regola nel capitalismo e che i periodi di riduzione delle disuguaglianze sono un'eccezione. Inoltre, la logica stessa del capitalismo, con al centro lo sfruttamento, promette di aumentare le disuguaglianze. Affinché il capitalismo possa continuare, il capitale deve accumularsi, e non in un consumo sociale, ma in investimenti mirati a ulteriore accumulazione. Gli sforzi per resistere, riformare o regolare il processo, non faranno altro che ritardarlo solamente.

Sicuramente i governi progressisti possono mettere in atto riforme per ridistribuire la ricchezza, ma alla fine ciò non fa che inibire l'accumulazione traducendosi in un mancato investimento di capitale o in una sua fuga. Il capitalismo non è un meccanismo generatore di eguaglianza. Non è nemmeno tollerante rispetto all'eguaglianza.

Il Lavoro può lottare per una quota maggiore di ricchezza, ma deve sottostare alle minacce di chiusura dell'impianto dei capitalisti o a quelle della disoccupazione di massa. Gli odierni leader sindacali collaborativi sono chiusi nella posizione di compromesso che li vede sia come agenti del profitto aziendale sia difensori degli standard di vita della classe operaia. Sicuramente nessun avanzamento contro la disuguaglianza è possibile nel quadro di tale dilemma.

Gli scrittori della RWER preferirebbero dedicarsi ai decenni che partono da Reagan e dalla Thatcher piuttosto che ai secoli studiati da Piketty. Laddove Piketty identifica nel capitalismo una tendenza a lungo termine di produzione di ricchezza ed estrema disuguaglianza, essi preferiscono ignorare questo aspetto enorme per discutere le cause della crescente disuguaglianza a partire dagli anni Settanta.

Essi sono intenti a ignorare quei secoli di perdurante disuguaglianza perché questo metterebbe in dubbio la possibilità che uguaglianza e capitalismo siano compatibili, che il sistema capitalista possa essere riformato. Gli argomenti teorici e i dati di lungo periodo di Piketty contestano questa possibilità.

Piuttosto che accettare le implicazioni di lungo periodo delle tendenze del capitalismo, la sua traiettoria secolare, liberali e socialdemocratici evidenziano la breve pausa nella disparità di reddito avutasi dopo la Seconda guerra mondiale (negli Usa e in una parte dell'Europa) insieme con l'espansione post-bellica dello stato sociale come una sorta di età dell'oro per la socialdemocrazia. Essi identificano la brusca svolta dalla moderazione della disuguaglianza, verificatasi all'incirca solo venticinque anni dopo, non come un ritorno al normale corso del capitalismo, ma come un colpo di stato politico contro un capitalismo ammansito e temperato. Con poco altro se non la nostalgia per sostenere questo punto di vista, i riformisti si aggrappano all'illusione che un capitalismo umano, egualitario sia possibile. Socialdemocratici e liberali si rifiutano di vedere il persistere e la crescita della disuguaglianza come fattori sistemici. Piuttosto vogliono credere che la crescita della disuguaglianza sia una mera questione di scelte politiche. Pertanto, inveiscono contro l'ideologia del "neo-liberismo", come se l'esplosione delle disuguaglianze in Nord America e in Europa nel corso degli ultimi 30-40 anni sia il risultato di un "raggiro" della destra e non spinto invece dalla logica del capitalismo. "Sconfiggere il neo-liberismo" è diventato un mantra conveniente per coloro mal disposti a lottare per un nuovo ordine socio economico: il socialismo." (9)

Il capitale, dunque, nell'involucro politico democratico, è in grado - in quanto ricchezza - di condizionare ed allontanare con l'egemonia finanziaria ed il sostegno diretto ai gruppi di potere che pongono in atto - anche antidemocraticamente - le soluzioni di austerità, ma anche di condizionare l'antagonismo alle sue diverse contraddizioni, incanalandolo in un'egemonia culturale che combatte il suo peggior nemico: la scoperta che le contraddizioni e le diseguaglianze hanno natura sistemica nel capitalismo e che solo eliminandolo si può eradicare la diseguaglianza. 

Non si spiegherebbero altrimenti le correnti di pensiero che hanno agitato nei paesi capitalisti sinistra di governo e sinistra cosidetta antagonista: chi più, chi meno, tutte legate alla chimera di eradicare i difetti sistemici con il porre in essere misure compensative e di controllo dal basso i primi, con una azione diretta di contropotere i secondi,  azione che dovrebbe indurre cambiamenti in favore dei ceti popolari.

Senonchè, il fallimento dell'una e dell'altra prospettiva di lotta appare palese nei nostri giorni della crisi. Dicevamo del cul de sac politico in cui i governi di centrosinistra italiani, ma anche europei, si sono venuti a trovare nel momento in cui vi è stato il totale restringimento del collo di bottiglia delle risorse con cui finanziare misure di redistribuzione di ricchezza: in quasi tutti i Paesi, i grandi partiti di sinistra che la gestivano si sono trovati in crisi, dando luogo a fenomeni politici di stampo populista incentrati sulla contestazione della corruzione e delle "politiche sbagliate" del neoliberismo, sostenendo la necessità di una "riforma" del sistema, "caduto nelle mani dei monopoli" "in preda alla corruzione dei partiti" "della casta", dei "poteri forti" per riportarlo a ridivenire un sistema in grado di "garantire diritti" alle fasce popolari: il dirtto alla casa, al lavoro, al reddito minimo garantito ai beni comuni. Laddove i primi sono rimasti al potere, essi si sono trasformati nei principali alleati della svolta autoritaria. Laddove i secondi hanno realizzato partecipazioni al potere od affermazioni elettorali, hanno reso palese la dipendenza del loro tessuto ideologico ad un'aspirazione alla riforma che il capitalismo non può più nè tollerare nè sostenere, accorgendosi fatalmente che, laddove sono riusciti ad isolare la corruzione, il partitismo, il clientelismo, si ergeva la supremazia economica delle varie leve del capitale che scongiuravano ogni essenziale cambiamento.

Miseria dell'antagonismo qualunquista: un inutile riformismo sotto altre forme

L'influenza culturale dominante del capitale riesce però ad esercitare la sua egemonia anche in modo ancora più indiretto, sulla formazione della cultura e della coscienza. Questa influenza è quella più efficace e perniciosa perchè si rivela in grado di normalizzare e relativamente neutralizzare persino le frange più antagoniste dell'opposizione e del conflitto sociale.
Decenni e decenni di propaganda sulla "libertà individuale", sulla "meritocrazia" come criterio di attribuzione di premi e privilegi, sulle opportunità fornite dalla libertà di iniziativa economica, decenni e decenni di diffamazione di ogni esperienza socialista hanno finito per offuscare la reale natura della diseguaglianza, addossandola a scelte politiche, hanno formito terreno fertile per instaurare l'organizzazione di lotte limitate, settoriali, acefale e di retroguardia.
La "ginnastica di obbdienza", come la definiva Fabrizio de Andrè, lascia segni impensati anche sulla coscienza di chi si crede nemico del potere.

Sul terreno del conflitto sociale, la proclamazione di scioperi e manifestazione in cui la parola d'ordine più radicale si rivela essere la concessione di un reddito di cittadinanza od un reddito minimo, rivela la confessione dell'intrinseca debolezza. Si sogna e si pretende uno spazio che una controparte non vuole e non sarebbe nemmeno in grado di dare. Si sogna una modifica di un sistema che non può funzionare nel modo desiderato. Reddito di cittadinanza, salario minimo e compensazioni sociali, stando così le cose, sono realizzabili nella misura in cui il sistema li tollera. I "beni comuni" non sono ruscelli di montagna da cui attingere direttamente acqua, ma strutture complesse che necessitano di un'organizzazione tecnologica ed economica: sperare che vengano sottratte alla speculazione privata senza elidere il sistema che le vede come ulteriori risorse da sfruttare può rivelarsi velleitario: il referendum italiano sull'acqua ne è un chiaro esempio.

D'altro canto, l'esperienza degli ultimi tempi insegna come sia molto più facile per il sistema dominare microrivolte settoriali, anche violente, rispetto all'aver come avversario un'unità politica, ideologica ed organizzativa che si proponga la conquista effettiva del potere e l'eradicamento del sistema economico capitalista per sostituirlo con strutture di pianificazione economica a controllo e proprietà collettiva.

L'eterno "spostamento dei rapporti di forza", il raggiungimento delle c.d. "masse critiche" per spostare le decisioni dello Stato, il sogno di una politica di stimolo della domanda interna o di una sovranità statale indipendente ormai economicamente impensabile, appaiono oggi così desolatamente impotenti, proprio perchè hanno rinunciato ad attaccare i difetti sistemici del sistema economico che domina l'involucro politico. In ciò consiste il capolavoro del capitale: spuntare a distanza le armi dei suoi nemici, spuntarle nella loro coscienza più che nella realtà, nel noumeno più che nel fenomeno, fino a convincerli a non usarle, se non in semplici scaramucce di posizione, volte più a perpetuare l'esistenza del gruppuscolo che di volta in volta agisce, piuttosto che a costruire quell'unità in grado di spazzare un sistema che si alimenta di diseguaglianze. 

Senonchè, tale miopia politica si è spesso - con spietata nemesi - rivoltata nei confronti dei loro promotori. Pensiamo al fenomeno del Movimento Cinquestelle. La sua proposta politica si è fin dall'inizio caratterizzata sulla contrapposizione artificiosa (soprattutto nell'Italia dei clientes) tra "cittadini" buoni e capaci di virtuoso autogoverno e politici corrotti da un imprecisato "sistema mafioso". Questa contrapposizione è stata giocata astraendo dalla visione delle diseguaglianze economiche che il "vero sistema", quello capitalista, proiettava sulla società, spesso sfoggiando meticolosamente un coltivato anticomunismo che permetteva di riscuotere voti della destra populista come dei delusi dagli opportunisti della sinistra radical-chic.  Si è spesso coltivato il mito del buon imprenditore frustrato dalla corruzione del potere e dalla cattiva finanza, spesso identificata più con astrusi intrighi politici che con la reale dimensione dei monopoli finanziari ed industriali internazionali. Si è spesso invocato un ruolo indipendente dello Stato borghese in economia, sognando quell'aiuto alle imprese o quel sostegno del profitto che avrebbe dovuto trasmettere la crescita nell'intera collettività. Si è tentato di saldare sotto questa illusione gli interessi di classi diverse, attori diversi, dimenticando che - come sopra abbiamo visto - è stato proprio il tentativo di sostenere con le risorse pubbliche (stampando moneta e ampliando il credito al consumo dei mutui sub-prime) il calo tendenziale del saggio di profitto dei capitalisti ad innescare la crisi finanziaria originatasi dagli USA. Si è ricondotta la critica all'asserito deficit di democrazia interamente all'interno di quei meccanismi parlamentaristici rappresentativi di tipo borghese che il capitale ha edificato e che ritiene il suo migliore involucro politico, riconducendo le contraddizioni alla asserita "corruzione" dei "politici" e dei "partiti", dimenticando che così si partecipava dei medesimi difetti sistemici che si percepiva come nemici. Le forze concentrate e veicolate nella rappresentanza di "cittadini" inesperti, pur sempre peraltro selezionati in modo discutibile da oscuri meccanismi posseduti dai miliardari promotori e proprietari del movimento, si sfaldavano nell'inutilità del cretinismo parlamentare, con effetti quasi nulli, sia sulle aspirazioni riformiste, sia sull'influenza della coscienza collettiva.

Anche qui le efficaci immagini dei giorni nostri ci restituiscono la senatrice Taverna, abile in Parlamento a riproporre l'antica mistica antiberlusconiana, ma duramente contestata allorchè tenta - nelle periferie romane - l'altrettanto antica pratica di spigolattura dei voti dei malcontenti. All'interlocutore della periferia romana che la accusava di venire a fare accattonaggio di voti, la senatrice provava a rispondere con il leit-motiv grillino: non sono una politica, sono una "cittadina", non rendendosi conto che il partecipare ai meccanismi parlamentari e di voto rappresentativo automaticamente la schierava dalla parte di quei "politici" che pur stanno nel palazzo e portano con sè  la odiata e patente inservibilità delle sovrastrutture in cui operano. Pronta era infatti la risposta del suo interlocutore: che cosa siete se non politici anche voi?

Il sistema dunque fagocita ed autolimita i suoi oppositori che non ne comprendono realmente la nocività e che ne favoriscono comunque il perpetuarsi, secondo l'ennesima illusione riformista ed interclassista. Nella Torino del 14 novembre 1980, gli impiegati ed i quadri della marcia dei quarantamila che scesero in piazza contro i picchettaggi fecero - a loro insaputa - un grande favore al perpetuarsi del sistema. Pensavano di essere dalla parte del progresso e della ripresa. Furono i primi ad essere licenziati quando lo sviluppo delle nuove catene li rendeva inservibili. 

Costruire il socialismo è cosa serissima

Nonostante gli eventi lo confermino, la coscienza delle classi popolari sulla fine di ogni spazio riformista è purtroppo ancora inesistente. Lo dimostrano - come abbiamo sopra detto - anche le parole d'ordine della maggior parte della mobilitazione sindacale di questi giorni. Condire e formare quantomeno un'unità ideologica che consenta di comprendere la fine degli spazi riformisti , la vera natura sistemica della diseguaglianza, il carattere dittatoriale di un'economia fondata sul profitto dei suoi attori egemoni nella competizione, nonchè sull'anarchia produttiva non può che essere fondamentale. La necessità di abbattere l'involucro politico che essa ha creato per dominare appare però altrettanto fondamentale. Costruire il socialismo nella sua forma più efficace, è l'unica vera temuta alternativa alla barbarie odierna. Il compito non può però solo affidarsi ad una mera propaganda di formule di stile, così come nella sola conquista di una tribuncina parlamentare che può rivelarsi inutile anche per coloro che marciano nella giusta direzione. Occorre desiderare e promuovere il socialismo, ma prima ancora di questo spiegare come esso possa risolvere i problemi odierni. Non ci si può limitare a dire che col socialismo saranno possibili gli investimenti per evitare le alluvioni, per scongiurare la disoccupazione, sciogliere le contraddizioni delle migrazioni epocali. Occorre elaborare, studiare e spiegare come lo farà. C'è bisogno di studiare, programmare ed illustrare nei dettagli come un'economia pianificata possa sostituirsi ed alimentarsi al di là di quella che vuol sostituire, come possa veramente conservare e realizzare il potere degli ultimi, il controllo dei veri produttori sull'economia, il vero dominio di ogni uomo sul proprio futuro e sulle sue aspirazioni. Costruire il socialismo è cosa serissima. Le illusioni si combattono a questo stadio solo con la concretezza. Ciò si rivela necessario per provare a edificare il socialismo, ma anche per costruire un contropotere, il quale - nell'immediato - possa perseguire risultati di lotta che non si rivelino arma di distrazione delle masse e perpetuazione del sistema.

Sempre Lenin, nella conclusione di Stato e Rivoluzione, ebbe ad affermare: 
"La deformazione e la congiura del silenzio intorno al problema dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato non potevano mancare di esercitare un'immensa influenza, in un momento in cui gli Stati, muniti di un apparato militare rafforzato dalle competizioni imperialiste, sono diventati dei mostri militari che mandano allo sterminio milioni di uomini per decidere chi, tra l'Inghilterra e la Germania, tra questo o quel capitale finanziario, dominerà il mondo". (10)

Rompere la congiura del silenzio e gridare questa fondamentale controinformazione sembra essere oggi questione di vita o barbarie. 

Note: 

1) Domenico Moro, Le vere cause del debito pubblico italiano, www.pubblicogiornale.it
2) http://www.lastampa.it/2014/11/11/economia/bruxelles-italia-in-ritardo-sul-debito-VgVkhjpYbH9ng5c9k66AIJ/pagina.html
3) Agosto H. Nimtz, Ebola in Africa: un prodotto della storia, non un fenomeno naturale, traduzione per resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare dalla rivista Pambazuka.net, http://www.resistenze.org/sito/os/mp/osmpem09-015349.htm
4) Domenico Moro, I comunisti, la tattica e le alleanze. Che fare?, http://www.resistenze.org/sito/os/ip/osipcn05-012009.htm
5) Lenin, Stato e Rivoluzione, cap. 1
6) Andrew Kilman, The persistent fall in profitabily underlying the current crisis: new tempralist evidence. http: //akliman.squarespace.com/
7) D.Moro, Perchè e come l'Euro va eliminato, http://www.marx21.it/documenti/moro_euroecrisiitaliana.pdf
8) Zoltan Zigedy, Perchè hanno paura di Thomas Piketty?, zzs-blg.blogspot.it, Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare, http://www.resistenze.org/sito/os/ec/osecem05-015301.htm
9) Z. Zigedy, op. cit. nota 7
10) Lenin, Stato e Rivoluzione, cap. 9


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