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Nazionalizzazione?

Raúl Martínez | nuevo-rumbo.es
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

03/06/2020

La nuova crisi capitalista ha fatto tornare di moda il vecchio slogan della nazionalizzazione. Casi come quello di Nissan, quello delle imprese del settore elettro-intensivo o il caso di HUNOSA [Hulleras del Norte, società parastatale di estrazione e sfruttamento minerari nelle Asturie, ndr] hanno messo sul tavolo la questione. Ma non tutte le proposte vanno nella stessa direzione e occorre chiarire che cosa ognuno stia difendendo.

È possibile nazionalizzare?

La costituzione spagnola, come qualsiasi costituzione capitalista, sancisce come pilastro del sistema economico e sociale il diritto alla proprietà privata e all'eredità. Nel fare ciò, però, essa pone due chiari limiti: il suo contenuto deve essere definito giuridicamente in funzione della sua funzione sociale e si permette l'esproprio, la privazione di beni e diritti, per motivi di utilità pubblica o di interesse sociale, con i relativi indennizzi e conformemente alle disposizioni di legge (art. 33 CE).

La proprietà privata comanda, ma con una serie di limitazioni sulle quali si fonda la definizione della Spagna come Stato sociale e democratico di diritto (art. 1.1 CE). Pertanto, l'articolo 128 sottolinea che tutta la ricchezza del paese nelle sue varie forme e qualunque ne sia la titolarità è subordinata all'interesse generale e che è espressamente prevista la possibilità di concordare l'intervento nelle imprese da parte dello Stato.

Partiamo quindi dalla premessa che, dal punto di vista dell'ordinamento giuridico interno, è possibile ricorrere alle nazionalizzazioni, purché ciò sia giustificato da motivi di utilità pubblica o di interesse sociale.

Da qui cominciano le limitazioni. In primo luogo, quelle derivanti dall'appartenenza della Spagna all'Unione Europea e dalla firma di tutta una serie di trattati internazionali che sanciscono una certa correlazione di forze nel quadro internazionale, sulla base della difesa della "libera concorrenza"e che hanno carattere di norme interne.

Diversi obiettivi della politica di nazionalizzazione

Nell'attuale dibattito politico, le politiche di nazionalizzazione sono spesso associate ad una sinistra dura, in particolare al comunismo. È un errore su cui si basa il predominio delle teorie neoliberali, la cui egemonia è stata in qualche modo messa in discussione dopo la gestione della crisi capitalista del 2008 e soprattutto, di fronte allo scoppio dell'attuale crisi economica.

Il fatto è che lo sviluppo del sistema capitalista è inseparabile dall'uno o l'altro livello di intervento statale nell'economia e una delle forme in cui tale intervento può manifestarsi sono le nazionalizzazioni. Da questo il fatto che precetti costituzionali come quelli citati sono presenti nell'ordinamento giuridico di tutti i paesi o che negli ultimi mesi abbiamo sentito parlare di nazionalizzazioni da leader socialdemocratici come Josep Borrel o di destra come Emmanuel Macron.

Queste proposte si giustificano nel "interesse generale" o "interesse della nazione", ma in pratica si tratta degli interessi della borghesia, che non ha mai avuto dubbi sul fatto che lo Stato, il suo Stato, venga presto in soccorso dei capitalisti quando non è redditizio per loro mantenere questa o quella attività. Si tratta di quelle che Lenin a suo tempo ha definito politiche di capitalismo monopolistico di Stato, che in un modo o nell'altro risuonano e si intensificano con ogni nuova crisi capitalista.
Non dobbiamo cadere nella trappola. Queste politiche non mirano a difendere gli interessi delle grandi maggioranze lavoratrici stabilendo un ordine economico meno ingiusto, ma a preservare il funzionamento del capitalismo. Dobbiamo allora, noi che lottiamo contro il capitalismo, abbandonare la parola d'ordine della nazionalizzazione?

La parola d'ordine della nazionalizzazione

Durante le ultime lotte per il futuro dell'industria mineraria, in particolare dopo lo sciopero del giugno 2012, è stata posta sul tavolo la rivendicazione della nazionalizzazione dell'industria mineraria privata e della sua integrazione in HUNOSA. Lo stesso vale ora per le imprese del l'industria elettro-intensivo o dell'industria automobilistica. In realtà succede con tutti i settori strategici della produzione che non offrono ai capitalisti privati i benefici desiderati.

Nell'esigenza di nazionalizzare queste imprese si esprime la contraddizione principale che corrode il capitalismo: la contraddizione tra il carattere sociale del lavoro e l'appropriazione privata del suo prodotto da parte del capitalista, la contraddizione capitale-lavoro. Di fronte alla constatazione che il settore privato non è in grado di garantire diritti minimi di lavoro o addirittura la continuità dei posti di lavoro da cui dipendono intere regioni, si ricorre al collettivo.

Tuttavia, come abbiamo visto, lo Stato capitalista non rappresenta il collettivo, ma gli interessi comuni della borghesia. La proprietà statale nel capitalismo non è quindi che una variante della proprietà capitalista. Le nazionalizzazioni, ad un certo punto, possono risolvere i problemi immediati dei lavoratori, ad esempio mantenendo l'attività di un settore e quindi i posti di lavoro e i redditi da cui dipende la vita di migliaia e migliaia di lavoratori. In questo senso la parola d'ordine della nazionalizzazione è giusta. Ma per essere efficace, deve essere completata dalla spiegazione che la soluzione definitiva del problema verrà dalla socializzazione dei mezzi di produzione e non in una forma temporanea o in un'altra di proprietà capitalistica, il che implica necessariamente un cambiamento della classe sociale al potere e di conseguenza, della natura di classe dello Stato.

Talvolta siamo accusati di proporre il socialismo-comunismo come soluzione a tutto. Confessiamo che, evidentemente, noi comunisti sosteniamo che dalla mano del comunismo verrà la soluzione ai problemi fondamentali del genere umano. Tuttavia, questa critica un po' è giusta. A volte ci troviamo di fronte ad approcci di sinistra che di fronte ad ogni lotta parziale condotta dalla classe operaia rispondono seccamente con slogan come "la soluzione è la rivoluzione". Certo, la soluzione è la rivoluzione, ma la rivoluzione va organizzata. E questo è un problema che non si risolve con un tweet.

Su un altro piano, quando noi comunisti cerchiamo di proporre soluzioni concrete ai problemi immediati che la nostra classe deve affrontare e il caso della nazionalizzazione è uno di questi, ci troviamo anche di fronte ad attacchi per non essere abbastanza comunisti e perché proponiamo misure riformiste. Alcuni, dai loro monasteri, si disinteressano dei problemi che vivono quotidianamente i lavoratori, delle loro preoccupazioni, dei loro problemi. Così, non c'è nessuna rivoluzione possibile.

I comunisti non hanno mai smesso di sostenere le riforme che rispondono agli interessi immediati dei lavoratori. Ma cerchiamo di inserire questa lotta in una strategia generale che ponga come obiettivo la presa del potere. Permettete l'uso di una metafora. In combattimento non ci limitiamo ad attaccare con un gancio sinistro alla mandibola del nemico. Sappiamo che, dopo quel colpo di precisione, se ci imbattiamo in campioni e abbassiamo la guardia, il nemico restituirà il colpo senza pietà e dopo questa risposta, verrà una successione di colpi con l'obiettivo di schiacciarci. No, dopo il primo colpo, bisogna proseguire, con l'obiettivo di mettere il capitalismo KO con un colpo definitivo, che porti la classe operaia al potere. Ogni colpo deve quindi contribuire a realizzare quel KO, perché la storia ha dimostrato che la classe operaia non può vincere ai punti.

Nazionalizzazione per che cosa?

In primo luogo, è imperativo diffondere la consapevolezza che nel capitalismo non c'è via d'uscita per i lavoratori. La parola d'ordine della nazionalizzazione pone l'accento sul dibattito riguardo la proprietà dei mezzi di produzione e la coesione della classe operaia attorno ad essa. In questo senso, sempre che sia accompagnata da una debita spiegazione nel quadro di una strategia rivoluzionaria, facilita l'elevazione della coscienza di classe.

In secondo luogo, la parola d'ordine della nazionalizzazione, trascendendo il quadro di un'impresa concreta e proiettata sui settori produttivi strategici, permette di affrontare il dibattito sul modello produttivo. I settori fondamentali della produzione non possono essere di proprietà privata, non possono essere lasciati all'arbitrio, l'interesse privato, dei monopoli capitalistici. È necessario individuare l'obiettivo della riappropriazione di questi settori se vogliamo evitare che accada ciò che abbiamo visto, ad esempio con la carenza di mascherine o respiratori.

In terzo luogo, rivendicare la nazionalizzazione permette di smascherare la posizione del governo della socialdemocrazia, che pur avendo in mano i meccanismi costituzionali che le permetterebbero di nazionalizzare imprese strategiche, opta per la ricerca di nuovi investitori o nel caso della Nissan, sicuramente per cercare di guadagnare tempo e promettere al settore automobilistico piani di aiuto come quelli approvati nel 2009 dal governo di Zapatero. Aiuti ai monopoli contro nazionalizzazioni. Qui cade il discorso della re-industrializzazione, dell'intervento statale, del nuovo modello produttivo e del fatto che nessuno resterà indietro. Come sempre, i suo discorsi sono una cosa, ma la pratica è ben diversa.

La parola d'ordine della nazionalizzazione pone quindi la classe operaia in una posizione di bisogno superiore. Pur permettendo di rispondere alle necessità immediate dei lavoratori, pone la classe operaia davanti al dibattito sulla proprietà dei mezzi di produzione e sul carattere che deve avere nei settori strategici dell'economia, con tutte le implicazioni giuridiche e internazionali che ciò comporta. Parallelamente, l'intensificazione di questo tipo di dibattito pone ogni forza politica di fronte alla realtà della sua proposta politica, di fronte al suo vero carattere di classe.

La parola d'ordine della nazionalizzazione è sufficiente?

No, non è abbastanza. Come abbiamo visto, la proprietà statale nel capitalismo, come quella cooperativa, non è che una forma di proprietà capitalista. E di fronte ad un certo grado di intensità della crisi, le forze sistemiche possono essere costrette ad intraprendere un processo di nazionalizzazione.

Pertanto, mentre si aprono dibattiti essenziali in seno al movimento operaio e sindacale, occorre non generare false aspettative sul significato delle riforme nel quadro capitalista. A tal fine è necessario aprire il dibattito sull'uscita strategica ai nostri problemi, sulla questione del potere. Ciò comporta necessariamente una proposta sul ruolo della classe operaia nel processo che può portare alle nazionalizzazioni. Non è la stessa cosa nazionalizzare un'impresa sotto la pressione della classe operaia e nazionalizzare un'impresa per salvare un capitalista privato. Ma in entrambi i casi, il ruolo dei lavoratori in questo processo deve essere fondamentale in modo che, anche ottenendo la nazionalizzazione, si pongono le basi per continuare a colpire l'avversario e impedirgli di restituire il colpo.

La parola d'ordine della nazionalizzazione ha bisogno di un complemento.

La parola d'ordine del controllo operaio

Il socialismo-comunismo ha dimostrato per decenni la possibilità di organizzare una società libera dagli sfruttatori, ha dimostrato che i capitalisti non sono necessari. Aperto il dibattito sulla proprietà dei mezzi di produzione, deve svolgersi il dibattito su quale tipo di proprietà debba sostituire la proprietà privata capitalista e su chi debba dirigere la produzione.

Lo Stato capitalista, in quanto capitalista collettivo, non rappresenta gli interessi della classe operaia e prima o poi, a prescindere dal grado di intensità, attaccherà questi interessi. Il controllo delle imprese nazionalizzate deve quindi rimanere nelle mani dei lavoratori, aprendo la disputa con lo Stato capitalista, in ogni impresa e in ogni settore.

È una lotta complessa in cui la classe operaia prende coscienza del suo ruolo nella produzione, della sua forza collettiva, della sua capacità di organizzare e dirigere la produzione e quindi, di dirigere l'intera società. La nazionalizzazione e il controllo operaio della produzione diventano quindi elementi inseparabili della lotta per il potere; per un sistema economico basato sulla proprietà sociale dei mezzi concentrati di produzione e su una pianificazione centrale dell'economia diretta a soddisfare i bisogni della popolazione.

Si tratta di una lotta complessa in cui la classe operaia prende coscienza del suo ruolo nella produzione, della sua forza collettiva, della sua capacità di organizzare e dirigere la produzione e quindi di dirigere l'intera società. Nazionalizzazione e controllo operaio della produzione diventano quindi elementi inseparabili della lotta per il potere; un sistema economico basato sulla proprietà sociale dei mezzi di produzione concentrati e su una pianificazione centrale dell'economia volta a soddisfare le esigenze della popolazione.

Non si tratta certo di un dibattito semplice. Si tratta né più, né meno di discutere le vie che possono condurci, nelle condizioni attuali, all'obiettivo irrinunciabile di porre fine a ogni forma di sfruttamento e di garantire la copertura dei bisogni del nostro popolo e di tutti i popoli del mondo. A tal fine è necessario prendere posizione, anche a rischio di sbagliare.


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