Dinanzi al processo di globalizzazione:
marxismo o populismo?
1. Marx e la
globalizzazione
Ai giorni nostri la retorica del nuovo celebra i suoi
trionfi. "Dopo Genova nulla può più essere come prima!". Trascorrono
solo poche settimane dalle grandi manifestazioni contro i sedicenti 7 o
8 Grandi della terra e dalla brutale repressione poliziesca che ne
consegue, ed ecco che, in seguito agli inauditi attentati terroristici
in Usa, risuona un nuovo grido e trionfa una nuova cronologia: "Dopo
Manhattan nulla può essere come prima!". Un mese dopo, l'incontro tra i
dirigenti dei paesi membri dell'Apec e, in primo luogo, di Cina, Usa e
Russia è l'occasione di un nuovo colpo di scena. A Shanghai -
riferiscono "Liberazione"e "il Manifesto" - le grandi potenze si sono
unite in una coalizione compatta e corale, in una sorta di Santa
Alleanza planetaria senza precedenti nella storia. E, dunque - se ne può
dedurre -: "Dopo Shanghai nulla può più essere come prima!". Le svolte
epocali incalzano ormai a ritmo mensile. Sono i miracoli della
globalizzazione, a partire dalla quale - non si stanca di affermare o di
suggerire una certa sinistra - cosμ radicali sono i mutamenti
intervenuti nel capitalismo e sulla scena mondiale da rendere del tutto
obsoleta la lezione di Marx.
In realtà, la storia del capitalismo è
la storia del processo di formazione del mercato mondiale. E' cosμ
che Marx la descrive. E questo è un aspetto essenziale della sua
grandezza come sociologo, economista, storico e filosofo. Ancora oggi,
illuminanti sono le pagine da lui dedicate all'espansione dell'Occidente
in Asia. Sotto l'onda d'urto "del vapore e del libero scambio made in
England", più ancora che dei "militari britannici", e cioè della
violenza militare diretta, le tradizionali "comunità familiari [...]
basate sull'industria casalinga" e "autosufficienti" cadono
irrimediabilmente in crisi: "miriadi di laboriose comunità sociali,
patriarcali e inoffensive" vengono "gettate in un mare di lutti, e i
loro membri singoli privati a un tempo delle forme di civiltà
tradizionali e dei mezzi ereditari di esistenza"(1) . Interi popoli sono
investiti da una tragedia senza precedenti nella loro storia: è la
"perdita del loro mondo antico, non compensata dalla conquista di un
mondo nuovo"(2) .
Marx ci fornisce qui una sintesi fulminante del
processo di globalizzazione capitalistica.
2. La prima forma di populismo
Proprio perché,
per i popoli via via investiti dalla globalizzazione, essa è la "perdita
del loro mondo antico, non compensata dalla conquista di un mondo
nuovo", si apre un ampio spazio per il rimpianto nostalgico del mondo
antico e la sua trasfigurazione: per lo meno nel passato c'era un
"mondo" di legami comunitari e di valori condivisi, un mondo non ancora
investito dalla lacerazione e dalla crisi e quindi fornito di senso. E'
qui che si annida la tentazione populista, ed essa emerge non solo nel
mondo coloniale o semicoloniale propriamente detto ma nel cuore stesso
dell'Occidente e della metropoli capitalistica, man mano che la grande
industria sottomette al suo controllo le aree agricole e manda in rovina
l'artigianato e l'industria domestica tradizionale.
Si prenda una
personalità come Sismondi. Simpatetico con le sofferenze del popolo, al
fine di evitarle o alleviarle, egli sembra voler suggerire l'imposizione
di un freno allo sviluppo della produzione, in modo da evitare
l'insorgere della sovrapproduzione e della crisi. L'introduzione di
nuovi e più potenti macchinari comporta sμ un "incremento di
produttività" ma finisce col distruggere il precedente equilibrio senza
che ne derivi alcun vantaggio reale e duraturo. E' un quadro desolante:
i "vecchi telai andranno perduti"(3). In questo senso, Sismondi -
osserva Marx - "si rifugia spesso nel passato, diventa laudator temporis
acti"(4), un nostalgico del buon tempo antico. Nel suo "romanticismo
economico" - incalza a sua volta Lenin - Sismondi si rivela
inconsolabilmente afflitto dalla "distruzione del paradiso dell'ottusità
e dell'abbrutimento patriarcale della popolazione rurale"(5).
Nell'esprimersi cosμ, il rivoluzionario russo ha chiaramente
presente la lezione di Marx il quale, con riferimento questa volta
all'India, mette in guardia contro la tendenza a rimpiangere e
idealizzare una "vita priva di dignità, stagnante, vegetativa", una
società nell'ambito della quale la miseria e l'assoggettamento delle
grandi masse vi appaiono come "un destino naturale immutabile" e le
"piccole comunità sono contaminate dalla divisione in caste e dalla
schiavitù"(6).
Se il marxismo e il leninismo si sono sviluppati nel
corso della lotta contro il populismo, questo sembra oggi godere di una
nuova giovinezza. Ecco in che modo "Liberazione" riferisce di una mostra
sul "Tibet perduto": ""La caccia, la pesca, persino l'uccidere un
insetto o scavare 'madre terra', divennero azioni da non commettere,
mentre mulini di preghiere sorgevano lungo tutti i corsi d'acqua".
Quando si arriva a Palazzo Magnani, a Reggio Emilia, per vedere la
splendida mostra fotografica di Fosco Maraini sul "Tibet perduto", sono
queste le parole affisse al muro che colpiscono di più il visitatore.
Descrivono un popolo unico [...] Persone straordinarie i tibetani,
abituati a vivere ad oltre 4000 metri di quota, in uno scenario naturale
incredibile, dove le malattie quasi non esistono, perché virus e batteri
non sopravvivono a quelle altezze"(7).
E' un esempio da manuale
dell'atteggiamento denunciato da Marx e Lenin. Una società "contaminata
dalla divisione in caste e dalla schiavitù", che istituiva una barriera
insormontabile tra signori e servi, discriminandoli nettamente dalla
nascita alla morte o oltre (dando in pasto agli avvoltoi i corpi dei
primi e riservando la dignità della cremazione o tumulazione solo al
corpo dei secondi), una tale società conosce ora una straordinaria e
mitologica trasfigurazione. Nell'ambito di tale ordinamento la miseria,
la denutrizione, le malattie e la morte precoce erano subite, per usare
sempre il linguaggio di Marx, come "un destino naturale immutabile"; ma
per il giornalista o poeta sotto l'incantesimo del populismo è motivo
ulteriore di entusiasmo il fatto che i "mulini di preghiere" sbarrassero
la strada ai blasfemi lavori impegnati a violare e "scavare "madre
terra"" e ad accrescere la produzione agricola. Come Lenin ha chiarito,
il populista ritiene che la "la luce splende solo dall'Oriente mistico,
religioso"(8). In effetti, in certi articoli di "Liberazione" e del
"Manifesto" il Dalai Lama tende per l'appunto a prendere il posto di
Lenin (e di Marx).
Il populismo svolge un ruolo importante nella
malevolenza e nell'ostilità con cui questi giornali e ambienti politici
guardano alla Cina. A suscitare orrore è in primo luogo l'"ossessione
della crescita quantitativa"(9). Sμ, Marx e Engels sottolineano che
"il proletariato si servirà del suo potere politico" e del controllo dei
mezzi di produzione in primo luogo "per accrescere, con la più grande
rapidità possibile, la massa delle forze produttive". In difficili
condizioni, dati il ritardo storico accumulato e il permanente
semi-embargo tecnologico imposto dagli Usa, la Cina cerca di sviluppare
le "industrie nuove", che non hanno più una base nazionale e la cui
"introduzione" - sottolinea sempre il Manifesto del partito comunista -
è "una questione di vita e di morte per tutte le nazioni civili"(10). Ma
tutto ciò è solo motivo di scandalo per il populista, il quale guarda
con indifferenza o fastidio al mondo profano della "quantità": "Un
bambino nato a Shanghai nel 1995 aveva meno probabilità di morire nel
suo primo anno di vita, più probabilità di imparare a leggere e scrivere
e poteva contare su una durata della vita superiore di due anni
(settantasei anni) a quella di un bambino nato a New York"(11). Ora il
governo cinese ha messo in atto una politica di giganteschi investimenti
per estendere anche alle regioni interne il prodigioso sviluppo
conseguito dalle regioni costiere. Risultati importanti sono già sotto
gli occhi di tutti: il Tibet "ha registrato una crescita economica tre
volte più veloce di quella degli Stati Uniti negli anni del boom tra la
fine dell'amministrazione Reagan e l'inizio dell'amministrazione
Bush"(12). Epperò sviluppo economico-sociale, accesso all'istruzione,
avvento della modernità con la sua carica emancipatrice, prolungamento
della durata media della vita, tutto ciò sembra essere irrilevante per
il populista immalinconito dalla nostalgia per i "vecchi telai" o,
peggio, per i "mulini di preghiere".
Si comprende il rancore tutto
particolare riservato alla figura di Deng Xiaoping. Questi ha avuto il
merito di criticare lo slittamento populistico, che portava la
Rivoluzione Culturale ad inseguire l'ideale di "un ascetismo universale
e un rozzo egualitarismo", duramente criticato dal Manifesto del partito
comunista(13). E invece - ha chiarito Deng - "non ci può essere
comunismo col pauperismo o socialismo col pauperismo"; è una
contraddizione in termini parlare di "comunismo povero"(14). Il
socialismo e il comunismo non hanno nulla a che fare con l'uguaglianza
nella miseria e nell'austerità e semplicità dei costumi: se anche per
tutto un periodo continua ad essere presente il problema di una
distribuzione in qualche modo giusta della penuria, in primo luogo
"socialismo significa eliminazione della miseria"(15). Il problema
principale è dunque costituito dallo sviluppo il più rapido possibile
delle forze produttive. E, invece, proprio in questo sviluppo il
populista lamenta la perdita, per dirla con Marx, di una mitica
"pienezza originaria"(16), ovvero denuncia, per dirla con Lenin, il
trionfo della volgarità e dei disvalori dell'"Occidente
materialista"(17).
3. Populismo e "cinismo da cretino"
Oltre che nell'ingenua trasfigurazione
del buon tempo antico e di rapporti sociali rurali e arretrati, il
populismo può trovare espressione in forme più "sofisticate". Si prenda
Proudhon: la proprietà è un furto - è il filo conduttore del suo libro
più celebre. Un'unica linea di demarcazione divide l'intera umanità in
proprietari e non proprietari, ladri e derubati, ricchi e derelitti. E'
l'unica contraddizione realmente rilevante. Proudhon bolla come
"pornocrazia" il movimento femminista ai suoi albori. Analogamente
deride e condanna le aspirazioni nazionali dei popoli oppressi come
espressione di attaccamento oscurantista a pregiudizi obsoleti. In
Polonia, la lotta per l'indipendenza e la resurrezione nazionale vede la
partecipazione anche di borghesi e persino di nobili. La cosa non
stupisce, dato che a subire l'oppressione è la nazione nel suo
complesso. Ma ciò è un motivo di scandalo per il populista incline a
pensare che l'unica contraddizione reale sia quella tra poveri e ricchi,
tra "popolo" umile e incorrotto da un lato e i grandi e i potenti
(borghesi e nobiliari) dall'altro. Di qui l'atteggiamento beffardo e
sarcastico che Proudhon assume nei confronti dei movimenti nazionali e,
in particolare, di quello polacco. Duro è il giudizio di Marx, che parla
a tale proposito di "cinismo da cretino", per di più al servizio o alla
coda dell'imperialismo zarista o, in altri casi, del bonapartismo di
Napoleone III(18).
Al populista francese siamo condotti a pensare,
allorché leggiamo Toni Negri sbeffeggiare "gli ultimi sciovinisti della
nazionalità": cosμ sono bollati quanti si attardano a difendere
l'indipendenza e la sovranità nazionale contro la realtà di un Impero
planetario, nell'ambito del quale l'unica contraddizione sarebbe quella
tra "il potere sovrano che governa il mondo" da un lato e la
"moltitudine" rivoluzionaria dall'altro. Assistiamo cosμ ad un
paradosso. Oggi è facile ritrovare presso autori borghesi il
riconoscimento del fatto che nel mondo è in atto un processo di
"ricolonizzazione": in questi termini si esprime, ad esempio, Carlo
Jean, docente della Luiss e generale degli alpini. D'altro canto, ad
affermare in modo esplicito il carattere benefico e necessario della
ricolonizzazione è il teorico ufficiale della "società aperta" e cioè
sir Karl Popper: "Abbiamo liberato questi Stati [le ex-colonie] troppo
in fretta e troppo semplicisticamente"; è come "abbandonare a se stesso
un asilo infantile". Per fortuna, qualche tempo fa il "New York Times",
dando la parola allo storico Paul Johnson, poteva annunciare:
"Finalmente torna il colonialismo, era ora"(19).
Dunque, non ci
dovrebbero essere dubbi sulla permanente attualità della questione
nazionale. Anzi, a ben guardare, essa si sta inasprendo. Basta guardare
le guerre che si sono succedute a partire dal crollo dell'Unione
Sovietica. 1991: la guerra contro l'Irak e l'imposizione di un
protettorato su un paese di decisiva importanza geoeconomica e
geopolitica sono state formalmente autorizzate dall'Onu. 1999: questa
autorizzazione viene considerata superflua nel corso della guerra contro
la Jugoslavia; ora si teorizza il diritto sovrano della Nato a scatenare
"guerre umanitarie", le quali peraltro non si limitano ad imporre il
protettorato ma procedono sino allo smembramento del paese aggredito.
2001: nel dichiarare che il terrorismo è presente in oltre 60 paesi, nel
decidere sovranamente chi sono i terroristi e nel preannunciare di
essere pronta a colpire chiunque a qualsiasi titolo appoggi o tolleri il
terrorismo, o sia indulgente e neutrale nei suoi confronti, di fatto
Washington si arroga il diritto di intervenire in ogni angolo del mondo,
senza tener conto né dell'Onu né della Nato. Se poi si tiene presente
che esponenti dell'amministrazione americana hanno fatto trapelare la
possibilità del ricorso ad armi nucleari, più o meno tattiche, allora
una conclusione si impone: gli Stati Uniti tendono a far pesare una
minaccia economica (l'embargo ai suoi diversi livelli), militare e
persino nucleare su ogni paese del mondo. E' stata messa in piedi una
macchina bellica di un'efficienza implacabile anche per quanto riguarda
il dispositivo politico-ideologico: l'amministrazione americana può
bollare come terroristica la resistenza palestinese, o alcune sue
correnti, ed ecco che risultano fuorilegge Stati come la Siria, l'Iran,
l'Iraq ecc.; oppure può consacrare quali "combattenti per la libertà" le
forze secessioniste che essa cerca di alimentare in questo o in quel
paese, ed ecco che una repressione giudicata eccessiva da Washington si
configura come un crimine, che apre le porte ad un giusto e severo
intervento "umanitario". Una lotta sanguinosa è in corso nel Kashmir
conteso tra India e Pakistan. La guerriglia può essere bollata come
terrorismo, ed allora diventa un legittimo bersaglio il Pakistan che
l'appoggia; oppure essa può essere innalzata alla dignità di lotta di
liberazione, ed allora diventa un legittimo bersaglio l'India che,
reprimendola duramente, si macchia di crimini contro l'umanità.
Consapevoli del rischio che corrono, i due possibili bersagli
s'impegnano in una gara per contendersi i favori di Washington, i favori
dell'aspirante sovrano planetario. E' necessario ribadirlo con forza: la
questione nazionale non è mai stata cosμ acuta.
Ma il peso
crescente delle multinazionali non riduce ad un guscio vuoto la
sovranità statale? Nel 1917, nell'Imperialismo fase suprema del
capitalismo, Lenin osserva: "Il capitale finanziario è una potenza
cosμ ragguardevole, anzi si può dire cosμ decisiva, in tutte
le relazioni economiche e internazionali, da essere in grado di
assoggettarsi anche paesi in possesso della piena indipendenza
politica"(20). Ciò però non significa che sia divenuta irrilevante la
lotta contro l'assoggettamento politico. I paesi che godono
dell'indipendenza politica cercano di consolidarla e renderla reale
mediante la conquista dell'indipendenza economica e cosμ si
scontrano con l'imperialismo che, in situazioni di crisi, pur di
mantenere la sua egemonia, è pronto a liquidare la stessa indipendenza
politica. A spiegare la tesi del dileguare della questione nazionale è
solo l'influenza che populismo e neo-proudhonismo esercitano nell'ambito
del movimento anti-globalizzazione.
4. Purismo populista e fuga dalla complessità
Ferma restando la
centralità della lotta per la difesa e la conquista della sovranità
statale, in che modo essa si manifesta ai giorni nostri? Negli anni '60
del Novecento ha conosciuto una certa fortuna la tesi di Lin Piao, che,
nell'appoggiare le lotte di liberazione nazionale in atto nel Terzo
Mondo, auspicava il progressivo accerchiamento della città capitalistica
ad opera di una campagna povera e rivoluzionaria. Anche in questa
visione è evidente la presenza del populismo. Si trattava della
generalizzazione arbitraria di un bilancio storico peraltro errato della
rivoluzione cinese. Il partito comunista era giunto alla vittoria non
già limitandosi a stimolare e dirigere le lotte dei contadini poveri, ma
sapendosi mettere anche alla testa della lotta della nazione cinese nel
suo complesso contro l'invasione e l'occupazione militare giapponese e
costruendo un largo fronte unito di cui la borghesia nazionale era parte
integrante ed essenziale. Per di più, il movimento di resistenza e di
liberazione nazionale non aveva esitato ad utilizzare le rivalità e i
conflitti tra le grandi potenze imperialistiche. Una visione che a
livello internazionale veda agire solo la contraddizione tra paesi
deboli e paesi forti, paesi poveri e paesi ricchi, tra Terzo Mondo e
metropoli capitalistica è da considerare una riedizione in forma nuova
del populismo.
Intanto, nell'ambito del Terzo Mondo spicca un paese
che sta fuoriuscendo dal sottosviluppo e che, anche a voler astrarre dal
fatto che esso continua ad essere diretto da un Partito comunista, già
con le sue dimensioni e col tasso spettacolare di crescita della sua
economia, è avvertito come una minaccia dagli Usa. Ma lasciamo pure da
parte la Cina. Concentriamo la nostra attenzione su Usa, Russia,
Giappone, Germania, Francia ecc. e Unione Europea nel suo complesso. Si
tratta senza eccezione di paesi capitalisti, che però non possono essere
messi sullo stesso piano. La cosa è immediatamente evidente per la
Russia. A suo tempo, un autorevole giornalista e studioso non ha esitato
a definire Eltsin come un Quisling, cioè come dirigente di uno Stato
solo formalmente sovrano e in realtà fantoccio al servizio di una
potenza imperiale esterna(21). E' probabile che in tale definizione ci
sia un elemento di esagerazione. Resta il fatto che la Russia, sempre
più incalzata dall'espansione della Nato ad Est, deve affrontare spinte
separatiste e secessioniste, spesso alimentate dall'esterno e che non a
caso si manifestano lungo le rotte strategiche del petrolio.
Ma
neppure i paesi di più consolidata tradizione capitalistica e
imperialistica possono essere messi sullo stesso piano. Contro la
tendenza diffusa anche tra i comunisti a condannare in modo equanime e
imparziale l'imperialismo americano, giapponese ed europeo, conviene
ricordare la conversazione di Mao con una giornalista americana di
orientamento comunista (Anne Louise Strong). Siamo nell'agosto 1946: lo
scoppio della guerra fredda stimola una visione bipolare del mondo, in
base alla quale al campo socialista ferreamente unificato si contrappone
un campo capitalista unificato in modo non meno ferreo. Ma ecco che il
dirigente del partito comunista cinese sviluppa un'analisi del tutto
diversa:
"Gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica sono separati da una
zona molto vasta che comprende numerosi paesi capitalistici, coloniali e
semicoloniali in Europa, in Asia e in Africa. Fino a quando i reazionari
statunitensi non avranno assoggettato questi paesi, un attacco contro
l'Unione Sovietica è fuori questione. [Gli Stati Uniti] controllano da
lungo tempo l'America centrale e meridionale, e cercano di porre sotto
il loro controllo anche l'intero Impero britannico e l'Europa
occidentale. Con vari pretesti, gli Stati Uniti adottano provvedimenti
unilaterali su vasta scala ed installano basi militari in molti paesi
[...] Attualmente [...] non l'Unione Sovietica, ma i paesi in cui queste
basi militari vengono installate sono i primi a subire l'aggressione
USA"(22).
Come si vede, Mao non esita a far ricorso alla categoria
di "aggressione" per definire il rapporto che l'imperialismo
statunitense istituisce con le grandi potenze capitalistiche e persino
con "l'Impero britannico". In modo analogo, alcuni anni più tardi,
Stalin chiama i partiti comunisti dell'Europa occidentale a
"risollevare" la "bandiera della indipendenza nazionale e della
sovranità nazionale [...] gettata a mare" dai governanti borghesi(23).
Questi, cioè, vengono criticati in primo luogo non già in quanto
imperialisti in prima persona ma in quanto succubi dell'imperialismo
americano.
Alle spalle sia di Mao che di Stalin agisce forse la
lezione di Lenin. Questi, nel ribadire nel 1916 il carattere
imperialista del primo conflitto mondiale allora in pieno svolgimento,
osserva tuttavia che se esso fosse terminato "con vittorie di tipo
napoleonico e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali
capaci di vita autonoma [...], allora sarebbe possibile in Europa una
grande guerra nazionale"(24). La situazione qui appena evocata si
verifica in realtà nel corso del secondo conflitto mondiale: la vittoria
di tipo napoleonico inizialmente conseguita dal Terzo Reich pone
all'ordine del giorno guerre di liberazione nazionale nel cuore stesso
dell'Europa. E' su questa base che si sviluppa la Resistenza non solo in
Jugoslavia, Albania, Cecoslovacchia ma anche in Francia e, più tardi, in
Italia.
Per comprendere adeguatamente l'odierna situazione
internazionale, è necessario prendere atto che nel 1991 gli Usa hanno
conseguito una vittoria che rassomiglia ad una vittoria di tipo
napoleonico. Cosμ grave è la sconfitta dell'Unione Sovietica che
dalla guerra fredda essa ne è uscita smembrata: parti cospicue del suo
precedente territorio nazionale non solo si sono costituite come Stati
indipendenti, ma sono entrate a far parte o si apprestano a entrare a
far parte del sistema di alleanze diretto da Washington (è il caso degli
Stati baltici, della Georgia ecc.). Per quanto riguarda l'Unione Europea
e il Giappone, la loro tecnologia militare sta subendo un ritardo sempre
più grave rispetto alla tecnologia militare febbrilmente sviluppata
dagli Usa e incessantemente sperimentata attraverso una serie di guerre
"limitate": è in atto quella che gli strateghi del Pentagono definiscono
orgogliosamente come la RMA, ovvero come la Revolution in Military
Affairs.
Pur assai rilevante, l'aspetto militare passa in secondo
piano rispetto ad un altro forse ancora più importante. Subito dopo la
seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti introducono in Giappone una
Costituzione che fa professione di un radicale antimilitarismo:
nell'art. 9 trova espressione in modo solenne la rinuncia al
tradizionale "diritto sovrano della nazione" alla guerra, all'uso della
forza e alla minaccia dell'uso della forza. Ora è Washington a suggerire
quando questo articolo può e deve essere considerato superato e
aggirabile. Analoghe considerazioni possono essere fatte a proposito
della Germania. Il rapporto che gli Usa intrattengono coi loro "alleati"
è caratterizzato dalla schiacciante superiorità che i primi detengono
non solo in campo militare ma anche, e forse ancora di più, in campo
ideologico e politico-diplomatico: in ultima analisi è la Casa Bianca a
detenere le chiavi della legittimazione del ricorso alla forza da parte
del Giappone e della Germania, a decidere se tale ricorso alla forza è
espressione della nuova realtà "democratica" di quei due paesi oppure
rinvia ad una sciagurata tradizione messa in stato d'accusa dai
tribunali internazionali di Tokyo e Norimberga. Con la vittoria
conseguita nel corso della seconda guerra mondiale e della guerra
fredda, gli Stati Uniti hanno conseguito il potere di "scomunicare" i
loro nemici prima ancora che di distruggerli.
Oltre alla Cina e a
Cuba, a rifiutarsi di mettere sullo stesso piano gli Stati imperialisti
o con potenzialità imperialiste, sono gli stessi movimenti rivoluzionari
impegnati in lotte assai difficili. Ciò non vale solo per la resistenza
palestinese. Si veda la recente presa di posizione di un dirigente delle
Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia):
"L'atteggiamento
europeo rispetto al Piano "gringo" contro la Colombia è stato prudente
[...] Ma l'Europa può avere un ruolo ancora più decisivo, non
partecipando né apertamente, né in maniera nascosta alle politiche
decise a Washington. La verità è che l'Europa può e deve avere un
maggiore protagonismo in America Latina e nei Caraibi"(25).
In
Italia i comunisti sono in una situazione particolarmente favorevole per
comprendere la duplice natura del paese in cui vivono e lottano. Se da
un lato, con D'Alema prima ancora che con Berlusconi, l'Italia ha
assunto pose mussoliniane e da grande potenza imperiale, dall'altro essa
è stata devastata dalla strategia della tensione e dalle stragi
architettate a Washington e continua a subire una condizione di
sovranità limitata, come è ulteriormente confermato dalla vicenda del
Cermis (sottratti alla giurisdizione italiana, i militari americani
godono in pratica dell'immunità). E cioè, se da un lato partecipa in
funzione subalterna a infami aggressioni imperialiste, dall'altro
l'Italia è essa stessa bersaglio dell'"aggressione" dell'imperialismo
Usa (per riprendere l'analisi e la categoria fatte valere nel 1946 da
Mao Tsetung). Sia pure con opportune cautele, considerazioni analoghe
potrebbero essere fatte valere per l'Unione Europea nel suo complesso
che - non dimentichiamolo - continua a subire senza soverchie proteste
lo spionaggio economico e militare messo in atto da Washington tramite
Echelon.
In conclusione, come emerge dalla lettura della storia del
movimento comunista internazionale, dalla prese di posizione dei
movimenti rivoluzionari e, in primo luogo, dall'analisi concreta della
situazione concreta, mettere sullo stesso piano le grandi potenze
capitalistiche non è affatto sinonimo di rigore rivoluzionario e
comunista. Conviene piuttosto chiedersi se in tale atteggiamento purista
non ci sia un residuo di populismo, che avverte come elemento di
disturbo ogni analisi che fuoriesca dallo schema della contraddizione
unica (quella tra umili e potenti) e come elemento di contaminazione
qualunque rapporto che vada al di là del mondo degli umili. Se anche la
contraddizione umili/potenti dovesse ora assumere una forma statuale e
configurarsi come la contraddizione tra paesi poveri del Terzo Mondo e
paesi ricchi e imperialisti, se la si continua a far valere come una
contraddizione unica, si rimane pur sempre nell'ambito del populismo.
5. Il carattere
pervasivo del populismo
Siamo in presenza di una corrente di pensiero, di una tendenza
che si manifesta nei più diversi ambiti problematici. Per rendercene
conto ritorniamo a Lenin. Il Che fare? è pressappoco contemporaneo alla
polemica già vista contro il romanticismo economico, contro il
populismo. Non a caso nel Che fare? svolge una funzione essenziale la
confutazione della tesi secondo la quale presso le classi subalterne,
presso il popolo in quanto tale, sarebbe depositata la coscienza
rivoluzionaria, una superiore visione del mondo, non contaminata dai
disvalori borghesi. E invece per Lenin la coscienza rivoluzionaria è una
costruzione che implica il contributo decisivo degli "intellettuali
borghesi" e l'assunzione di un'eredità teorica che è in larga parte il
lascito di intellettuali borghesi (si pensi a Hegel). D'altro canto,
"per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo
scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali
borghesi"(26). E a loro volta già Marx ed Engels, mentre da un lato
sottolineano la funzione controrivoluzionaria spesso giocata dal
sottoproletariato, dagli "straccioni", dall'altro richiamano
l'attenzione sul contributo che alla formazione della coscienza e del
movimento rivoluzionario forniscono i transfughi della borghesia (in
primo luogo gli intellettuali). Non c'è posto qui per il mito populista
in base al quale la coscienza rivoluzionaria, la prospettiva di una
società più giusta, sarebbe il dato naturale e immediato del popolo,
degli umili, degli oppressi (ovvero della classe operaia: l'operaismo è
una variante del populismo). L'odierno fastidio per la forma-partito e
la tendenza a sciogliere il partito comunista nel movimento del "popolo
di Seattle" sono una delle forme in cui si manifesta il ritorno del
populismo.
Analizzando il movimento populista americano della
seconda metà dell'Ottocento, un eminente storico statunitense ha
osservato che a caratterizzarlo è anche "la concezione della storia come
cospirazione"(27). Dato che il popolo è l'incarnazione naturale e
immediata dei più alti valori umani, il regno della giustizia e della
felicità è a portata di mano: basta solo neutralizzare i potenti e i
traditori. Di rado è stato notato il peso che questa visione del mondo
ancora oggi esercita nell'ambito della sinistra occidentale. Negli anni
attorno al '68 ha conosciuto una notevole diffusione un libro di Renzo
Del Carria che già nel titolo (Proletari senza rivoluzione) forniva la
chiave di lettura della storia del nostro paese dal Risorgimento alla
Resistenza. Perché la lotta contro il fascismo non si era conclusa con
l'avvento del socialismo? Ma è chiaro: Stalin a Yalta e Togliatti a
Salerno l'avevano impedito. Risposte analoghe venivano fornite per la
Settimana rossa del 1914, per i moti del 1898 e per quelli ancora
precedenti. Queste risposte semplicistiche, in un libro peraltro
interessante e ricco, si possono spiegare solo con l'influenza del
populismo: sempre animate dall'amore della giustizia, le masse finivano
regolarmente con l'essere abbandonate o tradite, nel momento cruciale,
da dirigenti e burocrati.
Per rendersi conto dell'influenza tuttora
esercitata da questa ideologia o visione del mondo, poniamoci ora un
problema di carattere più generale: perché il regime scaturito
dall'Ottobre bolscevico ha deluso prima le speranze di molti, che pure
avevano salutata con entusiasmo la sua nascita, e poi è risultato
sconfitto nello scontro col mondo capitalista? "Chi ha ucciso la
rivoluzione?" - titolava qualche tempo fa "Rifondazione", l'organo
teorico di Rifondazione Comunista pubblicato come supplemento a
"Liberazione". Era una domanda retorica, ma per chi ancora avesse avuto
dubbi, a fugarli provvedeva in prima pagina una foto di Stalin, che
sembrava farsi beffe della rivoluzione da lui assassinata con fredda e
cosciente determinazione. Nel dare questa "spiegazione" Rina Gagliardi
sapeva di essere in sintonia con larghi settori della sinistra italiana
e occidentale. In effetti, il populismo ha conseguito un tale successo
da diventare luogo comune.
Come devono configurarsi i rapporti
politici, economici e sociali dell'"ordine nuovo" chiamato a prendere il
posto del capitalismo? Attraverso quali processi possono e devono essere
realizzati? Quali sono le priorità e in che modo può essere
neutralizzata e sconfitta la formidabile coalizione di forze impegnate a
perpetuare o restaurare l'antico regime? Bisognerebbe partire da queste
domande per comprendere i dubbi, le scelte, le oscillazioni, i
ripensamenti, le contraddizioni, i conflitti, gli errori e i crimini di
un gruppo dirigente o, al suo interno, di questa o quella personalità.
Ma di questa analisi non avvertono alcun bisogno i populisti, i quali si
cullano in una confortevole certezza: il popolo, le masse sanno
istintivamente qual è il regno della libertà e della giustizia e vi
aspirano con tutte le loro forze; se esso non si realizza, è chiaro che
è intervenuto un tradimento, il tradimento di un individuo assetato di
potere che non condivide i generosi ideali del mondo degli umili. Il
"traditore" o "l'assassino" della rivoluzione nell'Unione Sovietica è
Stalin, in Cina è Deng. Più problematica si presenta l'individuazione
del malfattore in paesi come la Jugoslavia o il Vietnam; ma non per
questo il populista si scoraggia e rinuncia al mito della
"cospirazione".
Lo studioso statunitense precedentemente citato fa
notare che "l'utopia populista è situata nel passato, non nel
futuro"(28). E' un tratto che possiamo riscontrare anche nell'odierno
populismo, presente in movimenti e partiti che pure si richiamano al
comunismo. Certo, il progetto rivoluzionario dovrebbe per definizione
rinviare al futuro; senonché, allorché analizzano le rivoluzioni
storicamente verificatesi, i populisti individuano il momento magico
sempre e solo nel passato, in uno stadio che subito dilegua per
l'intervento di potenti e prepotenti, di traditori estranei al popolo e
agli ideali di libertà e di giustizia che immancabilmente lo animano.
D'altro canto abbiamo visto "Liberazione" dare talvolta voce al
populismo, ben più radicale, di coloro che scrivono o poetano sotto
l'incantesimo del "Tibet perduto", cioè del Tibet pre-rivoluzionario,
feudale e schiavista.
I populisti di sinistra talvolta si
richiamano alla Rivoluzione Culturale. In particolare amano agitare una
parola d'ordine che, dal punto di vista marxista, è particolarmente
discutibile. "Ribellarsi è giusto"! Come se la storia non fosse
costellata di ribellioni reazionarie, ad esempio quella dei proprietari
di schiavi nel Sud degli Usa, e come se queste ribellioni non fossero
spesso scandite da una fraseologia libertaria! Abbiamo a che fare in
realtà con una parola d'ordine che ci riconduce al populismo.
Rinunciando ad un'analisi di classe, essa implica una dicotomia
popolo/governanti ovvero umili/potenti, nell'ambito della quale è sempre
il potere a rappresentare il momento negativo.
Ad una sorta di
populismo si è ridotto anche il "trotskismo" dei giorni nostri. Solo
cosμ si può spiegare il fatto che esso vada alla ricerca disperata
di qualsiasi movimento di massa, anche se di segno chiaramente
reazionario, per ribattezzarlo in chiave rivoluzionaria. Assimilato a
Quisling da un autorevole giornalista e studioso della Russia, Eltsin è
stato invece a suo tempo celebrato come il protagonista di una
rivoluzione antiburocratica da parte di certi ambienti "trotskisti". Se
vittoriosi, i moti di Piazza Tien An Men del 1989 avrebbero significato
l'ascesa al potere di un Eltsin cinese, ma anche in questo caso non
mancano i trotskisti che gridano alla rivoluzione tradita e repressa!
Una rivoluzione di cui sarebbero stati protagonisti studenti che
portavano in trionfo l'effige della Statua della Libertà, e che si
sarebbe verificata nello stesso momento in cui l'Occidente capitalista e
imperialista trionfava in Europa orientale, e in tutto il mondo i
partiti comunisti si affrettavano, l'uno dopo l'altro, a cambiare nome.
A questi miracoli si può credere solo a condizione di essere populisti,
a condizione cioè di rinunciare all'analisi laica delle classi e della
lotta di classe per sostituirla con la credenza mitologica nel valore
comunque salvifico del "popolo" e delle "masse".
Ho parlato di
"trotskisti", facendo costante ricorso alle virgolette, al fine di
distinguere la caricatura farsesca dall'originale tragico cui essa
pretende di richiamarsi. Certo, il pericolo dello slittamento
populistico è ben presente nel pensiero di Trotski, con la sua
ossessione a spiegare col ruolo infausto di burocrati ben pasciuti le
difficoltà e gli arretramenti, veri o presunti, di una rivoluzione
portata avanti da masse sempre disposte a qualsiasi sacrificio, come se
nella storia non si fossero mai verificate situazioni in cui il
burocrate di partito e di Stato risulta più avanzato del "popolo"! E,
tuttavia, enorme è la differenza che separa Trotski dai suoi sedicenti
seguaci di oggi. In un momento storico che sembrava caratterizzato
dall'avanzata irresistibile della rivoluzione, egli poteva ben sperare
in una radicalizzazione "antiburocratica" della rivoluzione russa. Ma
non si sarebbe mai sognato di legittimare come rivoluzionario Eltsin o i
dirigenti dell'Uck alimentati e coccolati dalla Nato, cosμ come non
s'era mai sognato di definire rivoluzionari le bande vandeane del
cardinale Ruffo! D'altro canto, Trotski non aveva esitato a reprimere, e
anche con particolare brutalità, stando almeno alle accuse dei suoi
avversari, una rivolta come quella di Kronstadt, pure scoppiata agitando
la parola d'ordine del ritorno all'originaria democrazia sovietica,
calpestata dal monopolio del potere usurpato e detenuto dai burocrati
bolscevichi.
Se per un verso, in ragione della sua indulgenza per
la frase antiburocratica, presenta qualche punto di contatto col
populismo, per un altro verso Trotski è, fra i dirigenti bolscevichi,
colui che ha sviluppato la critica più lucida e più vigorosa contro la
visione del socialismo come socializzazione della miseria, cioè contro
un aspetto essenziale dell'odierno populismo "comunista" La
ricostruzione di un punto di vista marxista e comunista, con la
neutralizzazione delle influenze populiste, comporta dunque il
superamento delle vecchie polemiche tra stalinismo e trotskismo
cosμ come delle polemiche altrettanto obsolete tra titoismo e
antititoismo ovvero tra maoismo e antimaoismo. Bisogna saper accogliere
in un ideale pantheon rivoluzionario Trotski e Stalin assieme a Lenin e
Bucharin; Tito e le sue vittime fedeli al Cominform e all'URSS; Mao
assieme a Liu Shao-chi e a Deng Xiaoping. Sono stati tutti protagonisti
di un grandioso processo di emancipazione e, al tempo stesso, di una
grande tragedia storica. Cosμ come, per quanto riguarda la
rivoluzione francese, in un ideale pantheon c'è posto per Danton
cosμ come per Robespierre e i suoi "arrabbiati" critici di
sinistra, tutti protagonisti e vittime di un altro grandioso processo di
emancipazione e di un'altra grande tragedia storica.
6. Il mito populista e
qualunquista della "nuova Yalta"
Negli sviluppi della "guerra contro il terrorismo",
e soprattutto nell'incontro di Shanghai tra Jiang Zemin, Bush e Putin, i
populisti hanno visto la piena conferma della loro analisi: dileguate
definitivamente le contraddizioni e i conflitti tra le grandi potenze,
assisteremmo all'avvento di un mondo che vedrebbe da un lato i potenti
del pianeta, ormai coalizzati in un'unità corale e senza incrinature, e
dall'altro i diseredati, gli esclusi, gli umili. Contro la "nuova Yalta"
si erge soltanto il "popolo di Seattle": è questa la tesi proclamata da
certi articoli di "Liberazione" e del "Manifesto".
Ma ora proviamo
a sfogliare la grande stampa d'informazione, italiana e internazionale.
Con riferimento in particolare alla Russia, alla Gran Bretagna e alla
Germania, l'"International Herald Tribune" già nel titolo a tutta pagina
osserva: "I paesi-guida dell'Europa utilizzano la crisi afghana per
rafforzare il loro ruolo mondiale"(29). Il "Corriere della Sera"
cosμ giustifica e sollecita la partecipazione italiana alla guerra:
"Ogni governo deve certo misurare i rischi e tener conto degli umori di
casa, ma con l'avvento delle "coalizioni flessibili" chi vuole ottenere
voce in capitolo deve saper prendere l'iniziativa e pretendere un ruolo
prima che vengano distribuite patenti di merito [...] Quel che dobbiamo
invece riconoscere, piaccia o non piaccia, è che un conflitto armato
disegna sempre nuove gerarchie mondali di potere e di influenza [...]
Ora l'Italia deve rincorrere, non perché ami la guerra ma perché ha
capito quanto può costare non farla"(30). Come si vede, persino per
quanto riguarda l'Occidente, la convinta partecipazione alla spedizione
punitiva contro l'Afghanistan non è in alcun modo la fine della rivalità
e della contesa per l'acquisizione delle sfere d'influenza e
dell'egemonia.
Ma oggi la contraddizione più acuta è ovviamente
un'altra. Riapriamo l'"International Herald Tribune". Ecco un altro
titolo a tutta pagina: "la svolta politica di Pechino sfida l'influenza
americana in Asia"(31). Chi ancora non avesse capito può trarre profitto
dalla lettura, questa volta, del settimanale tedesco "Die Zeit": "Sotto
molti aspetti, a partire dalla guerra in Afghanistan, tra Pechino e
Washington un conflitto in vecchio stile tra grandi potenze è diventato
persino più probabile di un autentico avvicinamento(32).
Come si
vede, non c'è traccia qui dell'abbraccio sino-americano di cui
favoleggiano i populisti. Da un lato la Cina prende atto con sollievo
che, almeno per qualche tempo, Washington difficilmente potrà seguire la
raccomandazione dell'"esperto" statunitense, William D. Shingleton, che
invita l'amministrazione del suo paese a far tesoro dell'esperienza
dello smembramento dell'URSS per "affrontare in maniera più coerente la
futura frammentazione della Cina"(33). Il grande paese asiatico coglie
dunque l'occasione della crisi per cercare di allentare la pressione
militare e politico-diplomatica esercitata dagli Stati Uniti (e in
particolare dall'amministrazione Bush) e di consolidare l'indipendenza
politica, sia neutralizzando le interferenze statunitensi, sia
rilanciando ulteriormente lo sviluppo economico mediante lo
sgretolamento del semi-embargo tecnologico imposto dagli Usa. Dall'altro
lato, se anche in questo momento Washington è costretta a concentrarsi
su altri bersagli, non per questo ha rinunciato all'obiettivo del
contenimento o dell'aggressione ai danni del grande paese asiatico: su
"La Stampa" si può leggere che Jiang Zemin deve "mettere nel conto che
la battaglia contro i talebani è condotta in nome di principi che
potrebbero essere applicati un giorno" contro la stessa Cina (oltre che
contro la Russia)(34). Una superpotenza accelera la sua corsa per il
conseguimento del dominio o dell'egemonia planetaria; un paese del Terzo
Mondo accelera la sua corsa per la fuoriuscita dal sottosviluppo e dalla
situazione di pericolo anche militare che il sottosviluppo comporta.
Senonché, per i populisti, i "potenti" sono tutti uguali: il populismo è
una forma di qualunquismo.
Un'ultima considerazione. I devoti del
mito populista e qualunquista della "nuova Yalta" dimenticano che la
Yalta storica del 1944 è stata l'immediata vigilia di una terribile
guerra fredda! Il fatto è che, assieme all'oblio delle regole della
grammatica e della sintassi del discorso politico, il populismo comporta
anche la perdita della memoria storica. In tali condizioni diventa assai
problematica e smarrisce comunque ogni efficacia la lotta per la pace e
contro la politica di guerra dell'imperialismo.
Domenico Losurdo
Riferimenti bibliografici
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Se l'Italia vuole avere una voce, "Corriere della Sera", 15 ottobre, pp.
1 e 15
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Crisis to Enhance World Role, in "International Herald Tribune", 12
ottobre, p. 7
Note
1. Marx-Engels, 1975, p.76.
2. Marx Engels, 1975,
p.72.
3. Sismondi, 1975, pp. 208-209.
4. Marx-Engels, 1955, vol.
XXVI, 3, p.50.
5. Lenin, 1955, vol.II, p.218.
6 Marx-Engels,
1975, p.77.
7. Bonanni, 2001.
8. Lenin, 1955, vol. XVIII, p.
154.
9. Gagliardi, 1999.
10. Marx-Engels, 1955, vol.IV,
p.466.
11. Gray, 1998, p.118.
12. Overholt, 1994, p.69.
13.
Marx-Engels, 1955, p.489.
14. Deng Xiaoping, 1994, p. 174.
15.
Deng Xiaoping, 1994, p. 122.
16. Marx, 1953, pp.80-82.
17.
Lenin, 1955, vol. XVIII, p. 154.
18. Marx-Engels, 1955, vol. XVI,
p.31.
19. Cfr. Losurdo, 1993, par. 3.
20. Lenin, 1955, vol.
XXII, p. 260.
21. Chiesa, 1997, p.8.
22. Mao Tsetung, 1975,
pp.95-96.
23. Stalin, 1953, pp. 153-4.
24. Lenin, 1955, vol.
XXII, p. 308.
25. Reyes, 2000.
26. Lenin, 1955, vol. V, p.
106.
27. Hofstaster, 1962, pp. 53 e 60 sgg..
28. Hofstadter,
1962, p. 54.
29. Vinocur, 2001.
30. Venturini, 2001, p.15.
31. Pomfret, 2001.
32. Blume e Yamamoto, 2001.
33. In Mini,
1999, p. 92.
34. Spinelli, 2001.