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- pensiero resistente - imperialismo e globalizzazione - 30-06-09 - n. 280
L’articolo che segue è la traduzione integrale di quello apparso sul n. 83 della rivista francese “Recherches Internationales” col titolo “Mettre en deroute l’islam politique et l’imperialisme”.
Traduzione di Sergio Ricaldone
Sconfiggere l’Islam politico e l’imperialismo (prima parte)
Samir Amin (Presidente del Forum Mondiale delle Alternative)
Dopo avere ben connotato l’Islam politico nelle sue varianti “radicali” e “moderate”, l’autore insiste sulla loro sostanziale convergenza con l’imperialismo che non ha mai esitato a intervenire ogni volta che questa convergenza politica è stata minacciata dalle avanzate rivoluzionarie, le cui sconfitte sono a loro volta attribuibili alle debolezze delle forze progressiste, sinistre nazionaliste, democratiche, comuniste. L’autore esamina e insiste lungamente su quattro esperienze: Afganistan, Sudan, Iraq, Yemen del Sud. Washington non teme la presa del potere da parte delle forze “islamiche moderate” con le quali non gli è difficile raggiungere compromessi. Una alternativa democratica nella regione medio-orientale esige invece la sconfitta simultanea del progetto di controllo militare dell’imperialismo e del progetto teocratico reazionario dell’islam politico.
La scena politica medio-orientale è interamente occupata dal dispiegamento del progetto militare degli Stati Uniti e da quelli messi in campo dall’islam politico sul versante opposto. Ma si tratta veramente di progetti contrapposti ? Cercherò di spiegare le ragioni per cui non lo sono affatto (1).
Il progetto degli Stati Uniti, sostenuto dagli alleati subalterni europei e israeliani, mira a stabilire il controllo militare sull’insieme del pianeta. Il “Medio Oriente/Caucaso/Asia centrale” è stato scelto, in questa prospettiva, come primaria regione strategica per quattro ragioni : i suoi giacimenti petroliferi sono i più abbondanti del pianeta e il loro diretto controllo militare darebbe a Washington una posizione privilegiata mettendo i suoi alleati – Europa e Giappone – e i suoi antagonisti - la Cina - in una scomoda posizione di dipendenza per i loro bisogni energetici; essa è situata nel cuore del vecchio mondo e ciò facilita l’esercizio della minaccia militare permanente contro la Cina e la Russia; la regione attraversa un momento di debolezza e di confusione che permette all’aggressore di assicurarsi una facile vittoria, almeno nell’immediato; gli Stati Uniti dispongono nella regione di un alleato fedele, Israele, che dispone di armi nucleari.
Lo schema dell’aggressione prevede l’inclusione di paesi e nazioni situati sulla linea del fronte (Afganistan, Iraq, Palestina, Libano, Siria e Iran) nella potenziale condizione di paesi distrutti (i primi quattro), o minacciati di esserlo (Siria e Iran).
La questione per Washington è quella di sapere quale regime politico sia in grado di sostenere localmente un simile progetto. Il marketing propagandistico di Washington promette, come al solito, “democrazia”. In effetti Washington non si impegna ad altro che a sostituire gli autocrati usurati da un populismo superato con altri autocrati oscurantisti islamici, come impone la specificità culturale di ciascuna comunità. L’alleanza rinnovata con un Islam politico “moderato” capace cioè di padroneggiare la situazione con un certo grado di efficacia e impedire le derive “terroriste” dirette contro gli Stati Uniti - solo quelle, beninteso - rappresenta l’asse dell’opzione politica di Washington. L’alleanza privilegiata tra gli USA e l’arcaica autocrazia saudita dell’islam wahabita si colloca appunto in questo quadro.
A fronte di quello americano, gli europei hanno messo a punto un loro progetto chiamato “partneriato euro mediterraneo”. Un progetto assai poco audace, pieno di chiacchiere senza seguito, che si propone a sua volta l’obbiettivo di “riconciliare i paesi arabi con Israele”, ma che esclude i paesi del Golfo da questo “dialogo euro mediterraneo”, riconoscendo che la gestione dei rapporti con questi paesi è competenza esclusiva di Washington.
I popoli dei paesi arabi coinvolti sembrano d’altra parte seguire massicciamente i partiti dell’Islam politico, siano essi moderati o estremisti e “terroristi”.
Islam “radicale” e islam “moderato” differiscono solo sulle tattiche da seguire, ma l’obbiettivo è comune.
Il progetto dell’islam politico non ha la dimensione sociale necessaria per poter dare legittimità alle trasformazioni necessarie per reggere la sfida del capitalismo (2). E’ un progetto conservatore, assolutamente accettabile dall’ordine mondiale del capitalismo, ossia un progetto di dittatura politica dei capi religiosi, che non esclude affatto ma integra le altre componenti del blocco egemonico reazionario : l’armata e la borghesia compradora antidemocratica.
L’islam, come tutte le altre religioni, ha saputo talvolta adattarsi a delle società diverse da quelle in cui è nato. Ma il terzo secolo dopo l’egira (fuga di Maometto, dalla Mecca alla Medina, nell’anno 622, ndt ) Ibn Hanbal elabora un Credo che sarà ufficializzato dal potere e imposto come sola forma di interpretazione dei sacri testi, escludendone qualsiasi altra. Da quel momento in poi l’islam praticato (detto degli “ancestrali” – Islam Salafi) non è altro che quello diventato, a partire dal quinto secolo dopo l’egira, l’interpretazione religiosa di un mondo ormai bloccato ed entrato nella fase di decadenza.
L’islam politico contemporaneo non propone altro che una versione convenzionale e sociale della religione limitata al rispetto formale e integrale delle pratiche rituali. Questa versione dell’islam può essere definita una “comunità” alla quale si appartiene per diritto ereditario (l’etnicità) e non per una convinzione personale intima e forte. Suo scopo è soltanto quello di affermare un’identità collettiva. Nient’altro.
L’islam politico contemporaneo non è il prodotto di una reazione ad abusi compiuti in nome della laicità, poiché nessuna società mussulmana dei tempi moderni – salvo quelle facenti parte della scomparsa Unione Sovietica – non è mai stata veramente laica. Lo Stato semimoderno della Turchia kemalista, dell’Egitto nasseriano, della Siria e dell’Iraq baasisti, si è limitato ad ammansire gli uomini di religione per poter imporre loro un percorso destinato esclusivamente a legittimare le opzioni politiche del potere statuale. L’innesto di un’idea laica non ha mai fatto presa sullo Stato; quest’ultimo, accantonato il progetto nazionalista, è talvolta ripiegato su posizioni più arretrate. La spiegazione di questo compromesso al ribasso è abbastanza evidente : escludendo la democrazia questi regimi l’hanno sostituita con il concetto di “omogeneità della comunità”, la cui crescente pericolosità ha finito per intaccare la nozione di democrazia nello stesso Occidente contemporaneo.
Non c’è alcun dubbio che l’emergere di movimenti che si richiamano all’islam è l’espressione di una rivolta perfettamente legittima contro un sistema che non ha nulla da offrire ai popoli in questione. E’ importante rilevare che la legislazione in atto nelle periferie del sistema capitalistico mondiale mostra tutta l’impotenza della borghesia nazionale, incapace di compiere una rivoluzione democratica borghese – prima proclamata poi abbandonata – per paura dell’emergere di rivendicazioni popolari.
Simultaneamente questa legislazione e l’esercizio dell’autocrazia che l’accompagna costituiscono un handicap supplementare all’organizzazione della classe operaia e contadina. Questa doppia impotenza delle moderne classi lavoratrici a regolare con le loro lotte e/o i loro compromessi la questione del potere, ha aperto la via ai colpi di Stato e al nazionalismo populista il quale, a sua volta, ha rapidamente esaurito il suo potenziale di trasformazione della società necessario per affermare la propria indipendenza e far fronte al sistema mondiale dominante.
Il nasserismo e il baasismo hanno soppresso con la violenza i due poli attorno ai quali si organizza la vita politica : il polo liberal-borghese – o meglio, moderatamente democratico – e il polo comunista. La depoliticizzazione che questa doppia soppressione ha prodotto ha creato un vuoto che l’islam politico ha riempito, preceduto dal processo di islamizzazione dello Stato e della società deciso dai populismi nazionali per sbarrare la strada al comunismo.
L’islam politico moderno era stato inventato dagli orientalisti al servizio del potere britannico in India prima di essere ripreso tale e quale dal Mawdudi Pakistanese. Si trattava di “provare” che i mussulmani credenti non erano autorizzati a vivere in uno
Stato che non fosse egli stesso islamico (così è stata anticipata la spartizione dell’India) poiché l’islam esclude la possibilità di una separazione tra Stato e religione. I suddetti orientalisti hanno omesso di ricordare che gli stessi inglesi del 13° secolo non concepivano una loro sopravvivenza al di fuori della cristianità.
Abu Ala Mawdudi riprende dunque il teorema secondo il quale il potere emana da Dio e da lui solo, rifiutando perciò il concetto che siano i cittadini ad avere il diritto di legiferare. Lo Stato islamizzato non ha che il compito di applicare la legge - ossia la “charia” – una volta per tutte. Joseph de Maistre aveva già scritto cose analoghe, accusando la Rivoluzione del crimine di avere inventato la democrazia moderna e l’emancipazione dell’individuo. L’islam politico rifiuta anche il principio stesso della democrazia, ossia il diritto della società di costruire il proprio avvenire attraverso la libertà che si è data di legiferare. Il principio della “shura”, che attribuisce all’islam politico la pretesa di essere la forma islamica della democrazia, lo rende prigioniero del divieto di innovazione ( ibda ).
La “shura” non è che una delle molteplici forme di consultazione già presenti nelle società premoderne, predemocratiche. In Egitto Sayed Qotb, l’ideologo dei Fratelli Mussulmani, adottò integralmente queste tesi, fatte proprie in seguito dal Marocco e dall’Indonesia. Che dire di più ? Si tratta di un progetto che offre credibilità ai discorsi dell’orientalista reazionario e islamofobo Bernard Lewis, secondo il quale i credenti ( islamici ) sono ineluttabilmente condannati a schierarsi con quella formula in quanto essa costituisce il “vero islam”.
Non è difficile constatare che, sotto questo basilare punto di vista, non è poi molta la differenza tra le correnti cosiddette “radicali” dell’islam politico e quelle che invece ostentano un aspetto “moderato”. Il progetti di entrambe le correnti sono identici. I loro testi pubblicati (andrebbero letti prima di parlarne) lo confermano. Questi progetti si pongono tutti come obbiettivo la formazione di una teocrazia nel senso pieno del termine e respingono ogni forma di democrazia : solo Allah è autorizzato a legiferare. Chi dunque interpreta questa legge divina ( la “charia” ) che stabilisce il regno di Dio ( hakimiya lillah ) ? Solo i religiosi sono autorizzati a farlo ( wilaya al faqih ), ed è perciò solo a loro che spetta il diritto di esercitare la totalità dei poteri. E’ difficile immaginare una società che non abbia una qualche forma di regole giuridiche in grado di gestire le pratiche che la vita impone.
Sebbene sia l’islam politico a proporle il clero islamico ricusa il legislatore eletto quale legittimo titolare ed esecutore delle leggi dello Stato. Si tende invece ad affidare questo ruolo a dei “giudici” che considerano la “charia” una nozione estensibile a tutti gli ambiti della vita sociale e politica. Un governo di soli “giudici” come quello praticato in Somalia, quello dei “tribunali islamici”, è la forma veramente suprema dell’islam politico.
Simultaneamente tutti questi programmi vietano allo Stato di intervenire nella vita economica che deve essere integralmente sottomessa alle sole regole dei rapporti mercantili permessi dalla “charia”. Essi non intaccano minimamente i poteri reali delle classi dominanti, ribadiscono la sacralità e l’inviolabilità della proprietà privata, lasciano intatte le grandi fortune, quale che sia la loro entità, e l’ineguaglianza tra ricchi e poveri. Le pratiche del capitalismo sono considerate tutte lecite ad eccezione dei prestiti a tasso di usura ( un divieto che le banche islamiche aggirano facilmente ). Per contro il socialismo, anche quello riformista moderato, è sempre considerato empio.
Si comprende perciò perché l’islam moderato sia considerato da Washington un proprio alleato. Solo Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano sono condannati dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei. Ma solo perché questi partiti sono obbligati dalla collocazione geografica a resistere alle aggressioni sioniste.
Uniti nel loro obbiettivo finale i partiti religiosi non differiscono gli uni dagli altri se non sulla tattica da adottare. I “moderati”, come i Fratelli Mussulmani, preconizzano l’infiltrazione ad ogni livello negli apparati dello Stato. Non hanno torto poiché un programma come il loro, che non concepisce altra forma di potere che non sia violentemente autocratica, non disturba minimamente le dittature al potere e la borghesia compradora. Si tratta infatti di regimi che assecondano la dittatura teocratica.
Se gli islamici sono riusciti a controllare la società civile, è proprio grazie alla complicità attiva dei governi. Infatti lo Stato autocratico interviene con estrema violenza contro i movimenti popolari vietando alle forze progressiste qualsiasi forma di azione e di protesta (bollate immediatamente come “agitazione comunista”) e proibendo l’autonoma organizzazione di sindacati e cooperative.
Di fronte a possenti movimenti di rivendicazioni sociali ( come gli scioperi operai in Egitto nella primavera 2008 o la resistenza dei contadini alla restituzione delle terre, ottenute con la riforma agraria, ai loro vecchi proprietari ) i Fratelli Mussulmani hanno assunto una posizione chiara e ostile difendendo il “sacro diritto alla proprietà”, condannando la riforma agraria e i diritti del lavoro come un prodotto del “satana comunista”.
La deriva del mondo mussulmano contemporaneo verso un progetto di islam politico alternativo sia al capitalismo che al socialismo (entrambi qualificati come opzioni strettamente “occidentali” e pertanto estranee alla cultura dei popoli islamici) e l’affermazione perentoria che solo “l’islam è la soluzione”, non deve essere preso troppo alla leggera. Le risposte date a certe sfide del tipo “allearsi all’islam politico” contro i regimi autocratici, o l’inverso, imposte da considerazioni di natura strettamente tattica, nel breve termine non consentono di capacitarsi del pericolo, che è gigantesco. Accettare in un tale contesto l’accesso al potere degli islamici cosiddetti moderati per via elettorale, come suggerito da certi democratici occidentali, significa cedere al peggio. La sola rivendicazione democratica sostenibile è quella di esigere il riconoscimento dei diritti delle classi popolari e delle forze progressiste, delle loro organizzazioni e delle loro azioni di lotta. Esse sole possono sbarrare la strada al fascismo declinato in islamismo.
Sul trittico modernità / democrazia / laicità è aperto ovunque il dibattito.
L’immagine che la regione araba e islamica dando oggi di se stessa è quella di una società nella quale la religione islamica occupa il proscenio in tutti gli aspetti della vita sociale e politica. Fino al punto che sembra persino incongruo immaginare che possa essere diversamente. La maggioranza degli “osservatori” stranieri (il personale politico e mediatico) conclude che prima o poi la modernità, ossia la democrazia, si adegueranno a questa pesante presenza dell’islam, rinunciando di fatto alla laicità.
La modernità costituisce una rottura della storia universale iniziata in Europa a partire dal 16° secolo. La modernità proclama l’essere umano responsabile della sua storia individualmente e collettivamente e nel contempo tronca con le ideologie dominanti premoderne. La modernità consente la democrazia ed esige la laicità, ossia la separazione dell’ambito religioso da quello politico. Formulata dagli Illuministi del 18° secolo, resa operante dalla Rivoluzione francese, la complessa associazione dei suoi tre elementi, modernità/democrazia/laicità, ha avuto momenti di affermazione e di riflusso restando comunque un aspetto centrale del mondo contemporaneo. Ma la modernità stessa non è stata solo una rivoluzione culturale. Il suo senso compiuto lo ha ottenuto con lo stretto rapporto stabilito tra la nascita e l’affermarsi del capitalismo. Questo rapporto ha condizionato i limiti storici della modernità “realmente esistente”. La forma concreta della democrazia e della laicità visibili qua e là devono quindi essere considerati come i prodotti della storia concreta dell’affermarsi del capitalismo, modulata dalle condizioni concrete nelle quali la dominazione del capitale si è espressa attraverso i compromessi storici che definiscono i contenuti sociali dei blocchi egemonici (quello che io definisco “percorsi storici delle culture politiche”) (3).
Dove si collocano, da questo punto di vista, i popoli del Medio Oriente oggetto della nostra analisi ? L’immagine di folle di barbuti prosternati, attorniati da donne coperte col velo, spinge a trarre conclusioni troppo frettolose sul grado di intensità e di adesione religiosa degli individui. Si menzionano raramente le pressioni sociali esercitate per ottenere un simile risultato. Le donne non hanno scelto volontariamente il velo ma gli è stato imposto con la violenza. Il farsi cogliere senza alla preghiera costa quasi sempre la perdita del lavoro e, qualche volta, anche la vita.
Gli amici occidentali che si appellano al rispetto della diversità si informano raramente sugli accorgimenti messi in atto dal potere per offrire l’immagine che più conviene. Ci sono certamente anche gli “invasati di Dio”. Ma sono forse più numerosi e fanatici dei cattolici di Spagna che sfilano a Pasqua evocando il Medioevo ? O delle folle di invasati che negli Stati Uniti ascoltano e seguono i telepredicatori ?
In ogni caso la regione del Medio Oriente non ha sempre offerto una simile immagine di se stessa. Pur considerando le differenze tra singoli paesi si può identificare una grande regione che va dal Marocco all’Afganistan ed integra tutti i popoli arabi ( ad eccezione di quelli della penisola arabica ), i turchi, gli iraniani, gli afgani, i popoli dell’Asia centrale ex sovietica, nella quale il potenziale di sviluppo della laicità è tutt’altro che trascurabile. La situazione è invece diversa presso altri popoli contigui, gli arabi della Penisola e i pakistani.
Nella regioni considerate le tradizioni politiche sono state fortemente segnate dalle correnti radicali della modernità : l’Illuminismo, la rivoluzione francese, la rivoluzione russa, il comunismo della terza internazionale sono state presenti e hanno occupato uno spazio culturale ben più ampio di quello del parlamentarismo di Westminster. Queste correnti hanno ispirato i modelli più importanti della trasformazione politica che le classi dirigenti hanno compiuto e che potremmo qualificare, per certi loro aspetti, forme di “dispotismo illuminato”.
E’ certamente il caso dell’Egitto di Mohamed Alì o del Khediv Ismail. Il kemalismo in Turchia e la modernizzazione in Iran hanno operato con dei metodi molto simili. Il nazional populismo presente nelle tappe più recenti della storia medio orientale appartiene alla stessa famiglia di progetti politici “modernisti”. Le varianti di questo modello sono state numerose ( FLN algerino, burghibismo tunisino, nasserismo egiziano, baasismo di Siria e Iraq ), ma la direzione del movimento è stata analoga. Le esperienze, in apparenza estreme, dei regimi cosiddetti comunisti in Afganistan e Yemen del Sud non sono state in realtà molto diverse. Tutti questi regimi hanno realizzato molto e, non a caso, hanno avuto un sostegno popolare molto largo. Sebbene siano state delle esperienze non veramente democratiche, esse hanno aperto la via ad una possibile evoluzione in quella direzione.
In alcune circostanze – come quella dell’Egitto dal 1920 al 1950 – l’esperienza della democrazia elettorale è stata tentata, sostenuta dal centro antimperialista moderato (il Wafd), combattuta dalla potenza imperialista dominante (la Gran Bretagna) e i suoi alleati locali (la monarchia). La laicità, sebbene proposta nella sua variante moderata, non è stata rifiutata dai popoli; sono stati invece gli uomini di religione ad opporsi, perciò giudicati degli oscurantisti dalla pubblica opinione, e tali erano nella loro grande maggioranza.
Le esperienze moderniste – dal dispotismo illuminato al nazional populismo radicale – non sono state prodotte da impulsi spontanei, ma imposte da possenti movimenti politici egemonizzati dalle classi medie che esprimevano in tal modo la loro volontà di affermarsi come partners a pieno titolo e con ogni diritto ai processi di moderna mondializzazione. Questi progetti, espressi dalle “borghesie nazionali”, possono essere definiti modernisti, laicizzanti e potenzialmente portatori di evoluzioni democratiche. Ma proprio perché questi progetti entravano in conflitto con gli interessi dell’imperialismo dominante, quest’ultimo li ha combattuti senza tregua mobilitando sistematicamente per questo scopo le forze oscurantiste in declino.
Conosciamo la storia dei Fratelli Mussulmani, letteralmente creati, negli anni ‘20 in Egitto dai britannici e dalla monarchia, per sbarrare la strada al Wafd democratico e laico. Conosciamo la storia del loro ritorno in massa nei loro rifugi sauditi dopo la morte di Nasser, organizzata dalla CIA e da Sadat. Conosciamo la storia dei talebani formati dalla CIA in Pakistan per combattere i “comunisti” che avevano osato aprire le scuole a tutti, giovani e ragazze. Sappiamo altresì che gli israeliani hanno sostenuto Hamas al suo debutto sperando di indebolire le correnti laiche e democratiche della resistenza palestinese.
L’islam politico avrebbe avuto molte difficoltà a superare le frontiere dell’Arabia Saudita e del Pakistan senza il sostegno risoluto, permanente e possente degli Stati Uniti. La società dell’Arabia Saudita non avrebbe mai iniziato di sua volontà l’uscita dalla tradizione se non quando fu scoperto l’oceano di petrolio del suo sottosuolo. L’alleanza tra l’imperialismo e la classe dirigente “tradizionale” di Riad, sigillata con vantaggio reciproco dai due partners, ha impresso una spinta nuova all’islam politico reazionario e wahabita.
Da parte loro i britannici non avevano esitato a rompere l’unità dell’India convincendo i leaders mussulmani a separarsi e a fondare il proprio Stato sanzionando l’atto di nascita dell’islam politico. Non va dimenticato che la “teoria” con la quale questa novità è stata legittimata – indebitamente attribuita al solo Mawdudi – era stata preliminarmente e integralmente redatta dagli orientalisti inglesi al sevizio di sua Maestà. Si comprende perciò che l’iniziativa presa dagli Stati Uniti per rompere il fronte dei paesi d’Asia e d’Africa, realizzato a Bandung nel 1955, è stata quella di creare una “conferenza islamica” immediatamente promossa nel 1957 dall’Arabia Saudita e dal Pakistan. L’islam politico è penetrato nella regione a partire da quella iniziativa.
La minima delle conclusioni che si può trarre dai vari passaggi dell’islam politico è che la sua nefasta crescita non è affatto il prodotto spontaneo di profonde ed autentiche convinzioni religiose dei popoli interessati. Esso è stato costruito dall’azione sistematica dell’imperialismo col pieno sostegno, beninteso, delle forze reazionarie e oscurantiste e delle classi compradore.
Da questo quadro appare indiscutibile la responsabilità delle sinistre che non hanno né visto né saputo far fronte alla sfida.
Quattro le avanzate compiute, ma seguite da riflussi drammatici (Afganistan, Iraq, Sudan, Yemen del Sud )
Gli esempi di avanzate seguite da arretramenti drammatici hanno riempito la storia del 19° e del 20° secolo. Esse costituiscono la trama di tre grandi rivoluzioni del mondo moderno ( quella francese, russa e cinese ). Avanzate meno spettacolari ma non meno importanti hanno segnato la storia dei popoli asiatici e africani nell’epoca di Bandung ( 1955-1980 ). Ovunque sono state seguite da arretramenti e, in alcuni casi, dalla risalita al potere della borghesia compradora subalterna al dominio imperialista (4).
In quattro paesi – Afganistan, Iraq, Sudan e Yemen del Sud – importanti avanzate rivoluzionarie sono state seguite da sconfitte drammatiche. Si tratta di quattro casi di società mussulmane. Tuttavia questa comune appartenenza religiosa non spiega gran che. Le quattro esperienze condividono invece una caratteristica comune di ben altra importanza : esse sono state prodotte da “situazioni rivoluzionarie”. Intendo con ciò sottolineare la connessione di fattori oggettivi e soggettivi che hanno condotto sul piano teorico e pratico a scegliere soluzioni rivoluzionarie. Fattori oggettivi : si tratta di paesi dove la struttura sociale e l’organizzazione del potere erano attraversati da contraddizioni più esplosive che altrove. Fattori soggettivi : la presenza di partiti comunisti forti e decisi a tentare la soluzione rivoluzionaria, “armati del pensiero marxista”.
Le quattro società in questione erano e sono, se confrontate alle altre, meno omogenee dal punto di vista confessionale o etnico. Ma si tratta di una realtà frequente nella storia dei popoli essendo l’omogeneizzazione un prodotto della modernizzazione. Una realtà che non significa “ostilità naturale” tra le varie componenti di un paese. Sia che si tratti di sciiti o di sunniti, di arabi o di curdi (Iraq), di popoli di lingua persiana o turca (Afganistan), di mussulmani e di non mussulmani (Sudan) o di persone divise da barriere feudali (Yemen del Sud). Questa eterogeneità è stata un fattore favorevole alla risposta rivoluzionaria in quanto ha fatto leva sulla debolezza relativa dei poteri locali, “indipendenti” o sottomessi – con la modernizzazione – alla protezione delle potenze imperialiste. Si tratta di una debolezza di questi poteri che si trasforma – nei momenti di crisi – in un confronto durissimo che definiscono l’eterogeneità delle linee contrapposte; mentre le forze rivoluzionarie sono nelle condizioni di trarre vantaggio dall’aspirazione generale all’unità del popolo in lotta contro i poteri locali.
Nei quattro paesi in questione, la società “moderna”, minoritaria di fronte ad una massa in apparenza “tradizionale”, è stata attirata dalle soluzioni radicali, ossia da un progetto di modernizzazione partito dall’alto e sostenuto dal basso, collocato entro una prospettiva socialista. Il successo dei partiti comunisti tra le “minoranze” modernizzate della società è stato qui importante. Questi partiti sono riusciti ad aprire avanzate rivoluzionarie veramente notevoli : in Afganistan e Yemen hanno conquistato il potere statale, in Iraq e in Sudan ci sono arrivati abbastanza vicini.
Le cause delle sconfitte di quelle quattro avanzate rivoluzionarie sono diverse.
La prima è data dalla volontà deliberata di Stati Uniti e Gran Bretagna, nonché dei loro alleati subalterni europei, di bloccare e distruggere queste avanzate con la violenza più estrema compreso l’intervento militare (messo in atto in Afganistan e più tardi, in Iraq), o la minaccia di compierlo. Va ricordato che i quattro paesi considerati sono così importanti dal punto di vista degli interessi globali dell’imperialismo che ben difficilmente esso potrebbe rinunciare al loro controllo. La strategia imperialista si è basata sulla mobilitazione di tutte le forze oscurantiste possibili e immaginabili, finanziandole ed armandole di tutto punto. I Fratelli Mussulmani e i Wahabiti arcaici d’Arabia si sono schierati con l’imperialismo. Va invece segnalata la benevola neutralità ( talvolta la complicità ) dei regimi nazional populisti di Egitto e Libia.
La seconda causa risiede nella difficoltà reale di integrare nel blocco democratico di sostegno all’avanzata rivoluzionaria certi segmenti delle “classi medie”. Tutti gli sforzi sono stati compiuti in modo sistematico, soprattutto da parte dei Fratelli Mussulmani, sostenuti da interventi brutali del potere (divieti di organizzazione, arresti in massa e torture) per impedire ogni forma di contatto tra partiti comunisti e masse popolari.
La terza causa va ricercata nelle debolezze “teoriche” dei partiti in questione e nella loro troppo “sommaria” analisi del marxismo (5). Nati e cresciuti sull’onda possente della rivoluzione russa in Oriente, i partiti comunisti si sono collocati senza esitazione nel campo del “marxismo-leninismo” al quale essi sono restati verbalmente fedeli fino al crollo del 1990, crollo che li ha sorpresi non essendosi mai posti quesiti sulla natura del sistema sovietico e dei suoi problemi. La perestroika è stata percepita inizialmente come una nuova tappa positiva del socialismo trionfante. Essi hanno ignorato la crisi profonda della società sovietica che ne è stata l’origine. In seguito essi hanno valutato le sventurate opzioni di Gorbaciov, non come dei semplici errori, ma come un vero e proprio tradimento. Convinti del carattere “marxista-leninista” del partito comunista sovietico i partiti in questione si sono sempre ispirati verbalmente alle posizioni assunte dalla diplomazia sovietica, peraltro anch’essa molto attenta agli sviluppi interni di questi paesi strategici. Ho usato il termine “verbalmente” poiché nei fatti questi partiti – almeno molti dei loro quadri dirigenti – hanno sovente ignorato gli insistenti interventi di Mosca. Così è stato quando Mosca ha insistito perché questi partiti si sciogliessero aderendo ai partiti nazionalisti al potere (nasseriani e baasisti) considerati impegnati su una “via non capitalista”.
La combinazione di questi elementi spiega le sconfitte subite.
La riflessione sulla questione “democratica” dovrebbe essere l’asse centrale della conclusioni che si possono trarre da queste tragiche storie. Non perché i partiti comunisti in questione siano stati “antidemocratici” per natura (o “totalitari” come ripetono i propagandisti occidentali). Essi rappresentano invece le forze più democratiche di quelle società, anche se rapportate a certi limiti delle loro pratiche interne (il cosidetto “centralismo democratico”, ecc.)
L’esempio del Sudan illustra tragicamente la contraddizione tra la pratica della democrazia elettorale multi partito e rappresentativa da un lato, e dall’altro i bisogni urgenti di una democrazia autentica al servizio del progresso sociale. Più di una volta nella storia contemporanea del Sudan (prima che il potere fosse assunto dalla dittatura militare-islamica), paese in cui erano radicate libere elezioni, la rivoluzione in marcia, appoggiata dal popolo, è stata rimessa in discussione da un Parlamento eletto correttamente ma dominato da partiti tradizionali nemici da sempre della democrazia (quando necessario) e del progresso sociale (sempre).
L’alternativa ? Il “dispotismo illuminato” di un partito come in Afganistan ? Ossimoro diranno certuni : il dispotismo è sempre antidemocratico mentre gli Illuministi sono sempre democratici. Si tratta di una semplificazione dogmatica che non tiene conto dell’esigenza dei tempi lunghi di apprendistato e di approfondimento della democrazia, nonché della creatività necessaria e permanente di forme nuove (comprese quelle istituzionali) che dovranno andare ben oltre la formula classica di democrazia elettorale rappresentativa.
L’alternativa ? Partito “unico” o fronte di forze diverse, autenticamente autonome (non cinghie di trasmissione) ma coscienti della esigenza di una convergenza reale su una strategia di lunga transizione ? I partiti dei quattro paesi considerati non hanno mai ignorato la questione, né nel senso burocratico banalizzato altrove (e di questo gli va riconosciuto il merito), né nel senso di un formulazione coerente di alternativa. Certe debolezze mostrano semmai uno degli aspetti di interpretazione sommaria del marxismo che li ha caratterizzati.
Segue Parte seconda (prossima pubblicazione)
Note
(1) In un articolo pubblicato dalla rivista La Pensèe, n° 351, 2007, ho proposto un’analisi della sfida sul tema della modernità riguardante le società mussulmane (“L’islam politico contemporaneo, una teocrazia senza progetto sociale”) i cui argomenti sono trattati nella mia opera Modernizzazione, religione, democrazia (Paragon, 2008). In un secondo articolo pubblicato dalla Monthly Review newyorkese (“Political Islam in the service of imperialism”, dicembre 2007) ponevo l’accento sulla complicità politica che di fatto associa l’islam politico e il progetto di Washington mirante al controllo militare della regione. Questo articolo riprende e aggiorna quello della Monthly Review.
(2) Rinvio il lettore al mio articolo de La Pensèe.
(3) Nel mio articolo su La Pensèe insisto sulla questione della laicità, elemento non aggirabile della modernità e della democrazia. Propongo una spiegazione delle ragioni con le quali la Nahda (Rinascita) araba del 20° secolo è inciampata su questa questione sostenendo che essa non costituisce la prima tappa della modernizzazione delle regioni prese in esame ma il suo aborto.
(4) Samir Amin, L’eveil du Sud, Le temps des cerises, 2008. In questo saggio propongo un’analisi delle avanzate compiute nel periodo di Bandung (1955 – 1980) in Asia e in Africa, le ragioni della loro erosione, poi del fallimento, sotto i colpi dell’imperialismo passato all’offensiva.
(5) Esiste una buona documentazione sulla storia dei Partiti comunisti arabi (in lingua araba ovviamente).