www.resistenze.org - pensiero resistente - imperialismo e globalizzazione - 14-09-09 - n. 286

Antiamericanismo o antimperialismo?
 
di Domenico Moro
 
”È inutile attaccare l'imperialismo o il militarismo nella loro manifestazione politica se non si punta l'ascia alla radice economica dell'albero e se le classi che hanno interesse nell'imperialismo non vengono private dei redditi eccedenti che cercano questo sfogo”
(Hobson, L'imperialismo)
 
Quando critichiamo gli Stati Uniti, alcuni ci dicono, da destra e sempre più spesso anche da sinistra: "Ecco, vedete, il vostro è il solito antiamericanismo di maniera, tipico di certa sinistra". "Gli americani", continuano costoro, "certo commettono errori, anche gravi, ma ci hanno liberato dal nazifascismo, sono una grande democrazia, e patria della lotta per i diritti civili e delle espressioni più avanzate nell'arte, nella letteratura, nella musica. Inoltre," aggiungono costoro, "proprio perché sono una democrazia gli errori alla fine vengono fuori ed è possibile criticarli e correggerli." A sentire questa difesa degli Usa c'è veramente da rammaricarsi della rozzezza di quei popoli, dai coreani, ai latino-americani, ai vietnamiti, agli iracheni, e agli afghani, che, a quanto pare, non riescono proprio ad apprezzare i contributi dati dagli americani allo sviluppo della civiltà umana. E c'è da felicitarsi che, dopo bombardamenti e invasioni (sempre dopo, badate bene ...), si ammetta candidamente di essersi sbagliati, come nel caso della inesistenza delle armi di distruzioni di massa in Iraq.
 
Ad ogni modo, è abbastanza ovvio che, se critichiamo gli Usa, non ne critichiamo tout court i cittadini. Tra questi numerosi sono quelli critici verso il loro stesso governo, che, ricordiamolo, viene eletto solo da una minoranza degli aventi diritto, e attraverso un sistema elettorale rigidamente maggioritario, che esclude a priori posizioni critiche, come ci ricorda Luciano Canfora nel suo "Democrazia storia di una ideologia". Quello che si critica, criticando gli Usa, è il loro ruolo imperialista e, in particolare, la natura imperialista dello Stato statunitense. E qui veniamo al nocciolo del discorso. Infatti, una delle categorie che più ha fatto le spese della sconfitta culturale della sinistra è quella di imperialismo. Nella generale rincorsa al "nuovismo" politico e culturale la meschina è finita in soffitta, evidentemente macchiatasi della colpa di essersi di essersi troppo compromessa con il comunismo.
 
Del resto, come dimenticare, "L'imperialismo fase suprema del capitalismo" di Lenin? Qualcuno, per la verità, oggi potrebbe stupirsi sapendo che la categoria di imperialismo fu elaborata inizialmente (1902) da un liberale inglese, Hobson, e ulteriormente sviluppata da un socialdemocratico austriaco, Hilferding, verso i quali Lenin riconobbe il suo debito. La teoria dell'imperialismo è complessa. Comunque, al nocciolo sostiene che nelle economie capitalistiche più avanzate, ad un certo stadio del loro sviluppo, prevale il capitale finanziario e speculativo. Si afferma così una tendenza al dominio di altri paesi, per accaparrarsi mercati di sbocco per i propri capitali e per controllare le fonti e la distribuzione delle materie prime. Da ciò deriva una permanente competizione tra gli Stati e una continua tendenza alla guerra. Di conseguenza lo Stato, il suo apparato militare, e il debito pubblico si sviluppano con l'imperialismo a livelli mai visti prima. Nella categoria di imperialismo vengono così sintetizzati un aspetto economico, uno politico e uno militare, visto che si presuppone una trasformazione interna alle società capitalisticamente più evolute come base per una politica militarista ed espansionista. Dunque, un paese non è imperialista semplicemente per predisposizione culturale, psicologica o morale dei suoi abitanti, ma per precise ragioni strutturali, sociali ed economiche.
 
Torniamo ora all'antiamericanismo. Gli Usa rappresentano oggi forse la concretizzazione più perfetta della categoria di imperialismo. Gli Usa, potendo contare su una egemonia mondiale quasi assoluta sui mercati finanziari e valutari, hanno spostato negli ultimi trenta anni gran parte delle loro potenzialità industriali all'estero. Ne è risultato un enorme debito del commercio estero e del bilancio statale, che accentua la natura parassitaria degli Usa, facendone il più grande debitore internazionale. Gli Usa alimentano i loro mercati finanziari e il loro debito con il risparmio che affluisce da tutto il mondo, soprattutto sotto forma di investimenti in titoli del tesoro Usa. Ma ciò è possibile solo nella misura in cui il dollaro mantiene il ruolo di moneta di riserva e di scambio internazionale e, visto che l'economia americana si indebolisce nei confronti di altre economie più dinamiche e con forti attivi commerciali (Germania, Cina, Giappone), gli Usa possono mantenere il dollaro nel suo ruolo solo conservando lo strapotere militare di cui fino ad ora hanno beneficiato. L'invasione irachena, ad esempio, fu dettata dal timore che l'Iraq potesse quotare il petrolio in valute diverse dal dollaro, spingendo altri paesi produttori (Iran, Venezuela, Russia) a fare lo stesso, e mettendo in crisi il dollaro come valuta internazionale.
 
Cambiare questa situazione non è facile, proprio perché è strutturale e ormai molto radicata, proprio per la grandezza del debito e la cronica dipendenza dall'estero. Bisognerebbe mutare i rapporti economici interni e andare ad uno scontro radicale con chi detiene il potere finanziario ed industriale. Anche ammettendo che il sistema elettorale Usa rifletta la volontà della maggioranza e non sia controllato dall'elite economica, un nuovo presidente che desiderasse modificare la situazione, incontrerebbe tali difficoltà da trovare impossibile realizzare il suo progetto. Ad ogni modo, i primi atti del presidente Obama non sembrano rivelare intenzioni del genere, se li guardiamo al di là della mitizzazione massmediatica del personaggio. Obama si è circondato di quegli stessi consiglieri e ministri che con Clinton inaugurarono la deregulation della finanza e dell'economia e ha riconfermato a capo della Federal Reserve proprio Bernanke, autore della deleteria politica dei bassi tassi d'interesse. Uomini che sono espressione dell'elite finanziaria Usa e che hanno costruito le basi per le enormi speculazioni e arricchimenti dell'elite finanzia negli ultimi quindici anni e per lo scoppio della crisi dei mutui.
 
Le enormi spese destinate da Obama in grandissima parte a salvare Wall Street e le grandi banche hanno non solo aumentato debito e deficit statale a livelli insostenibili, ma hanno anche creato, insieme ai tassi d'interesse ormai allo zero, nuove occasioni speculative e i presupposti per nuove e più pericolose bolle finanziarie. Il meccanismo perverso dell'indebitamento non è in via di smantellamento, anzi viene rafforzato. Sul piano della politica militare, al di là del nuovo approccio "realistico" (come lo definisce il neocon Wolfowitz), che mette da parte il fondamentalismo "democratico" e religioso di Bush, la sostanza non cambia. Il ministro della Difesa di Obama, Robert Gates, è quello di Bush, le spese militari sono state aumentate, e persino la pratica delle famigerate extraordinary rendition è stata mantenuta. I mutamenti nella strategia militare sono quelli già decisi dalla precedente amministrazione: il baricentro dell'azione bellica è spostato dall'Iraq, ormai sotto controllo, verso l'Afghanistan, che ricopre oggi una importanza geostrategica unica (al centro tra l'Europa, le intatte risorse energetiche dell'Asia centrale, la Russia, l'India e ... la Cina), ancora maggiore che nel XIX secolo, quando fu terreno di scontro tra gli imperialismi britannico e russo. Infatti, in Afghanistan il conflitto si sta allargando anziché restringersi, grazie all'aumento progressivo delle truppe disposto da Obama (cui vanno aggiunti 68mila soldati privati), mentre continuano i sanguinosi bombardanti dei civili, ad opera anche della Nato, come ci conferma anche la cronaca odierna. Un presidente con una immagine nuova e migliore, come Obama, rispondeva all'esigenza di implementare meglio quella strategia di maggiore coinvolgimento degli alleati occidentali (attraverso la Nato), già avviata nell'ultimo periodo dell'amministrazione Bush, nella consapevolezza che gli Usa non hanno risorse finanziarie e umane per gestire i vari fronti di guerra aperti.
 
Gli Usa non sono la sola potenza imperialista, ma sono sicuramente la potenza imperialista più pericolosa, in parte perché la loro egemonia un tempo assoluta è ora a rischio e in parte perché hanno una forza bellica preponderante. Il combinato disposto di decadenza economica e strapotere militare spingono oggettivamente gli Usa alla destabilizzazione dei nuovi rapporti di forza economici tra aree economiche mondiali, e quindi alla guerra, sia minacciata che guerreggiata.
 
[anche su aprileonline del 07/09/2009]