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- pensiero resistente - imperialismo e globalizzazione - 11-04-11 - n. 359
Il collasso dell’OPEC tra gli obiettivi dell’intervento in Libia.*
Alì Rodriguez – Ministro del Potere Popolare per Energia Elettrica della Repubblica Bolivariana del Venezuela
07/04/2011
Traduzione a cura del CeSPIn Puntocritico
Specialista su tematiche petrolifere, marxista di profonda conoscenza teorica, Alì ha la capacità di farci comprendere le tematiche più complesse di questo mondo. E’ un lusso per noi poter conversare con lui sul tema idrocarburi, il vero leitmotiv che ha condotto la coalizione imperialista nel pantano libico, nuova invasione del Medio Oriente, tanto per cambiare condita dai cinici pretesti umanitari.
Petrolio, l’oggetto del desiderio.
E’ così antica la lotta per l’energia?
L’essere umano ha richiesto energia per tutta la sua esistenza, però con lo sviluppo dell’industria capitalista, questa necessità si è moltiplicata esponenzialmente. Con il motore a combustione interna , la domanda è stata straordinaria. Nella prima guerra mondiale era già presente la lotta per le aree petrolifere.
Nella seconda Guerra Mondiale, tutta l’offensiva di Hitler per occupare Bakù, il cuore della regione petrolifera dell’Unione Sovietica, aveva una forte motivazione nel controllo dell’energia. I tedeschi producevano gasolio sintetico, partendo dal carbone, decisivo per le sue macchine da guerra. Da allora il petrolio continua ad essere la principale fonte energetica del mondo, i paesi che possiedono questa risorsa saranno oggetto dell’avidità delle grandi potenze consumatrici di energia, e in particolare degli Stati Uniti.
Però i pretesti per l’intervento sono sempre altri.
Guerre come quella dell’Irak, il cui obiettivo era il controllo delle sue ricchezze, sono nate con pretesti tanto assurdi come le “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Il pretesto per invadere oggi la Libia non solo è assurdo ma cinico: proteggere i cittadini di questo paese. Ciò che hanno fatto è stato internazionalizzare il conflitto. Dallo stesso momento in cui le grandi potenze decidono di appoggiare le forze insorgenti armate, internazionalizzano il conflitto. Non è più una guerra civile, è una guerra di carattere internazionale, di una grande coalizione di potenze contro un piccolo paese che difende la sua sovranità.
L’interesse fondamentale in Libia è controllare il suo petrolio. Abbiamo visto questa settimana preoccupazioni di fronte l’entusiasmo degli Stati Uniti di armare i ribelli libici, una opposizione che è tutto tranne che pacifica.
Già lo hanno fatto. I ribelli hanno cannoni, equipe pesanti, aerei, carri armati, armi leggere di ogni tipo. Con questo intervento nel conflitto, non proteggono la popolazione civile. L’interesse fondamentale della coalizione è controllare il petrolio libico, che ha un grande vantaggio per le potenze occidentali. Non solo per la sua qualità, uno dei più leggeri al mondo, ma anche per l’ubicazione del paese alle porte dell’Europa. La Libia ha il vantaggio di quello che il venezuelano Juan Pablo Perez Alfonzo – fondatore dell’OPEC – chiamava “rendita geografica”. La vicinanza con il mercato, in questo caso europeo, è un gran vantaggio perché abbassa i costi del trasporto.
Nulla di buono questo tipo di escalation per i paesi invasi, ma sarà benefica per gli alleati degli Stati Uniti nella regione?
L’intervento dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, nei conflitti interni ai paesi del Medio Oriente ha procurato in altri momenti gravi dolori di testa. L’intervento degli Stati Uniti nella guerra di Afghanistan, per esempio, ha provocato grandi problemi all’Arabia Saudita. Durante l’intervento sovietico in Afghanistan, gli Stati Uniti hanno forzato i paesi della regione ad appoggiare i talebani, e a Osama Bin Laden, concretamente. Però quando gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan non hanno potuto utilizzare le basi saudite per bombardare i talebani. In questi paesi, oltre il petrolio, confluiscono molteplici fattori, si definisce infatti una regione molto instabile, dove si muovono molti interessi. Intorno c’è anche la Corea del Nord, al momento in retroguardia, perché anche lì ci sono in gioco gli interessi delle grandi potenze.
Perché la Russia e la Cina non hanno esercitato il loro diritto di veto, che avrebbe impedito l’intervento militare?
In realtà non lo hanno mai utilizzato. L’unico paese che ha esercitato il veto nel Consiglio di Sicurezza sono gli Stati Uniti. E’ un privilegio degli Stati Uniti. L’unica risposta che può dare qualsiasi analista a questo quadro è che sono in gioco gli interessi delle grandi potenze. Tutto il resto sono pretesti.
Il petrolio è in mano agli speculatori.
La salita dei prezzi del petrolio in questi giorni ha a che vedere con l’invasione occidentale alla Libia?
I prezzi del petrolio non sono determinati dalla legge dell’offerta e della domanda. La tendenza universale del capitalismo è orientata verso il settore speculativo più che quello produttivo. Così come sono cresciute le Borse per l’interscambio di azioni delle imprese, nel caso del petrolio si è conformata una specie di Borsa. C’è il NYMEX di New York, che ha come valore di riferimento il West Texas Intermediate (WTI) e non arriva a produrre 600.000 barili giornalieri; e anche la Borsa Internazionale del Petrolio di Londra (IPE), che si quota in barili Brent sul mercato europeo. Il barile, in nessuno di questi due blocchi, nemmeno in modo remoto, ha il peso dell’insieme della produzione dei paesi dell’OPEC.
In questi luoghi vengono quotati i contratti, ovvero i barili di carta. Quando gli speculatori percepiscono che per qualsiasi ragione può sopravvivere un aumento del prezzo, comprano contratti e questo fa salire artificialmente il prezzo del barile. Quando accade il contrario, vendono contratti e abbassano il prezzo. Nel 2005, per ogni barile fisico che si immetteva nel mercato reale, si negoziavano cinque barili di carta. Nel 2009, per ogni barile fisico, si negoziavano 18 barili di carta. Questo distorce completamente il prezzo del petrolio.
Quando lei è stato Segretario Generale dell’OPEC ottenne di stabilizzare il prezzo del barile a livelli accettabili per tutti. Come è stato possibile?
Quando sono stato all’OPEC abbiamo pianificato di fissare la banda dei prezzi del petrolio tra i 22 e 28 dollari, che era accettabile per tutti i paesi esportatori. Questo ha funzionato bene per due anni, finché non sono intervenuti altri fattori interni. Ricordo di aver discusso questo con Loyola de Palacio, la Commissaria europea per l’energia e con Bill Richardson, l’allora Segretario dell’Energia degli Stati Uniti. Entrambi dissero che preferivano che questa relazione tra la produzione e i prezzi fosse determinata dal mercato, ma si sbagliavano. Il valore non lo fissava allora, come ora, il mercato, ma gli speculatori e i mercati speculativi. Non c’è relazione tra il mercato reale e i prezzi.
Crede che l’aggressione alla Libia si esprimerà in qualche momento anche in termini di minor numero di barili fisici?
Quando ci sono fenomeni come questi, gli speculatori percepiscono che possono avere un aumento del prezzo. Però il prezzo a cui è arrivato il petrolio in così breve tempo, non ha niente a che vedere con la riduzione della produzione in Libia. Non c’è relazione tra quello che accade nel mercato reale e nel mercato speculativo. In questo senso, va controcorrente rispetto ciò che accade in Giappone, dovuto alla tragedia che stanno vivendo. Si è contenuta la produzione industriale di questo paese e pertanto, hanno abbassato la domanda del consumo di energia. Dovrebbe influire di più la situazione del Giappone per abbassare i prezzi, che ciò che accade in Libia per rialzarli. E ciò che vediamo è esattamente questo. Ieri il prezzo era a 110 barili OPEC, ed è aumentato più il Brent, perché il conflitto coinvolge l’Europa, e nella sua Borsa si sente di più che in quella del NYMEX, di New York.
Crede che la crisi nucleare in Giappone dopo il terremoto mette in crisi la generazione di elettricità con termonucleari?
Indipendentemente da ciò che accade, questa offre una gran quantità di vantaggi a cui non si rinunceranno. Più del 70% dell’elettricità in Francia viene prodotta da centrali elettro-nucleari. Cosa si fa? Si rinuncia a queste fonti? Non lo credo.
Obama è un ostaggio.
Perché crede che Obama si è comportato in questo modo, tradendo le sue promesse di non intervenire militarmente senza consultare il Congresso?
Per molti di noi, dall’inizio dell’amministrazione Obama, era chiaro che il Presidente era un ostaggio. Non è arrivato alla Casa Bianca con proprie forze, con un partito strutturato, ma con trattative con la destra più reazionaria degli Stati Uniti, in particolare con quella che controlla il settore della Sicurezza e della Difesa. Questo ci anticipava lo sviluppo degli eventi. Dall’altro lato, si appella anche al settore più progressista del Partito Democratico, per poter governare. E’ tra due fuochi, e questo è evidente anche nelle sue espressioni corporali. Non è un uomo come George W. Bush, che era convinto di ciò che diceva.
Sotto certi aspetti è andato più lontano di Bush. Ha ordinato l’intervento in Libia, senza confrontarsi con nessuno e da un paese terzo, il Brasile.
Il gran dramma del sistema capitalista mondiale, in particolarmente degli Stati uniti ed Europa è che si stanno compiendo determinate leggi storiche: la tendenza decrescente dell’economia. Il boom tecnologico ha toccato il suo tetto. Nella misura in cui il settore produttivo non può riprodurre con la stessa intensità il capitale, coinvolge sempre più il settore speculativo. Ciò che più cresce è la speculazione finanziaria, che provoca la famosa bolla che ha condotto alla crisi e cercano di risolverla coniando più denaro. Gli europei reagiranno in un modo più conservatore, ma anche così non possono detenere i suoi effetti devastanti.
La crisi conduce con se un’implicita forza d’inerzia estremamente potente, e le guerre sono sempre state valvole di sfogo a queste grandi tensioni che generano le grandi economie capitaliste. E’ accaduto durante la Prima Guerra Mondiale, nella Seconda Guerra Mondiale e ora, come ha avvisato Fidel, può scatenare una guerra nucleare che si potrà trasformare in una guerra mondiale. Stiamo vivendo avvisaglie che annunciano questo periodo, e per questo l’unica cosa sensata sarebbe una risoluzione pacifica nel caso libico, non per simpatie con Gheddafi, ma per il pericolo che questo evento rappresenta per la stabilità mondiale, perché nella misura in cui si è mondializzato il capitale si sono accentuati i conflitti nord-sud, qualsiasi cespuglio può incendiare la prateria del mondo intero.
La OPEC incorre in pericolo tremendi.
Cosa accadrà all’OPEC?
La Opec sta correndo pericoli fin dalla sua nascita. Quando ha visto la luce nell’agosto 1960, Henry Kissinger ha convocato i principali paesi industrializzati per rompere la OPEC. Gli Stati Uniti non potevano tollerare che paesi del Terzo Mondo, per il semplice fatto di essere proprietari di risorse strategiche così importanti come il petrolio, si unissero e potessero imporre la propria volontà.
La OPEC ha rappresentato letteralmente una vera rivoluzione nel mondo. Per la prima volta piccoli paesi del Terzo Mondo potevano imporsi a partire dal controllo della propria produzione e della difesa sovrana di questa risorsa naturale, peraltro consacrato questo diritto nella Costituzione nordamericana. Gli Stati Uniti reagirono creando l’Agenzia Internazionale dell’Energia. Si può dire che in quel primo momento rinunciarono a rompere l’OPEC come pretendeva Kissinger.
Il secondo tentativo di strangolare l’OPEC accadde dopo la sconfitta dell’Unione Sovietica, con la creazione della Carta Energetica Europea. Il suo obiettivo era di controllare le risorse della vecchia URSS, risorse petrolifere ma soprattutto gasifere. Se non ci fosse stata la presenza della Norvegia, un paese sviluppato e petrolifero, si sarebbe compiuto il proposito delle grandi potenze. In uno dei suoi eccellenti lavori, Bernard Mommer dimostra che i tentativi di cambiamento compreso il significato in termini in modo interessato. Ad esempio, il petrolio già non veniva più definito come una “risorsa naturale”, ma come una “risorsa energetica”. E ancora più sottilmente: una “commodity”, che in economia è un qualsiasi prodotto destinato all’uso commerciale. Come una semplice mercanzia di valori contro valori. Difendere le parole ha un’importanza dottrinaria, ideologica e fondamentale: prima di tutto il petrolio è una risorsa naturale. Ad esempio, in Venezuela, si definivano le risorse della Falda dell’Orinoco come “Falda bituminosa dell’Orinoco”. Bitumen è la sabbia dell’Alberta (Canada), che viene sfruttata come una miniera. Però i petroli pesanti di 8-9 gradi del Venezuela hanno la fluidità propria dei giacimenti. Quando è in superficie, nel separarsi dalla parte volatile, non sono più fluidi in modo naturale, occorre miscelarlo. Il nome di “Falda bituminosa” de valorizza la natura della nostra risorsa naturale. Non riuscendo a imporre i termini della Carta Energetica Europea, ora cercano di stabilire un Dialogo tra produttori e consumatori di energia, e per questo hanno installato una impresa dal 1991, a Riad, in Arabia Saudita. Nell’offensiva di cercare di trattare il petrolio come una “risorsa energetica”, come una “commodity”, e non come una “risorsa naturale”, si cerca di accantonare il principio universale, accettato da tutti, del diritto sovrano dei paesi di sfruttare le proprie risorse naturali, che sono dislocate sottoterra. Di conseguenza, se si hanno risorse sovrane si ha il diritto di richiedere un contributo per lo sfruttamento di queste risorse. Questo non conviene all’impresa capitalista. Il cambio di linguaggio, che pare una semplice sottigliezza, comporta molte implicazioni dal punto di vista della sovranità.
Dietro le ombre cinesi
Quali rischi comporta l’aggressione contro la Libia per il futuro dell’OPEC?
La Libia era uno dei paesi che si opponevano, insieme al Venezuela, a questo “Dialogo” nel quale la maggior parte dei paesi OPEC sono caduti. Questo è il fattore che chiarisce abbastanza ciò che sta accadendo. Questo accade, come diceva Trotsky, “dietro le ombre cinesi”, e l’analisi ci deve condurre a guardare oltre le apparenze.
Quindi l’OPEC ha i giorni contati?
Non lo direi in questi termini, però certo sta correndo pericoli enormi. E il collasso dell’OPEC sarebbe una sconfitta catastrofica per la sovranità dei paesi petroliferi. Una sconfitta dell’OPEC va oltre il tema del petrolio. Non dimentichiamoci che, da anni, le grandi potenze hanno messo gli occhi sull’Amazzonia, perché è una gigantesca riserva di ogni tipo di risorse naturali. Dicono che siccome è una risorsa dell’umanità dovrebbe essere di libero accesso per lo suo sfruttamento a tutti, però loro non danno libero accesso alle loro informazioni scientifiche ottenute nei loro laboratori. Hanno creato un sistema di licenze che privatizza e monopolizza lo sviluppo scientifico e l’accesso alla conoscenza, che deve essere anche patrimonio dell’umanità. Sono in gioco interessi vincolati a una risorsa naturale molto importante per i paesi produttori di petrolio, e genericamente, a tutte le risorse naturali del pianeta.
Un conflitto ancestrale Chi conterrà la voracità del sistema egemonico?
Siamo di fronte a un conflitto ancestrale. Le rivoluzioni borghesi accaddero per questa voracità. I proprietari terrieri, i privati, che erano l’humus del potere feudale, imposero un contributo sulla rendita della terra al capitalista. Ovvero il capitalista avrebbe dovuto condividere la torta della plusvalenza, senza incorrere nei stessi rischi della libera impresa sul mercato. Quando si applica come principio universale, con l’unica eccezione degli Stati Uniti, la proprietà degli Stati sulle risorse naturali, allora il conflitto esce dai confini nazionali, acquisendo un carattere planetario. Questo accade con i minerali, con l’acqua, i boschi. Per questo vogliono cancellare dal dizinario il concetto di “risorsa naturale”. Io, francamente, non mi faccio illusioni. Il capitalismo ha tuttora il coltello dalla parte del manico sul mondo, e mentre questa è una realtà, sranno i suoi interessi ciò che ci verranno imposti. O con la forza fisica, o con l’indottrinamento mediatico culturale. Però ci sono stati avanzamenti notevoli in America Latina con l’ALBA, con l’espressione di una comunità regionale che resiste alle pressioni degli Stati Uniti… E’ un errore credere che questi avanzamenti si sono consolidati, che non hanno subito marce indietro e che non ci sono pericoli. No. La controffensiva è tremenda. In Venezuela, ad esempio, la battaglia si combatte tutti i giorni e questo accade anche su scala planetaria.
Venezuela, un libro aperto. Venezuela, per certo, marchiata da un destino a volte tragico, a volte ottimista sul petrolio.
Il Venezuela è un libro aperto dove si può leggere molto bene di ciò che stiamo parlando. Cosa è accaduto nella cosiddetta IV Repubblica? L’ho vissuto direttamente, perché presidievo la Commissione di Energia e Miniere del Congresso Nazionale, dove si sono discussi i cosiddetti Contratti Petroliferi. Era vigente una Legge degli Idrocarburi applicata nel 1943, dettata dal Governo di Isaias Medina Angarita e per la quale fu abbattuto. Questa Legge stabiliva un sistema di regalie, o contributi patrimoniali per l’accesso alle risorse naturali, di un 16%. E grazie a un’altra Legge che ha sempre emanato Medina Angarita, sulle imposte sulla rendita, le ha condotte nei casi più alti al 67%. Le imprese si avvalgono di diversi escamotage per evadere il contributo fiscale, però in ogni caso il nazionalismo venezuelano è stato molto vincolato alla rivendicazione della partecipazione del paese alle entrate petrolifere. Nel 1975, dopo tutta l’ondata nazionalista nel mondo arabo, con la OPEC alla sua massima estensione, le compagnie erano sulla difensiva, schiacciate tra due forze. Una, l’incremento dei prezzi da parte dell’OPEC ; dall’altra, il pagamento ai paesi produttori di petrolio una regalia per l’imposta sul reddito. Arrivò allora un’ondata neoliberale orientata a liquidare da un lato i contributi fiscali petroliferi e dall’altro la privatizzazione. Questo ha portato come conseguenza a un contributo minimo per la nazione. I primi contratti erano a zero contributi. Scoppiò uno scandalo, e quindi, molto patriotticamente, portarono i contributi all’1%, che a ogni modo era una violazione della legge. Le imposte sul reddito furono abbassate dal 67%, al 34%, stessa percentuale che pagava allora un fornaio. Immediatamente queste misure hanno generato colossali guadagni a favore dei grandi consorzi petroliferi.
Però, inoltre, questi contratti stabilivano la partecipazione azionaria della PDVSA (impresa nazionale) in una compagnia mista, con un 35% come massimo, col pretesto che il controllo che stabiliva la Legge di Nazionalizzazione si poteva accedere attraverso dell’azione della maggioranza azionaria dell’impresa. La PDVSA si trovava quindi in una posizione di svantaggio, perché continuava a pagare due terzi di regalie e il 67% delle imposte. A questo andava sommato la massimalizzazione della produzione: incrementare al massimo la produzione di petrolio, mandando in frantumi gli accordi con l’OPEC. Era un missile puntato al cuore dell’OPEC.
Questo ha comportato come conseguenza la caduta delle entrate petrolifere, che è la principale fonte delle entrate cui dispone lo Stato per mantenere a galla il paese. A ruota si è approfondita ed estesa la povertà nel paese. Quando Hugo Chavez vinse le elezioni nel 1999, mi è toccato essere il tramite del nuovo governo con la PDVSA. Il dirigente dell’impresa mi informò che se si mantenevano i prezzi correnti, non occorreva fare dichiarazione di imposte sulle rendite, perché non ci sarebbero stati redditi da dichiarare. Non ci sarebbero stati dividendi da dichiarare perché non ci sarebbe stato guadagno. E le regalie sarebbero anche calate, perché queste salgono col crescere del prezzo del petrolio per barile. Mi informò poi che era urgente contrattare un prestito di 3 miliardi di dollari per poter pagare gli impiegati. Chavez mi designò in missione per cercare denaro. Ottenni appena 100 milioni di dollari, perché con quei prezzi… chi ci prestava denaro? Che garanzie potevamo fornire? Cos’è che disturba tanto l’impero? Che Hugo Chavez ha ristabilito la regalia al 16%. Dopo, quando viene emanata la Legge sugli Idrocarburi, stabilisce la maggioranza azionaria dello Stato con un minimo del 51%. Si amplia la regalia al 33%, e le imposte sul reddito al 50%. I consorzi considerano come perdite queste nuove condizioni, quantunque continuano ad avere guadagni. Se qualcosa abbiamo appreso in quel periodo è la quantità di denaro colossale che lo Stato stava perdendo a favore degli altrettanti colossali guadagni delle imprese private.
Obiettivo Venezuela.
Se si impongono gli obiettivi imperiali in Libia, il Venezuela non è il prossimo obiettivo?
Ho dubbi. Qual è la strategia in Venezuela? Provocare la destabilizzazione interna e l’isolamento internazionale. Il primo obiettivo, lo hanno ottenuto una volta, con il colpo di Stato del 2002, e l’hanno perso nonostante il forte contingente che avevano in seno alle Forze Armate. Dopo hanno lanciato il golpe petrolifero. Anche in quell’occasione sono stati sconfitti e hanno perso l’altra grande arma che era la PDVSA. Però questo non vuol dire che rinuncino al loro obiettivo contro il Venezuela, perché hanno forti alleati interni, che agiscono assolutamente allineati con gli Stati Uniti per la destabilizzazione del paese, però anche approfittando delle libertà che loro sostengono in Venezuela non esistono.
Internazionalmente, scatenano una campagna feroce contro il Venezuela. Non c’è angolo del pianeta dove non esista un attacco contro il Venezuela. Demonizzano il paese per isolarci dalla comunità internazionale. Dieci paesi decidono di attaccare la Libia e questo ci raccontano che è la Comunità Internazionale. Anche in questo caso verifichiamo la mistificazione del linguaggio. Queste persone non rappresentano i 6 miliardi di esseri umani. I grandi predicatori della democrazia nel mondo hanno un’aperta e cinica dittatura. Nella misura in cui si tutela l’unità del popolo e la coscienza, l’organizzazione e la combattività, che è fondamentale, già sono sconfitti. Cuba, completamente isolata, durante molti anni è sopravissuta perché ha sviluppato una forte coscienza di popolo e sapeva l’Impero che avrebbe pagato un altissimo prezzo attaccandola. In Venezuela la chiave del successo è come a Cuba nelle mani del suo popolo.
Petrolio, fortuna o dannazione?
In questi anni il reddito petrolifero è servito a migliorare la vita dei venezuelani. Secondo il Ministro della Pianificazione e delle Finanze, Jorge Giordani, in questi dodici anni si sono investiti nell’educazione, la salute e il miglioramento in generale delle condizioni della popolazione con più di 330 miliardi di dollari di investimenti. Oggi più del 50% della popolazione venezuelana sta studiando nei diversi livelli istruttivi del paese. Rimangono ancora molte sfide, perché ancora non abbiamo sconfitto completamente la povertà nel paese.
Ora c’è un conflitto tra la distribuzione di questo reddito e lo stimolo produttivo del paese. Viviamo tre grandi paradossi in Venezuela: abbiamo entrate che superano ampliamente la produttività nazionale – la produzione è costosa, è più conveniente importare che produrre -; abbiamo una capacità d’acquisto che supera la capacità di produzione – radice strutturale dell’inflazione -, e finalmente, abbiamo entrate che superano enormemente la capacità dirigenziale del paese, sia la pubblica che quella privata.
*Cuba Debate
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