www.resistenze.org - pensiero resistente - imperialismo - 24-03-14 - n. 491

Le ripercussioni del conflitto Stati uniti-Russia, o come dividere le zone d'influenza e i mercati

Rapporto della Commissione relazioni internazionali del Partito Comunista Libanese sulla situazione politica in Libano e nella regione araba

Marie Nassif-Debs * | lcparty.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

Prima parte

Introduzione

Gli sviluppi economici sul piano internazionale lasciano presagire che la crisi capitalistica non sia prossima a risolversi, malgrado tutte le misure adottate dal 2008 per uscirne. Così, mentre certi rapporti pubblicati dalle autorità economiche internazionali, tanto negli Stati uniti che nell'Unione europea, tentano di portare un po' di ottimismo diffondendo l'idea dell'imminenza del superamento della crisi, la situazione reale ci restituisce un'immagine completamente differente. Difatti, l'aumento degli stipendi dei funzionari del settore pubblico negli Stati uniti non è stata di alcuna utilità né per l'economia vacillante né per il dollaro; parimenti, i problemi di cui soffre l'Unione europea non stanno per essere riassorbiti, a cominciare dalla disoccupazione e dall'impoverimento, per arrivare ai fallimenti, non più limitati alle sole grandi aziende, giacché colpiscono il settore delle Pmi. Tutto ciò costituisce una minaccia concreta alla classe media che, fino ad oggi, è stata la valvola di sicurezza dei regimi capitalistici europei.

In questo contesto di crisi non risolvibile a breve termine, i conflitti tra le potenze capitaliste per spartirsi il mondo vanno acuendosi, a cominciare dalle guerre che mirano alle fonti di energia per finire con quelle per i mercati. Questi conflitti toccano tutti i continenti. Attualmente, l'ultimo per data è rappresentato dalla crisi ucraina, preceduta dai complotti orditi contro il Venezuela, che l'imperialismo statunitense tenta di riprendersi, ed accompagnata da un'escalation senza precedenti in tutta la regione araba, nel Magreb [occidente] e nel Mashreq [oriente], per arrivare fino all'Iran e all'Afghanistan.

L'aggressione statunitense all'Europa dell'est, come in Medio oriente e in America latina, mira ad instaurare un nuovo stato di fatto che impedisca al nuovo polo internazionale, diretto dalla Russia, di cambiare a proprio vantaggio gli equilibri internazionali. Tanto più che questo polo comincia a fare concorrenza a Washington non solo nelle sue zone di influenza, come il Medio oriente, ma anche in casa poiché il Brasile si è unito ai "BRICS" e numerosi paesi latino-americani come Cuba, Venezuela, Ecuador e anche il Cile, si avvicinano a questo nuovo polo. E' la ragione per cui Washington ultimamente ha deciso una "apertura" verso l'Iran, dimenticando il "pericolo" costituito dal nucleare iraniano, che va in senso contrario alla politica perseguita contro il presidente Nicolas Maduro, attraverso le forze reazionarie venezuelane. E' anche la ragione per cui è stata riaperta la battaglia che mira a integrare l'Ucraina nell'Unione europea e nelle forze Nato, per stringere il blocco contro la Russia federale, già previsto all'epoca delle battaglie svoltesi qualche anno fa in Georgia, Abcasia e Ossezia.

Questa situazione di conflitto e di crisi ricorda da molto vicino - come abbiamo spesso ripetuto - quella del mondo agli inizi del XX secolo, che sfociò nella Prima guerra mondiale, con tutto quello che generò in termini di guerre coloniali, calde e fredde. Nel prepararci a commemorare il centenario di questa guerra criminale, vorremmo riportare alla memoria ciò che accadde durante questo periodo e ricordare inoltre che il capitalismo, che aveva perduto molto del suo peso tra gli anni Venti e Cinquanta del secolo scorso, è stato in grado di recuperare gran parte del terreno perduto dopo l'implosione dell'Unione sovietica e quello che ne seguì in termini di arretramento del movimento antimperialista.

La posizione delle potenze regionali nel conflitto

Il Medio oriente occupa oggi il primo posto nel conflitto che oppone i diversi poli capitalistici per il controllo delle fonti energetiche e delle rotte di trasporto di petrolio e gas. Inoltre, con l'estensione del conflitto russo-americano per il controllo del mondo, ad alcune potenze regionali sono toccati nuovi ruoli, in particolare a Israele, Turchia, Iran e Arabia saudita.

1 - Israele

Durante l'ultimo decennio, Israele ha visto diminuire d'importanza il suo ruolo nella regione, a causa sia della diretta presenza militare degli Stati uniti e della Nato, che in seguito alla cocente disfatta delle sue truppe in Libano (2006). Oggi però riguadagna importanza divenendo nuovamente la punta di lancia dell'imperialismo, non solo nel mondo arabo ma in tutto il Medio oriente. Va detto che gli Stati uniti hanno sempre più bisogno di Israele nelle missioni economiche e politico-securitarie in Africa, a cominciare dalla regione sudanese del Darfur e anche di alcuni paesi del Magreb arabo. Non dimentichiamo però il ruolo svolto dal Mossad israeliano in numerosi paesi latino-americani, e nel Venezuela in particolare. Del resto, alcuni centri studi statunitensi hanno di recente pubblicato dei rapporti che suggeriscono come il nuovo ruolo accordato a Israele derivi dal fatto che, malgrado la parziale normalizzazione delle relazioni tra Washington e Teheran, gli Stati uniti non hanno eliminato definitivamente la possibilità di ricorrere ad un'azione militare, fatto questo che rafforza la posizione di Tel Aviv nel nuovo schema mediorientale. Quanto al suo ruolo in Africa, questi stessi rapporti aggiungono che esso andrà aumentando, non solo in Darfur e in Libia, ma anche nella parte meridionale dell'Africa.

Aggiungiamo infine che questo ruolo preponderante, tanto in Africa che in Medio oriente, che sta alla base del progetto dell'amministrazione Usa (presentato da John Kerry da circa sei mesi), mira a liquidare la causa palestinese e ad erigere "Israele, lo stato degli ebrei nel mondo".

2 - Turchia

Per contro, e col ritorno di Israele in prima fila sulla scena mediorientale, il ruolo della Turchia arretra un po'. Difatti, gli Stati uniti avevano, in seguito all'insuccesso delle aggressioni israeliane contro il Libano e Gaza, dato alla Turchia un posto fondamentale nella loro politica per la regione, sia nell'affare del gasdotto "Nabucco" che riguardo la presa in carico dell'opposizione siriana. Ma la delusione è cresciuta molto rapidamente, perché la politica interna condotta da Erdogan e dal suo partito ha creato un grande movimento di malcontento di cui hanno beneficiato altre fazioni della borghesia turca, più specificamente il Movimento Gülen, che hanno saputo approfittare di questo movimento per provare a sbarazzarsi degli islamici "moderati" al potere, senza un reale cambiamento nella posizione o nel ruolo della Turchia.

E così mentre oggi Erdogan, attraverso un tentativo di avvicinamento con l'Iran, tenta di minimizzare gli effetti della crisi economica che spazza la Turchia e di cui il suo governo è primo responsabile, tutte le previsioni dimostrano, a meno di un miracolo, che il suo progetto di riprendere le redini del potere si concluderà con un insuccesso.

3 - Iran

Quanto all'Iran, e contrariamente a quelli che avevano visto nella vittoria di Rouhani una virata verso una politica di "temperanza", bisognerà scorgere nel risultato, un po' sorprendente, delle elezioni presidenziali due obiettivi inseguiti tanto dai cosiddetti "riformatori" che dai seguaci della "guida della rivoluzione", Khamenei. Il primo riguarda i movimenti di protesta, che si sono moltiplicati e ai quali era necessario porre velocemente un termine. Il secondo ha rapporto con la necessità di trovare una soluzione che possa far cessare la crisi economica o quantomeno attenuarla. Quindi, il "cambiamento", sia politico che economico, sopraggiunto in Iran va nel senso degli interessi dell'alleanza di classe tra la borghesia iraniana ed i mullah, e il suo primo risultato è "l'Accordo di Ginevra" per una soluzione amichevole al problema del nucleare iraniano e senza rievocare, da vicino o da lontano, l'arsenale nucleare israeliano. A conferma di ciò va ricordato che alcune settimane prima Israele aveva ottenuto un'altra vittoria con la decisione internazionale di distruggere l'arsenale di armi chimiche siriane senza toccare le armi dello stesso genere da esso possedute.

4 - Arabia saudita

L'Arabia saudita ha ritrovato, per decisione statunitense, il suo ruolo di stato influente nella regione, ruolo contestato per molti anni dalla concorrenza qatariota. Oramai è tornata ad essere uno dei "grandi elettori" rispetto a Siria e Libano, sebbene certi analisti pensino che l'avvicinamento tra Washington e Teheran la avrebbero in certa misura allontanata dalle questioni decisive. Ecco perché la prima azione è stata un cambiamento radicale nelle posizioni dirigenti dei membri della famiglia reale. Questo cambiamento aveva lo scopo di fermare ogni aiuto fornito ai terroristi "jihadisti" che certi emiri avevano supervisionato.

Bisogna anche dire che questi cambiamenti nei ruoli sono soprattutto cambiamenti formali il cui scopo è di preservare i regimi politici di tali paesi, caratterizzati da una parte dall'obbedienza verso l'estero, e dall'altra da un oscurantismo religioso e confessionale. Ciò sta a significare che questi stati regionali non sono molto differenti, ma al contrario la loro particolarità confessionale (sunnita o sciita) e il loro modo di produzione offrono le basi oggettive alla realizzazione del progetto denominato "Nuovo Medio oriente" il cui scopo è di inasprire i conflitti religiosi, confessionali ed etnici per consentire all'imperialismo la spartizione dei paesi arabi e mediorientali in stati religiosi convenienti al progetto israeliano di erigere uno stato degli ebrei nel mondo al posto della Palestina.

La situazione araba: dalle rivoluzioni alle guerre mondiali

Nel momento in cui le grandi potenze internazionali tentano di riorganizzare il mondo secondo i loro interessi, la regione araba, tre anni dopo le sollevazioni e le rivoluzioni che hanno scosso Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Kuwait e le sopraggiunte crisi in Siria e Libano, vive cambiamenti politici molto importanti ma notevolmente pericolosi.

Difatti, da un lato, gli slogan branditi dalle due rivoluzioni sopraggiunte in Tunisia ed Egitto, soprattutto nella seconda fase della rivoluzione egiziana, quella del 3 giugno 2013, sono stati la risposta diretta al "progetto del Nuovo Medio oriente" ma anche ai tentativi di sfaldamento dell'Iraq. Questi slogan hanno attirato, dovunque nel mondo arabo, larghe masse popolari che hanno occupato le strade, rivendicando la creazione di governi antimperialisti in grado di sradicare povertà e sottosviluppo, liberando dalle mani degli imperialisti, da quelli statunitensi in particolare, le ricchezze arabe provenienti dalle fonti energetiche. In più, le masse arabe hanno chiesto la fine dei regimi borghesi che nel corso di lunghi anni hanno utilizzato le guerre e le divisioni religiose per preservare i loro regimi dal cambiamento. Bisogna notare a questo riguardo la caduta veloce e rovinosa del regime dei "fratelli musulmani", prima in Egitto e poi in Tunisia, e il cambiamento che ne è seguito sui due piani politico e costituzionale... ma anche l'importanza crescente del ruolo giocato dal movimento operaio e popolare, all'ombra dei fronti politici dalla portata progressista e con programmi di cambiamento radicale.

Tuttavia questi successi non hanno impedito, da un altro lato, alle forze controrivoluzionarie di proseguire nella loro opera di distruzione. Malgrado le sconfitte, infatti, queste forze non hanno abbassato le armi ma portato avanti le loro azioni attraverso la violenza e il terrorismo, come in Egitto, o attraverso le forze religiose estremiste che dappertutto nel mondo, e particolarmente dai paesi europei, convergono nella regione araba sotto gli slogan "jihadisti". Loro scopo è di reinsediarsi al potere e restaurare i regimi politici caduti. Tutto ciò per continuare a servire il progetto imperialista basato sulla divisione, il caos, seminando distruzione e morte al loro passaggio. Gli esempi attualmente più evidenti sono quelli del Bahrein e soprattutto dello Yemen, diviso in vilayet [province amministrative in cui era diviso l'Impero Ottomano, ndt] di cui alcuni ubbidiscono ad Al Qaeda. C'è anche l'esempio del sud della Libia, continuamente lacerata, che le potenze imperialiste minacciano di devastare sotto il pretesto di mettere fine al terrorismo da loro creato all'epoca dell'intervento contro Gheddafi.

C'è soprattutto la Siria, che rischia di crollare a seguito delle distruzioni e del massiccio sfollamento delle popolazioni civili. E quando parliamo della Siria, abbiamo in mente i paesi circostanti, il Libano in particolare, che subisce due flagelli: in primo luogo, quello dei combattimenti che si svolgono lungo i confini settentrionali e orientali e che spesso raggiungono le città e i villaggi libanesi, in seguito alle divisioni sunnite-sciite inasprite dagli interventi politici e finanziari delle forze internazionali e regionali coinvolte nella crisi siriana; poi quello della presenza di oltre 1,5 milioni di profughi siriani che con loro hanno portato i rispettivi contrasti.

Ci sono, infine, gli sviluppi della situazione nella Palestina occupata, con la colonizzazione ad oltranza, soprattutto intorno a Gerusalemme, tollerata dalle grandi potenze imperialiste (Stati uniti e Unione europea), tanto a causa della situazione in Egitto, che è necessario sorvegliare, che per il nuovo ruolo toccato al Mossad israeliano in parecchie regioni del mondo, e ultimamente nelle ex repubbliche sovietiche.

"Ginevra 2" e l'insuccesso di una soluzione politica alla crisi siriana

In una tale situazione, instabile e pericolosa, si è tenuta la seconda conferenza di Ginevra, dopo otto mesi di indugi e tentennamenti. Era previsto fin dall'inizio che questa seconda conferenza sarebbe fallita, tanto a causa della lotta tra Stati uniti e Russia sulla soluzione prevista, che in seguito ai dissensi tra le due delegazioni siriane sulle priorità: cominciare dall'articolo sulla "lotta contro il terrorismo" (come rivendicato dai rappresentanti dell'attuale regime), o dalla formazione del "governo di transizione" (come vuole l'opposizione venuta dall'estero e rappresentata dalla "Alleanza nazionale" domiciliata in Turchia)?

Allora, perché i belligeranti hanno accettato che "Ginevra 2" avesse luogo all'inizio del 2014? Parecchie sono le ragioni che entrano in gioco.

La prima arriva dallo stato in cui si trovavano tutti i belligeranti, visto che nessuna delle forze in gioco riusciva a sfruttare la situazione sul campo a proprio vantaggio. Difatti, né le forze del regime né quelle dell'opposizione hanno potuto segnare dei cambiamenti significativi sul piano militare, malgrado i violenti combattimenti che hanno avuto luogo nella seconda parte del 2013, compresi quelli sul lato del confine libanese dove la battaglia della regione di Koussair non ha dato i riscontri attesi dalle regioni vicine, quella di Kalamoun, e da quelle più lontane, Aleppo in particolare.

La seconda ragione è legata all'opposizione, particolarmente alla questione della pluralità dei centri decisionali e all'assenza di ogni coordinamento tra le opposizioni interna e quella estera. Inoltre, gli urti tra certi gruppuscoli terroristici, come il "Fronte Al Nosra" o lo "Stato dell'Islam in Iraq e Siria", ed i crimini da loro commessi contro la popolazione civile delle zone occupate hanno reso difficile la posizione degli Stati uniti che sono stati obbligati a riconsiderare l'aiuto (militare) fornito all'opposizione tramite Turchia e Arabia saudita. Ma più ancora, Washington è stata obbligata a discutere con Riad la possibilità di ritirare i combattenti sauditi affiliati ai gruppi terroristici. Allo stesso modo, hanno tentato attraverso le autorità turche di ridurre i movimenti di questi gruppi lungo le frontiere con la Siria, ma anche di chiudere porti e aeroporti alle migliaia di mercenari che giungono dall'Europa e dai paesi arabi.

La terza ragione sta nell'esacerbazione della crisi socio-economica in Siria, tanto nelle regioni controllate dal regime che in quelle controllate dall'opposizione. E' da notare che le popolazioni civili subiscono i patimenti della fame e delle malattie, soprattutto nelle regioni sottoposte a blocco, ma anche la presenza preponderante dei mafiosi, soprattutto vicino a certe istanze dirigenti. A ciò si aggiunge la questione degli sfollati a forza dalle zone dei combattimenti verso i paesi vicini, il Libano soprattutto, e che mancano di tutto perché né la Lega araba e né l'Onu hanno mantenuto le promesse nei loro confronti.

Tutto ciò sta alla base dell'imposizione di una tregua provvisoria di cui avevano bisogno, allo stesso tempo, regime siriano e opposizione, ma anche Stati uniti e Russia… Ma se questa tregua ha aperto la strada alla seconda conferenza di Ginevra, essa non poteva finire in nessun caso con una soluzione stabile… perché da una parte era necessario attendere i risultati dei combattimenti sui diversi fronti, e gli accordi che le due grandi potenze, Stati uniti e Russia, avevano intrapreso con certi paesi della regione, sia riguardo la vendita di armi sia in merito ai nuovi investimenti nei campi di petrolio e gas scoperti nel Mediterraneo orientale, nelle acque territoriali della Palestina occupata, ma anche del Libano, della Siria e di Cipro.

Da ciò si evince che la soluzione che metterebbe fine alla guerra in Siria, tramite "Ginevra 2" o altro ancora, non è vicina a realizzarsi, poiché legata alla riorganizzazione della situazione in tutta la regione araba. Questo significa quindi che i combattimenti in Siria proseguiranno e con loro la morte e la distruzione. Bisogna aggiungere che i futuri sviluppi militari e, soprattutto, economici peggioreranno la situazione aumentando il costo umano e finanziario che il popolo siriano sarà costretto a pagare. Difatti, l'ultimo rapporto dell'Onu citava la cifra di 200 miliardi di dollari come costo della ricostruzione della Siria, allo stato attuale dei fatti… ma questa cifra rischia di aumentare col passare del tempo. Aggiungiamo a ciò l'approfondimento delle divisioni confessionali e delle ripercussioni che i gruppi terroristici lasceranno, non solo in Siria ma anche nei paesi limitrofi, a cominciare dalla Turchia e dal Libano. Del resto, né i paesi del Golfo né quelli europei saranno al riparo dagli strascichi che nascerebbero dal ritorno dei combattenti nei loro paesi. Ricordiamo in questo senso ciò che è già accaduto con quelli che si chiamavano "mujahidin" durante la guerra contro l'Urss in Afghanistan.

Le soluzioni israelo-americane mirano a liquidare la causa palestinese

Nel momento in cui i combattimenti mortali si allargano su tutta la Siria, un conflitto di altra natura pesa sulla Palestina. Questo scontro, cominciato nel luglio 2013 dall'amministrazione Obama, puntava a un doppio obiettivo: per prima cosa, fare pressione sui rappresentanti dello stato palestinese per riportarli al tavolo dei negoziati con Israele senza permettergli di porre alcuna condizione preliminare, neppure quella dell'arresto della politica di colonizzazione seguita dal governo Netanyahu; poi, accettare il progetto elaborato dal ministro degli esteri statunitense, John Kerry, sotto il nome di "accordo quadro".

Bisogna dire che il progetto Kerry costituisce la seconda tappa dell'accordo di Oslo. Una tappa molto pericolosa, vista la fragile situazione politica in Palestina a causa delle divisioni intestine, ma anche della situazione della maggioranza degli stati arabi, per i quali la questione palestinese non costituisce attualmente una priorità. Inoltre, alcuni stati come Arabia saudita e Giordania hanno espresso ufficialmente il loro consenso al nuovo progetto Usa pur non avendo mai visionato il testo scritto.

Cosa contiene, dunque, questo progetto? A partire da quanto detto da John Kerry, senza che sia stato presentato un qualche testo scritto, siamo in grado di dire che "l'accordo quadro" costituisce un progetto molto pericoloso che, se non affrontato, potrebbe finire col liquidare la causa palestinese.

Questo progetto è improntato al riconoscimento di Israele come "stato degli ebrei nel mondo", cosa che da una parte realizzerà il progetto sionista originario, facilitando inoltre un nuovo "trasferimento" verso la Giordania dei palestinesi che non sono riusciti a sradicare dalla loro terra nel 1948. Ricordiamo che Israele aveva già preparato il terreno per la proclamazione di questo progetto mostruoso più di quattro anni fa, a seguito del discorso di Barak Obama all'università del Cairo (e in presenza di Hosni Moubarak), attraverso il voto di una nuova legge sulla nazionalità che va nel senso della purificazione religiosa dei territori controllati. Per di più, il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Liebermann, progetta da tempo quello che chiama uno "scambio di terre" coi palestinesi, che chiaramente significa un dominio sulle nuove terre vicine delle regioni palestinesi conquistate nel 1948… senza dimenticare quelle intorno ad Al-Quds (Gerusalemme) dove le colonie israeliane sono state costruite in questi ultimi anni.

A ciò si aggiunga la posizione molto arrogante nei confronti delle risoluzioni delle Nazioni unite e del Consiglio di sicurezza, soprattutto quelle concernenti il diritto al ritorno dei profughi (e più precisamente la Risoluzione 194), ma anche nei confronti Al-Quds come capitale dello stato palestinese e della sorte delle colonie israeliane costruite in piena Cisgiordania e che occupano centinaia di chilometri di questa regione.

Il nuovo progetto presentato da John Kerry, pur parlando formalmente dell'esistenza di "due stati" in Palestina, riconosce a Israele il "diritto di proteggersi" attraverso lo spiegamento di una forza militare che ha per scopo il controllo delle frontiere che dividono i due "stati" per un periodo che va dai dieci ai quindici anni. E ancora, gli consegna la "missione" della sicurezza dei territori che si trovano lungo il Giordano, attraverso dispositivi d'osservazione molto sofisticati, ma anche permanenti. Questa missione e questo diritto sono stati velocemente recepiti da Israele, all'inizio attraverso una proposta delle commissioni parlamentari secondo cui è necessario mettere le mani sul letto del Giordano, anche in caso di accordo coi palestinesi, e poi attraverso la creazione a favore dei sionisti reazionari, con alla loro testa il ministro degli interni Gedeon Saar, della prima colonia israeliana sul Giordano che, secondo Saar, "è e resterà israeliano".

Tuttavia, il fatto il più pericoloso rimane quanto dichiarato da John Kerry a certi media statunitensi sul fatto che il presidente palestinese Mahmoud Abbas aveva accettato il contenuto del suo progetto, compresa la parte riguardante la soppressione del "diritto al ritorno", fatto a cui va aggiunto che le reazioni dell'insieme delle forze politiche palestinesi si sono limitate ad alcune dichiarazioni e comunicati, senza tentare azioni reali in grado di fronteggiare il pericolo, soprattutto per i profughi palestinesi nei paesi arabi.

(continua)

* Marie Nassif-Debs, Segretario generale aggiunto del PCL e responsabile delle Relazioni internazionali


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