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La vergogna dell'Iraq, una volta di più

Zoltan Zigedy | zzs-blg.blogspot.it
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

10/07/2014

Gli jihadisti sunniti dello Stato Islamico dell'Iraq e di al-Sham conquistano nel nord dell'Iraq una città dopo città, mentre i soldati sciiti vestiti di nero si mobilitano militarmente a respingerli. Di questo caos vengono addebitati antichi odi religiosi. Ma il conflitto in Iraq oggi è tanto meno imputabile a scontri ancestrali quanto il risultato prevedibile di moderne politiche di supremazia.

Gli Stati Uniti non devono ripetere l'errore di vent'anni fa, quando una generazione di leader occidentali giustificò le guerre che lacerarono la Jugoslavia come il risultato di antichi odi etnici. Allora come oggi, questo tipo di valutazioni costituiscono una semplificazione che esenta da riflessioni più profonde.
Odi alimentati dalle politiche di potere di Daniel Benjamin (Hatreds Bred by Power Politics, Daniel Benjamin, Wall Street Journal, 28-29 giugno 2014)

Benjamin, un ex coordinatore del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, ha ragione su entrambi i fronti: è la politica che sostanzialmente determina le crisi in Medio Oriente e spiegazioni molto riduttive ma convenienti degli eventi catastrofici soppiantano qualsiasi analisi reale.

Gli apologeti di entrambi i Partiti e i media compiacenti imputano la colpa del pantano che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno creato in Medio Oriente, alle vittime stesse. Insistono sul fatto che dietro il caos e la violenza non c'è una politica estera iniqua messa a punto per promuovere gli interessi corporativi degli Stati Uniti e installare governi fantoccio, ma vecchie animosità tribali e religiose, il disprezzo per i "diritti umani" e l'ignoranza dei valori "democratici" che ostacolano la missione "civilizzatrice" degli Stati Uniti e dell'Unione europea. Allo stesso modo in cui le élite dominanti statunitensi eludevano le lezioni della sconfitta in Vietnam, i loro corrispettivi del ventunesimo secolo ripetono le stesse spiegazioni strumentali e scioviniste per giustificare l'odio e la carneficina di massa che essi stessi perpetrano.

A suo merito, Benjamin insiste su spiegazioni più sostanziose. Come insider e fautore della politica degli Stati Uniti, è introdotto, conosce gli interessi - interessi economici e politici - e il ruolo decisivo che giocano nel plasmare gli eventi oramai fuori controllo in Iraq. Egli ammette, per quanto riguarda "i demoni del settarismo" che "gli Stati Uniti [li] hanno involontariamente favoriti..." [mio il corsivo]. Se questa confessione è molto più di quanto la maggior parte dei commentatori di politica estera degli Stati Uniti vuole ammettere, resta pur sempre un eufemismo della verità.

Come ho sostenuto in un precedente articolo (The Shame of Iraq, del 22 giugno 2014), le nazioni occidentali, specialmente gli Stati Uniti e Israele, hanno dedicato enormi risorse e attenzione a reindirizzare verso il fondamentalismo religioso la tendenza alla secolarizzazione del secondo dopoguerra in Medio Oriente. Hanno, con un certo successo, liquidato i movimenti laici e promosso il fanatismo religioso al suo posto. Non è difficile discernerne la motivazione: nel calcolo dell'imperialismo, l'arretratezza con il suo portato di frizioni etniche e religiose, spesso travolge la lotta per l'indipendenza economica e la giustizia sociale che di solito trova terreno fertile nel secolarismo.

Sia chiaro, non è mia intenzione ritrarre il nasserismo, il primo periodo ba'athista, la breve leadership di Mossadeq in Iran o la stagione del Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan come incarnazione della sovranità nazionale, l'unità o il socialismo. Tuttavia, furono parte di un salutare movimento antimperialista, indipendentista, un movimento che raccoglieva lo slancio dopo la Seconda Guerra Mondiale. In Centro e Sud America, questa tendenza è stata associata a leader come Peron, Goulart, Bosch, Fidel e Arbenz. Anche se non tutti sono stati esempi senza macchia di progresso sociale o democrazia radicale, tutti hanno cercato di guadagnarsi un percorso indipendente per lo sviluppo nazionale, un percorso che ha attirato l'attenzione e le ire degli Stati Uniti e dei loro alleati. Allo stesso modo, Nkrumah, Kenyatta e una serie di leader africani nonché Nehru e Sukarno in Asia, tentarono di sfuggire alla sottomissione del capitalismo occidentale sfruttando l'opportunità della guerra fredda. Nella maggior parte dei casi, la fuga venne sventata attraverso l'assassinio, il colpo di stato della CIA, la corruzione occulta o la divisione. In Medio Oriente, lo strumento primario stava nell'alimentare il settarismo, talvolta dormiente ma sempre presente, etnico o religioso.

Con il crollo dell'Unione Sovietica, questa opportunità è sfumata e la strada verso l'indipendenza politica ed economica è molto più difficoltosa.

Per comprendere la debacle in Iraq, il contesto - quello storico - è tutto: una verità che l'ex funzionario del Dipartimento di Stato, Daniel Benjamin, comprende pienamente. Sprezzante delle spiegazioni palesemente assurde che iniziano e finiscono con presunte patologie del Medio Oriente, insiste che: "la scintilla dietro gli incendi di oggi, divampa con la rivoluzione iraniana del 1979". Certo, la rivoluzione iraniana è un facile capro espiatorio per chi non volesse esporre pienamente il ruolo fondamentale degli Stati Uniti in termini di impulso, accensione e alimentazione dei "fuochi" che divampano in tutto il Medio Oriente.

Sì, il rovesciamento dello Scià, burattino affidabile e tutore degli interessi degli Stati Uniti, ha scatenato una tempesta fondamentalista. Ma è impossibile immaginare la rivoluzione religiosa senza cogliere i decenni di violenta e completa repressione della laica sinistra iraniana, a partire dal colpo di stato istigato da USA-UK contro il moderato, laico e democratico primo ministro, Mohammed Mossadeq, nel 1953 .

Mentre Benjamin insiste sul fatto che dobbiamo porci domande credibili circa la catastrofe irachena, volutamente ci dirige lontano da risposte credibili.

Nulla denuncia più chiaramente il fallimento completo della politica statunitense in Medio Oriente che la diffusa "sorpresa" che accompagna l'offensiva travolgente di ISIS in un segmento enorme dell'Iraq. Nonostante decenni di intense indagini e l'applicazione di tecnologie sofisticate, i servizi di sicurezza statunitensi sono stati presi completamente alla sprovvista dalla velocità e dal successo dell'offensiva. Altrettanto imbarazzante e "sorprendente" è stato il completo collasso contro ISIS dell'apparato militare iracheno, addestrato, finanziato e armato dagli USA.

Ma i politici americani sono stati altrettanto "sorpresi" dal tradimento dei loro fantocci fondamentalisti quando, dopo aver minato la rivoluzione in Afghanistan, lanciarono un attacco contro gli Stati Uniti nel 2001. Naturalmente, sono stati anche "sorpresi" dal caos creatosi in Libia dopo la guerra mossa da Stati Uniti e NATO a Gheddafi, con distruzione, morte e instabilità. Sono "sorpresi" che il loro sostegno a un'insurrezione contro Assad in Siria abbia attratto eserciti mercenari intenzionati a creare un califfato fondamentalista (ironia della sorte, sfidando il governo fantoccio degli Stati Uniti in Iraq). Saranno altrettanto "sorpresi" quando il governo fantoccio in Afghanistan crollerà nei prossimi anni.

Allo stesso tempo, i governanti statunitensi, ammantati nelle bandiere dei diritti umani e della democrazia, sono pronti ad accettare i più gravi abusi ai diritti umani e alla democrazia, in paesi come l'Egitto, l'Arabia Saudita e la Colombia.

Che cosa significa questa insensibilità per la pace e la stabilità, questa ipocrisia senza precedenti?

Sicuramente, non lascia dubbi sul fatto che la politica statunitense in Medio Oriente, come la sua politica verso Cuba, Venezuela, e molti altri paesi, non è collegata a valori magnanimi. Invece, è profondamente radicata negli interessi degli Stati Uniti: non certo gli interessi del popolo degli Stati Uniti, che mostra costantemente nei sondaggi la sua disapprovazione per gli interventi degli Stati Uniti, ma gli interessi delle multinazionali statunitensi e le loro consorterie.

Ci si può solo augurare che questa verità possa superare il pressoché impenetrabile filtro dei media corporativi che nega l'accesso a tutti, se non al futile intrattenimento e alla politica surreale.

Ma questo non giustifica la quiescenza e l'inazione del vasto popolo della sinistra degli Stati Uniti. Anche se la maggior parte non può pronunciare la parola "imperialismo", vedono sicuramente il modello di violenza e distruzione che è una costante delle politiche degli Stati Uniti. Non possono sfuggire al bilancio delle vite umane sacrificate dacché è stato partorito il mito fasullo della "guerra al terrore". Non possono ignorare la contraddizione delle ingenti risorse destinate alla distruzione e al dominio, mentre le infrastrutture, i servizi e il sistema di welfare negli Stati Uniti sono al lumicino.

Questa assidua mitezza verso l'imperialismo non può essere plausibilmente giustificata se non da un servilismo ossequioso alle fortune elettorali del Partito Democratico. Dico "ossequioso" perché nessun altra parola potrebbe rappresentare la fedeltà verso una leadership del Partito Democratico che è completamente sprezzante del Partito della "sinistra" e ancor più sprezzante verso la sinistra in generale.

Se l'amministrazione democratica, che godeva di un mandato travolgente dagli elettori degli Stati Uniti, conquistando la maggioranza del Congresso sulla promessa di un urgente cambiamento, non riesce a cessare l'aggressività, allora c'è poco da sperare per il futuro. Pertanto, il silenzio di fronte all'omicida debacle irachena, tacere di fronte all'impegno degli Stati Uniti equivale a strisciare al cospetto di un Partito Democratico moralmente corrotto.

Certo, alcuni hanno parlato, si sono organizzati, hanno dimostrato, ma troppo pochi per sfidare il muro di fuoco dei media. C'è bisogno di fare molto di più: organizzare eventualmente la propria mobilitazione, se si teme di minacciare la propria purezza ideologica manifestando gomito a gomito con diverse sfumature della sinistra radicale. Ma la mobilitazione pubblica contro l'imperialismo non può essere accantonata per opportunismo elettorale.


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