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Intervento del Partito Comunista al Seminario internazionale contro UE e le altre unioni imperialiste

Partito Comunista (Italia) | criticaproletaria.it

10/12/2016

Riportiamo di seguito il testo completo preparato per l'occasione dal nostro Partito, che era presente al seminario col compagno Alberto Lombardo, che ha letto un estratto di questo documento.

I comunisti e l'Europa unita

Il 23 agosto 1915 apparve sul Sotsial-Demokrat un articolo di Lenin "Sulla parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa", che possiamo considerare come l'anticipazione del suo testo L'imperialismo, apparso l'anno successivo, ossia esattamente 100 anni fa.

Kautsky su Die Neue Zeit, il 30 aprile 1915 scriveva:

«Da un punto di vista puramente economico, non è impossibile che il capitalismo raggiunga un a nuova fase che sia l'estensione della politica dei monopoli in politica estera, la fase dell'ultra-imperialismo, cioè di un superimperialismo, di un'unione degli imperialismi di tutto il mondo e non i conflitti tra di essi, una fase in cui le guerre cesserebbero sotto il capitalismo, una fase di "sfruttamento congiunto del mondo da pare del capitale finanziario internazionale unificato"». (riportato in Lenin, L'imperialismo).

Già qualche anno prima[1] si era affacciata nella socialdemocrazia l'idea che le alleanze militari e ancor più i conglomerati imperialistici potessero fare da argine ai pericoli della guerra. Come andò a finire è noto a tutti: in Europa si crearono due blocchi imperialistici, che diedero vita alla più violenta, sanguinosa e distruttiva guerra che l'umanità avesse visto fino ad allora.

In una conferenza del POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico Russo, allora il partito di Lenin) svoltasi a Berna dal 27 febbraio al 4 marzo 1915 Lenin, intervenuto come rappresentante del Comitato centrale e dell'organo centrale del partito, il Sozial-Demokrat, tenne la relazione sul punto principale all'ordine del giorno: la guerra e i compiti del partito. In quella occasione si decise che gli "Stati Uniti d'Europa", come parola d'ordine politica, sarebbe stata «assurda e bugiarda "senza l'abbattimento rivoluzionario delle monarchie tedesca, austriaca e russa"». Osserva Lenin nell'articolo dell'agosto è solo la forma sovrastrutturale (monarchie o repubbliche) che costituirebbe la natura di questi futuribili Stati Uniti? Naturalmente no, risponde Lenin:

«Opporsi, entro i limiti del giudizio politico contenuto in questa parola d'ordine, a tale impostazione della questione – per esempio, sostenendo il punto di vista che essa offusca o indebolisce ecc. la parola d'ordine della rivoluzione socialista – sarebbe assolutamente errato. Le trasformazioni politiche a tendenza effettivamente democratica, e ancor più le rivoluzioni politiche, non possono in nessun caso, mai ed a nessuna condizione, né offuscare né indebolire la parola d'ordine della rivoluzione socialista. Al contrario, esse avvicinano sempre più questa rivoluzione, ne allargano la base, attirano nella lotta socialista nuovi strati della piccola borghesia e delle masse semiproletarie. D'altra parte, le rivoluzioni politiche sono inevitabili durante lo sviluppo della rivoluzione socialista. Questa non deve esser considerata come un atto singolo, bensì come un periodo di tempestose scosse economiche e politiche, di lotta di classe molto acuta, di guerra civile, di rivoluzioni e di controrivoluzioni. Ma se la parola d'ordine degli Stati uniti repubblicani d'Europa, collegata all'abbattimento rivoluzionario delle tre monarchie europee più reazionarie, con la monarchia russa in testa, è assolutamente inattaccabile come parola d'ordine politica, rimane pur sempre da risolvere l'importantissima questione del suo contenuto e significato economico. Dal punto di vista delle condizioni economiche dell'imperialismo, ossia dell'esportazione del capitale e della divisione del mondo da parte delle potenze coloniali "progredite" e "civili", gli Stati Uniti d'Europa in regime capitalista sarebbero o impossibili o reazionari.»

Quindi Lenin si oppone allo slogan non perché è fuorviante dal punto di vista agitatorio, ma perché non risulta corretto dal punto di vista dei rapporti di produzione a cui esso si riferisce. Ed è per questo motivo che arriva a respingere questa parola d'ordine.

«Il capitalismo è la proprietà privata dei mezzi di produzione e l'anarchia della produzione. Predicare una "giusta" divisione del reddito su una tale base è proudhonismo, ignoranza piccolo-borghese, perbenismo. Non si può dividere se non "secondo la forza". Certo, fra i capitalisti e fra le potenze sono possibili accordi temporanei. In tal senso sono anche possibili gli Stati Uniti d'Europa, come accordo fra i capitalisti europei… Ma a qual fine? Soltanto al fine di schiacciare tutti insieme il socialismo in Europa per conservare, tutti insieme, le colonie usurpate, contro il Giappone e l'America che sono molto lesi dall'attuale spartizione delle colonie e che nell'ultimo cinquantennio si sono rafforzati con rapidità incomparabilmente maggiore dell'Europa arretrata, monarchica, la quale incomincia a putrefarsi per senilità.

Dobbiamo imparare da questo insegnamento che ci dà Lenin il fatto che non solo la politica del Partito Comunista, ma anche le parole d'ordine devono essere non solo efficaci dal punto di vista propagandistico, ma anche coerenti con la situazione reale e educare il proletariato a un'analisi corretta.

Per esempio, attualmente nei paesi a capitalismo avanzato come l'Italia – paese che occupa un posto di rilievo nella piramide imperialista – alcune forze politiche prospettano un'analisi secondo la quale tali paesi sono "colonie" degli Stati Uniti o della Germania. Tali parole d'ordine, seppur hanno facile presa sui settori sociali che subiscono più pesantemente la crisi, si rivelano del tutto errate. Sono errate sia dal punto di vista dell'analisi economica, perché non corrispondono al reale ruolo che quei paesi svolgono negli scenari politico-militari internazionali. Ma sono anche errate, perché tendono ad assolvere le rispettive borghesie nazionali delle responsabilità che esse hanno nei confronti nella conduzione della crisi e dell'attacco alle condizioni di vita e dei diritti del proprio proletariato. Tale parola d'ordine genera confusione tra le file della classe operaia e tende a portarlo "sotto le bandiere" della piccola e media borghesia dei propri paesi, in particolare dei partiti di destra, nazionalisti e reazionari, che prospettano un'uscita della crisi ipotizzando un impossibile ritorno alle condizioni economiche di anni e anni fa. Invece l'obiettivo del Partiti Comunisti dev'essere sì quello di dividere politicamente l'alta borghesia monopolistica dagli strati inferiori, soprattutto quelli più bassi, ma imponendo l'egemonia della classe operaia e facendo emergere con sempre maggiore forza la necessità stringente e senza alternative del socialismo-comunismo.

Un'altra parola d'ordine fuorviante che alcune forze politiche avanzano è quella secondo la quale, a partire da un'analisi errata dell'imperialismo considerato solo secondo l'aspetto militarista e non secondo la sua natura dei rapporti sociali ed economici, contro l'imperialismo USA-NATO, visto come il "nemico principale", si invoca un'alleanza di tutte le altre forze, imperialiste e antimperialiste. In questo quadro i BRICS, anziché come concorrenti dell'imperialismo atlantico, vengono visti come "antagonisti" e si plaude a ogni contrapposizione che essi esercitano al primo, anche solo per raggiungere i propri scopi espansionistici. Anche qui, l'antiamericanismo è una moneta facile da spendere e può anche raccogliere facili simpatie. Ma il risultato politico è quello di mistificare la vera natura degli altri poli imperialisti e in ultima analisi di lasciare impreparata la classe operaia agli sviluppi che stanno sempre più prendendo piede a livello internazionale, per esempio, i repentini cambi di schieramento tra Russia, Turchia, Israele, Arabia Saudita, Cina, ecc. Senza la reale comprensione della vera natura di classe delle dirigenze di tali paesi, tali sommovimenti risultano incomprensibili.

Possiamo quindi avanzare una prima conclusione che siamo indotti a fare dalla lettura di questo breve ma fondamentale testo di Lenin: l'analisi e l'azione politica del Partito Comunista deve sempre e in ogni occasione partire dalla natura dei rapporti economici e sociali e quindi da essi far derivare le conseguenze politiche. Ciò non significa ridurre l'analisi a un mero economicismo, bisogna ricordare che la sovrastruttura ha sempre una reazione sulla base economica e la condiziona a sua volta in un processo dialettico. Ma in ultima analisi sono gli interessi delle classi che ne determinano la politica e non viceversa, anche se ciò non è mai automatico e può subire temporanee alterazioni.

Un altro passaggio importantissimo dell'articolo di Lenin dice:

«Gli Stati uniti del mondo (e non d'Europa) rappresentano la forma statale di unione e di libertà delle nazioni, che per noi è legata al socialismo, fino a che la completa vittoria del comunismo non porterà alla sparizione definitiva di qualsiasi Stato, compresi quelli democratici. La parola d'ordine degli Stati uniti del mondo, come parola d'ordine indipendente, non sarebbe forse giusta, innanzitutto perché essa coincide con il socialismo; in secondo luogo perché potrebbe generare l'opinione errata dell'impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese, una concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri. L'ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalista, preso separatamente.»

Questo brano non solo è stato fondamentale nel tracciare il percorso di costruzione del socialismo nella Russia rivoluzionaria e poi nell'URSS, ma è chiarificante anche ai giorni nostri.

Infatti un'altra parola d'ordine fuorviante e in ultima analisi paralizzante per il movimento rivoluzionario è quella secondo la quale la rivoluzione non si può fare in un solo paese, come per esempio l'Italia. O la crisi rivoluzionaria scoppia sincronizzata almeno in tutta Europa, o ogni tentativo rivoluzionario sarà destinato al fallimento.

Questo punto di vista parte da una considerazione fin troppo ovvia: un unico paese che si libera dall'oppressione capitalista e imperialista, assediato da tutti i lati da eserciti agguerriti e ben organizzati, ha minori probabilità di sopravvivere all'assedio di più paesi che si ribellano tutt'insieme e si spalleggiano l'uno con l'altro. Ma qual è la conseguenza di questa banale osservazione? Dobbiamo ognuno nei nostri paesi aspettare che siano pronti tutti gli altri, o almeno una parte significativa di essi? La rivoluzione non si aspetta, si prepara. Il sommovimento rivoluzionario in un paese non può che favorire e accelerare le condizioni in quelli adiacenti. Le condizioni rivoluzionarie soggettive in Italia sono arretrate, ma vediamo come tutti i giorni la coraggiosa lotta del Partito Comunista di Grecia dà forza e infonde coraggio ai rivoluzionari in tutta Europa, fa da esempio al proletariato degli altri paesi e accelera le condizioni rivoluzionarie internazionali. Anche in Italia il nostro Partito riesce a condurre una battaglia di successo contro l'opportunismo grazie anche all'esempio costituito dalla battaglia che il KKE conduce incessantemente contro il governo Syriza, riesce a scuotere il torpore e la rassegnazione di tanti compagni fuorviati da anni e anni di annebbiamento nei partiti opportunisti legati alla Sinistra Europea, riesce ad avanzare parole d'ordine rivoluzionarie e non solo di rivendicazioni economiche tra la classe operaia italiana che risultano credibili grazie all'esempio delle gigantesche manifestazioni di massa guidate in Grecia dal KKE e dal PAME.

Un'ultima considerazione sull'analisi che Lenin fa sul rapporto tra il capitalismo in Europa e negli USA.

«In confronto agli Stati Uniti d'America, l'Europa, nel suo insieme, rappresenta la stasi economica. Sulla base economica attuale, ossia in regime capitalista, gli Stati Uniti d'Europa significherebbero l'organizzazione della reazione per frenare lo sviluppo più rapido dell'America. Il tempo in cui la causa della democrazia e del socialismo riguardava soltanto l'Europa è passato senza ritorno.»

Già Lenin prevede la competizione tra un imperialismo in declino, quello europeo – non solo germanico, ma anche anglo-francese – e quello in ascesa, quello statunitense per la spartizione del mondo. Ogni conglomerato imperialista non può che avere come obiettivo, oltre naturalmente l'oppressione del proprio proletariato e le classi subalterne, le alleanze delle borghesie monopolistiche con altre borghesie per competere meglio con altri conglomerati. Ancora una volta è la base materiale che dà la forma alla contraddizione principale. Non è stata e non è la guerra a risolvere la contraddizione tra capitalismo USA e anglo-francese.

Le parole di Lenin non possono non richiamare alla mente quanto elaborato da Gramsci nel 1934 nei Quaderni del Carcere (Quaderno 22) a proposito di Americanismo e fordismo:

«… in America esiste «naturalmente» … «una composizione demografica razionale» e consiste in ciò che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, cioè classi assolutamente parassitarie. La «tradizione», la «civiltà» europea è invece proprio caratterizzata dall'esistenza di classi simili, create dalla «ricchezza» e «complessità» della storia passata che ha lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del |12| clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell'esercito prima professionale poi di leva, ma professionale per l'ufficialità. Si può anzi dire che quanto più vetusta è la storia di un paese, e tanto più numerose e gravose sono queste sedimentazioni di masse fannullone e inutili, che vivono del «patrimonio» degli «avi», di questi pensionati della storia economica.

L'America non ha grandi «tradizioni storiche e culturali» ma non è neanche gravata da questa cappa di piombo: è questa una delle principali ragioni – più importante certo della così detta ricchezza naturale – della sua formidabile accumulazione di capitali, nonostante il tenore di vita superiore, nelle classi popolari, a quello europeo. La non esistenza di queste sedimentazioni vischiosamente parassitarie lasciate dalle fasi storiche passate, ha permesso una base sana all'industria e specialmente al commercio e permette sempre più la riduzione della funzione economica rappresentata dai trasporti e dal commercio a una reale attività subalterna della produzione, anzi il tentativo di assorbire queste attività nell'attività produttiva stessa. Poiché esistevano queste condizioni preliminari, già razionalizzate dallo svolgimento storico, è stato relativamente facile razionalizzare la produzione e il lavoro, combinando abilmente la forza (distruzione del sindacalismo operaio a base territoriale) con la persuasione (alti salari, benefizi sociali diversi, propaganda ideologica e politica abilissima) e ottenendo di imperniare tutta la vita del paese sulla produzione. L'egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell'ideologia.»

Entrambe queste analisi, esempio magnifico di applicazione del materialismo storico alla situazione reale, ci guidano a avanzare le nostre analisi sulla situazione contemporanea.

Oggi gli USA hanno subìto una modifica profonda della propria struttura del capitale finanziario. Non sono più il paese a elevata velocità di sviluppo, né a bassa concentrazione di ceti improduttivi speculativi. La sovraccumulazione di capitali anzi ha raggiunto vertici inimmaginabili in tutto simili a quelli della "vecchia Europa". Ciò non poteva che essere così. Le fasi "progressiste" del capitalismo durano il breve spazio necessario a raggiungere i limiti della saturazione dei mercati, dopo di che il declino dello sviluppo delle forze produttive si compie inesorabilmente.

Oggi invece sono certi paesi emergenti e ancor di più Cina e India a giocare il ruolo che giocavano un secolo fa gli USA: bassa concentrazione di ceto improduttivo meramente speculativo, alto tasso di sviluppo del PIL, attrazione dei processi manifatturieri, sono diventati "la fabbrica del mondo". La differenza invece sta nel basso tenore di vita delle classi popolari, che però è cresciuto in modo esponenziale rispetto ai decenni passati.

I paragoni e i parallelismi nella storia sono sempre pericolosi e scivolosi. Si rischia sempre di cadere nelle semplificazioni ingenue e fuorvianti. Tuttavia, pur con i dovuti distinguo, abbiamo in Lenin il suggerimento di come atteggiarci nei confronti di questi paesi.

Dobbiamo sostenere gli "Stati uniti d'Europa"? ossia, dobbiamo sostenere le forme di integrazione europea e atlantica, pensando che queste possano essere una barriera contro lo scoppio di nuovi conflitti locali o addirittura globali? Può esistere in regime capitalistico un'"Europa dei popoli" più giusta dell'attuale "Europa delle banche"?

No. «Non si può dividere se non "secondo la forza"» ci insegna Lenin. Ogni ricetta redistributiva è utopistica, e quindi buona solo per creare falsi obiettivi alla classe operaia, o addirittura si potrebbe rivelare funzionale alla concentrazione monopolistica, scaricando il peso della redistribuzione sulle classi medie e disarticolando l'organizzazione della classe operaia sui propri luoghi di lavoro, attraverso false parole d'ordine del tipo "salario sociale" che assoggetta e schiavizza sempre di più il proletariato, privandolo del suo ruolo organizzatore della produzione.

Già nel XIX secolo abbiamo avuto esempi di fusioni in complessi nazionali avvenuti secondo una forza diseguale. L'unità d'Italia fu proprio questo. Anche qui ci aiuta la grande lezione di Gramsci: una fusione degli interessi delle classi dominanti del Nord e del Sud, ripartiti secondo la propria forza, il tutto a spese delle classi subalterne del nord e del sud Italia, con la definitiva sconfitta delle istanze democratiche repubblicane, la non soluzione del problema contadino e la sussunzione dei ceti intellettuali al dominio della neonata borghesia italiana.

Gli "Stati Uniti d'Europa", come cento anni fa, «in regime capitalistico gli Stati Uniti d'Europa sarebbero o impossibili o reazionari», una piramide imperialista alleata con altri conglomerati e in opposizione concorrente con altri. Non sarebbero se non quello che sono già, un sistema armato di nazioni con una forte proiezione militare ai propri confini (est e Mediterraneo), una propensione ad accordi commerciali che favoriscono i monopoli a scapito delle classi subalterne, un ampio mercato finanziario e commerciale in cui spartirsi ruoli e spazi "secondo la forza".

***

Nel 1957 la ratifica dei Trattati di Roma, con cui venne istituita la CEE e l'Euroatom, vede il voto contrario e la netta opposizione del PCI, come altrettanta opposizione avviene da parte del PCF in Francia, allora i principali partiti comunisti dei paesi coinvolti.

Quando nel 1957 alla Camera dei Deputati viene chiesta la ratifica del trattato di Roma, la posizione comunista – espressa da Giuseppe Berti, relatore della mozione con cui si chiedeva di non ratificare il trattato – non potrebbe essere più chiara. Berti, tra gli applausi dei deputati comunisti alla Camera, affermò: «Non ha senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un'altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell'Europa occidentale il capitale monopolistico.» Era il 1957, il processo di integrazione europea era appena iniziato ma le sue finalità apparivano già chiarissime. Basterebbe sostituire l'espressione "Mercato Europeo Comune", oggi desueta, con "Unione Europea" e avremmo una sintesi eccezionale della natura reale del processo di integrazione europeo.

Anche nel 1957 l'integrazione europea viene presentata come un elemento progressivo, come un mezzo per pacificare definitivamente il continente, rispondere alle esigenze economiche delle nazioni coinvolte. Un'intera pagina dell'edizione de l'Unità viene intitolata «Che cosa significa la sigla MEC»

Si legge nell'articolo: «La manodopera italiana entrerà in concorrenza sugli stessi mercati con la manodopera – a bassissimo costo – dei paesi d'oltre mare»; «si prevede un aumento di produttività ma non una riduzione dell'orario di lavoro» e ancora: «l'economia italiana corre il rischio di vedersi privata della mano d'opera migliore attraverso l'emigrazione degli operai specializzati».

Il PCI, nel 1957, era ben consapevole dunque degli effetti potenziali dell'integrazione europea relativamente alla condizione dei lavoratori, e la maggiore preoccupazione era legata al Mezzogiorno. Una preoccupazione che si evidenzia particolarmente nei punti seguenti, dove il linguaggio chiaro e semplice con cui il partito voleva comunicare alla classe operaia e ai ceti popolari la reale natura del trattato internazionale, mirava in primo luogo a smascherare la terminologia utilizzata e l'abuso del termine "libertà".

Il PCI definiva senza mezzi termini la libertà di circolazione come «la libertà dei monopolisti». L'analisi semplice e chiara contenuta in questo punto è validissima ancora oggi. «La "libera circolazione dei capitali" significa che i monopoli di ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona all'altra scegliendo quella dove esistono le possibilità di realizzare maggiori profitti. Date le condizioni di inferiorità nelle quali si trova la nostra economia è possibile che attraverso questa libera circolazione di capitali, vi sia nel nostro paese una penetrazione di tipo imperialistico di capitale straniero, soprattutto tedesco. In secondo è possibile che si verifichi da parte dei monopoli italiani una fuga di capitali dall'Italia.»

Sulla questione dell'abolizione dei dazi doganali e delle barriere al mercato comune il Partito Comunista spiega gli effetti che avranno. «L'eliminazione di queste tariffe provocherà una concorrenza molto più aspra tra le diverse ditte operanti nei paesi aderenti; se si esamina la struttura industriale e la potenza economica delle varie nazioni, si comprende che la posizione dell'Italia è in generale la più debole di tutte quante tanto è vero che finora i dazi doganali italiani sono stati i più alti proprio per proteggere la nostra produzione dalla più robusta concorrenza straniera».Ma il Partito Comunista non si limita a parlare di minaccia dall'esterno. La sua non è una posizione "nazionalista" al contrario mette in rilievo come la grande impresa monopolistica nazionale sia parte attiva e promotrice del processo di integrazione economica europea. «A questo punto – si legge nella pagina de l'Unità – potrebbe sorgere la domanda: perché gli industriali non si oppongono al MEC? Il fatto è che gli iniziatori del MEC sono stati i grossi monopoli industriali che all'interno del mercato comune avranno sufficiente forza per poter sviluppare i loro affari ai danni dei piccoli produttori, sia nazionali che degli altri paesi. La FIAT ad esempio, grazie agli investimenti americani, è riuscita a portare la sua produzione a un'efficienza tale da potere, con i suoi prodotti di massa, battere la concorrenza di tutte le altre case automobilistiche del mercato comune, in quanto è la più grande industria privata in questo campo.»

In definitiva concludeva l'analisi del PCI «Il coordinamento economico di cui si parla nel trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi produttori sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle sfere di influenza tra i grandi monopoli».

La preoccupazione del Partito era rivolta anche all'agricoltura dove si evidenziava il rischio del medesimo processo di concentrazione della proprietà a danno dei contadini salariati e dei piccoli contadini autonomi. Così come la libertà di circolazione delle persone era già messa in relazione al problema dell'immigrazione interna alla sfera comune, con le sue ripercussioni sui livelli salariali e sui diritti dei lavoratori. Riguardo alla situazione francese il problema delle colonie e la loro integrazione nel MEC erano giudicati uno strumento di pressione per compromettere il legittimo diritto all'autodeterminazione dei popoli coloniali.

Per queste ragioni il PCI nel 1957 votò contro l'approvazione dei trattati europei, ma la sinistra italiana che pure si richiama a vario titolo alla tradizione e alla storia del PCI non lo ricorda.

I comunisti – dice Berti – sono contro il MEC «perché sono contro il tentativo dei monopoli di asservire il progresso tecnico, l'automazione, l'energia atomica ai loro propri fini creando una comunità sovrannazionale sotto la loro direzione. È falso il quadro di un capitalismo ascendente e trionfante […] Sì, c'è oggi una congiuntura favorevole, ma per quanto tempo? Il capitalismo esce da due catastrofi di colossale grandezza: la perdita di potere su quasi la metà del globo, la perdita di vastissimi territori coloniali. Ecco perché alla base del MEC esistono obiettivi elementi di crisi: si cerca un mercato più vasto perché si sono perduti i territori dell'Europa orientale e i territori coloniali; ma appunto per questo ci si contenta in senso antisocialista e antidemocratico e si approfondisce la frattura nel mondo e si domanda alle masse lavoratrici di pagare le spese di questa operazione.»

Berti affronta il quadro spinoso del rapporto sovranità nazionale apertura internazionale in modo chiarissimo, e con una capacità d'analisi che oggi non si intravede minimamente nei dirigenti della sinistra radicale post-comunista e opportunista. Come si coniuga l'internazionalismo tradizionale del movimento comunista con la contrarietà al processo unitario tra i paesi europei? Un dilemma a cui ancora oggi in tanti non riescono a rispondere senza vedere contraddizioni, lì dove al contrario è lampante la soluzione al problema. I comunisti sono internazionalisti ma non per le unioni internazionali dei capitalisti. I comunisti sostengono la lotta comune in ogni paese del mondo, ma non per questo non comprendono quali processi si celino dietro l'integrazione europea. Oltre le illusioni e le favole, i comunisti guardano ai rapporti di produzione. E capita che il PCI venga accusato di essere "protezionista" da chi usa strumentalmente questo elemento per attaccare la posizione dei comunisti.

In aula Berti replica a queste accuse. «Non è vero che i comunisti pongano l'accento soltanto sui riflessi tariffari: è ridicolo sostenere che i comunisti sono "protezionisti". Il problema tariffario esiste ed è grave per l'industria e soprattutto per l'agricoltura del mezzogiorno e delle isole: ma il problema più grave è che cosa il ceto privilegiato sostituisce al protezionismo tariffario. Esso sostituisce l'accordo sovrannazionale dei monopoli all'interno del MEC per schiacciare le masse lavoratrici, la piccola economia contadina per rendere impossibile o più difficile uno sviluppo sociale democratico. Non ha perciò senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un'altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell'Europa occidentale il capitale monopolistico. Ci si dice che in questa battaglia noi siamo isolati. Ma noi siamo in larga e qualificata compagnia: i lavoratori italiani, i piccoli e medi produttori economici, hanno già compreso quali gravi danni apporterà il MEC a loro e al paese. Noi non cesseremo la nostra lotta alla testa del popolo italiano.»

Com'è noto la posizione del PCI mutò negli anni seguenti durante la segreteria Berlinguer e il progressivo distacco da Mosca. Allora il PCI abbracciò insieme al PCE e al PCF – quest'ultimo non senza contraddizioni e ripensamenti allora – la politica dell'eurocomunismo con un avvicinamento alla socialdemocrazia europea e in generale al processo di integrazione comunitaria.L'associazione ideale del movimento comunista con il percorso di unificazione europea parte da questo preciso momento storico, lo stesso del progressivo abbandono del marxismo-leninismo, del cedimento politico ed ideologico del PCI con cui il partito comunista si sarebbe incamminato verso il suo mutamento radicale avvenuto formalmente nel '91, ma nella sostanza già evidente da tempo. Non si tratta di una coincidenza temporale casuale. Nel momento in cui si allenta la tensione ideologica tra i partiti comunisti a livello internazionale, si incrementa l'idea della reciproca autonomia, delle vie nazionali al socialismo si perdono anche i riferimenti di analisi che avevano portato ad un giudizio tanto negativo sulla Comunità Europea nel 1957. Dunque non è all'origine della costituzione della CEE che i comunisti sposarono la causa dell'integrazione europea. Questo accadde solo nel momento in cui il Partito Comunista Italiano andava trasformandosi in un partito socialdemocratico.

In questo equivoco di fondo si inserisce anche la figura di Altiero Spinelli, padre nobile della sinistra europeista, e oggi invocato a gran voce a copertura di questa operazione. Tutti ricordano Altiero Spinelli eletto al Parlamento Europeo (come indipendente) nelle liste del PCI nel 1979, quando ormai il PCI aveva compiuto la sua parabola sulla CEE e sulla Nato. Pochi ricordano però che Spinelli negli anni della lotta del PCI contro l'integrazione europea era consulente di De Gasperi, e che fu membro della commissione europea con prevalente incarico alla politica industriale dal 1970 al 1976. L'ennesimo ed inequivocabile segno della consumata deriva del PCI in quegli anni, c'è da ricordare che Spinelli era stato espulso dal PCI durante gli anni della clandestinità per le sue posizioni marcatamente anticomuniste.

Dal momento dell'accettazione della CEE, della Nato e delle istituzioni internazionali del capitalismo occidentale da parte del PCI, nasce la visione europeista della sinistra italiana, non a caso quando di fatto si abbandona definitivamente la prospettiva comunista e si inizia a costruire un partito finalizzato al suo superamento, e al superamento del patrimonio ideale del marxismo. Gli esecutori materiali della fine del PCI saranno anche la generazione di nuovi dirigenti della sinistra italiana che contribuiranno a portare l'Italia nell'euro e a completare il processo di integrazione della nuova Unione Europea. Saranno la parte determinante della classe dirigente che ha portato l'Italia al disastro. La stessa sinistra radicale, nonostante qualche distinguo su questioni limitate, subirà negli anni e subisce tuttora il fascino dell'operazione europeista di cui, dimenticando completamente la storia, arriva addirittura a considerarsi artefice. Qui si consolida l'equivoco di fondo.

Il PCI in precedenza peccò di gravi errori sul piano strategico, anche in occasione del voto sulla CEE, che non provocò – come purtroppo spesso accadde negli anni della segreteria Togliatti – alcuna conseguenza sul piano della mobilitazione generale delle masse, restando uno scontro, per quanto alto e ineccepibile dal punto di vista dei contenuti, tipicamente parlamentare. Era la linea tattica, si diceva, del PCI di allora. Una linea che alla fine si rivelò per tutta la sua portata strategica nell'accettazione del Parlamento come unico, o almeno privilegiato, luogo di scontro (istituzionale) nel Paese. La linea del non dare pretesti, del dimostrare la "responsabilità" del PCI e che ha condotto a capitolare passo dopo passo. Ma se tali rimproveri possono oggi essere fatti con il senno di poi a quel grande partito che era allora il Partito Comunista Italiano, nulla si può obiettare sulla posizione politica che il PCI prese riguardo all'integrazione europea, che è cristallina, coerente e assolutamente attuale anche oggi, nonostante il modificarsi di molte situazioni storiche, e ci consente di fare dei paralleli molto importanti.

Fin da subito la nascente CEE cercò di utilizzare il contrasto tra condizioni e livelli salariali dei lavoratori per abbassare il costo del lavoro e ottenere una leva di ricatto contro le rivendicazioni operaie. Lo fece inizialmente con le colonie francesi, e durò pochi anni senza riuscire a dispiegare a pieno i suoi effetti perché nel 1962 l'Algeria ottenne la sua indipendenza. Paradosso della storia ha voluto che questa fase si riprendesse con forza proprio con la caduta del socialismo nell'est Europa, terreno naturale di espansione dell'imperialismo europeo.

La struttura economica dei paesi della "piccola Europa" ha subito importanti variazioni. In tutti questi paesi i monopoli hanno aumentato la loro influenza strategica nelle economie nazionali. L'Italia tra i paesi originari è quella che ha subito i mutamenti più grandi insieme con la Germania, che ha utilizzato l'annessione della DDR come strumento per lanciare ulteriormente il suo rafforzato potenziale economico, pagato a caro prezzo dai cittadini della vecchia DDR e dal resto d'Europa. Tuttavia la diversità iniziale, nonostante il dato generale della crescita dei monopoli nei singoli paesi ormai intrecciati in una comune ragnatela continentale, ha continuato a mantenersi nella forma dell'influenza esercitata nelle economie nazionali dal tessuto delle piccole e medie imprese. Un elemento come noto, particolarmente importante per l'Italia. Ciò che la politica di sovranità sulla moneta aveva evitato, non senza conseguenze sui lavoratori, è stato reso possibile con l'introduzione dell'euro. L'Europa dei monopoli, di quella che già il PCI nel 1957 giustamente definiva la "libertà per i monopolisti" ha avuto un ulteriore sviluppo privando gli stati della possibilità di intervenire sulla moneta. Il risultato è stato un'ulteriore crescita della concentrazione monopolistica a scapito della piccola impresa, una perdita di posizioni dei paesi con più elevato livello di piccole e medie imprese, che hanno risentito maggiormente del combinato dell'introduzione della moneta unica e dell'allargamento delle aree di libera circolazione (anche attraverso trattati con stati non aderenti alla UE in un'economia sempre più globalizzata). Le linee generali di quanto il PCI aveva giustamente previsto nel 1957 si sono realizzate, anche se con modalità storiche diverse e allora oggettivamente imprevedibili.

Il risultato è oggi un'Europa dei grandi monopoli nazionali e transnazionali che comprime i diritti dei lavoratori, che costringe al fallimento migliaia di piccole imprese e che concentra sempre in mani più ristretta la ricchezza prodotta, generando disoccupazione, precarietà, distruzione.

Anche la pretesa di pace che l'Unione Europea sostiene di realizzare e che in questi giorni ci viene propinata a reti unificate dagli spot europeisti del governo e della UE nasconde ben altro. Come disse giustamente Pajetta nel 1957 «Sbaglia profondamente chi pensa che un'economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell'avvenire», e aggiungiamo sebbene fosse già sottointeso, strumento di pace. L'Unione Europea ha dimostrato di essere pronta a scatenare e sostenere conflitti in nome degli interessi dei grandi monopoli che rappresenta. Lo ha fatto negli anni passati in Iraq, in Afghanistan, negli innumerevoli interventi di natura imperialistica sul continente africano, e oggi anche sul suolo europeo con il sostegno aperto garantito alle forze più reazionarie in Ucraina in nome della difesa di quegli interessi.

L'Unione Europea di oggi non è più la "piccola europa" del 1957. L'unificazione tedesca ha ricomposto una nazione economicamente in grado di esercitare una funzione di traino dell'area europea, che era oggettivamente ridotta al rango di protettorato USA quando sul suo odierno territorio correva il confine con il blocco comunista. E sebbene i rapporti con gli Stati Uniti siano centrali nella politica interna ed internazionale della UE, la situazione dal 1957 è fortemente mutata, per il peso che l'Unione Europea ha assunto nella competizione imperialistica globale. Pensare all'Unione Europea come strumento di pace è davvero utopia.

Il sogno di un'Unione Europea progressista e pacifica è un'illusione che non è mai appartenuta ai comunisti. Chi oggi cerca di dipingere l'antieuropeismo dei settori più coerenti del movimento comunista in Italia e a livello internazionale, come posizione estremistica, estranea alla nostra storia e tradizione politica, o peggio come cedimento alla destra e alle forze definite populiste, dimentica che i comunisti hanno compreso fin dall'origine la reale natura della UE. E fino a quando le loro posizioni sono state coerenti ideologicamente con il patrimonio teorico e di analisi del marxismo si sono opposti al processo di integrazione europea. La destra, che oggi si scopre paladina della sovranità nazionale, al contrario fu complice della creazione della CEE in funzione marcatamente anticomunista, sia a livello internazionale, per la sua opposizione all'URSS e al blocco comunista, sia interna, con il fine di arginare le possibilità di trasformazione della società in senso socialista.

Ma oggi una sinistra colpevole e complice dimentica tutto questo e consente alle forze neofasciste di rifarsi una verginità politica, attacca chi coerentemente mantiene una netta contrarietà all'Unione Europea dipingendolo come settario, eretico, o peggio ancora. Nel dare il proprio sostegno al processo di integrazione europea e nel costruire artificialmente il mito dei nobili ideali all'origine dell'Unione Europea, la sinistra radicale post o cripto comunista contribuisce a farsi portatrice dell'inganno storico che subiamo, di cui diviene parte attiva. Al servizio, oggi come ieri, dei padroni di questa Europa, dei grandi monopoli industriali e finanziari le cui regole sono divenute diritto comune a scapito dei lavoratori. Una enorme responsabilità storica.

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[1]«La Triplice Intesa fra Russia, Gran Bretagna e Francia, che Jaurès ha acclamato come una garanzia per la pace nel mondo.

«"Noi appoggiamo tutti gli sforzi", disse il compagno Ledebour nel suo discorso al Reichstag del 3 aprile, "che mirano a sbarazzarsi dei banali pretesti posti a giustificazione dell'incessante guerra degli armamenti. Noi esigiamo l'unione economica e politica degli stati europei. Io sono fermamente convinto che gli Stati Uniti d'Europa, non solo si realizzeranno sicuramente durante l'era del socialismo, ma potrebbero realizzarsi anche prima che giunga quel tempo, per far fronte alla concorrenza commerciale degli Stati Uniti d'America. In conclusione noi chiediamo che la società capitalista, che i capi di stato capitalisti, nell'interesse dello sviluppo capitalista dell'Europa stessa, al fine di evitare che l'Europa venga completamente sommersa della competizione mondiale, si preparino a questa unificazione dell'Europa negli Stati Uniti d'Europa."

E nella Neue Zeit del 28 aprile, il compagno Kautsky scrive: "… Per ottenere una pace duratura, che bandisca per sempre il fantasma della guerra, c'è solo una cosa oggi da fare: l'unione degli stati della civiltà europea in una federazione con una politica commerciale comune, un parlamento, un governo e un esercito confederali – ossia la formazione degli Stati Uniti d'Europa. Qualora si riuscisse in questa impresa, un grandioso passo potrebbe dirsi compiuto. Una simile federazione di stati possiederebbe una tale superiorità di forze che senza alcuna guerra potrebbe obbligare tutte le altre nazioni che non volessero associarsi volontariamente ad essa, a liquidare i loro eserciti e rinunciare alle loro flotte. Ma in quel caso la necessità di armamenti per i gli stessi nuovi stati uniti scomparirebbe. Essi sarebbero nella posizione di rinunciare a tutti gli ulteriori armamenti, di rinunciare ad un esercito permanente e a tutte le armi offensive sul mare, cosa che noi chiediamo già da oggi, ma anche di rinunciare a tutti gli strumenti di difesa e al sistema militare stesso. In questo modo una perpetua era di pace potrebbe sicuramente iniziare."» (riportato in Rosa Luxemburg "Utopie pacifiste", Leipziger Volkszeitung, maggio 1911).


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