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dall'autore
 
Perché essere comunisti oggi
 
di Domenico Moro
 
In Lenin la conoscenza della società era rivolta in ogni momento all’agire che proprio allora era socialmente necessario, perché la sua prassi era sempre la conseguenza necessaria della somma e del sistema delle vere conoscenze accumulate in quel momento. La sua vita è un agire continuo in cui non esiste situazione senza scampo, né per lui né per l’avversario. Perciò il suo metodo di vita è questo: essere sempre preparati all’azione, all’azione giusta.
György Lukács, Lenin
 
Il vero limite della produzione capitalistica  è proprio il capitale, cioè è che il capitale  e la sua autovalorizzazione si presentano come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e fine della produzione; che la produzione è soltanto la produzione per il capitale e non invece i mezzi di produzione sono semplici mezzi per il costante allargamento del processo vitale per la società dei produttori.
Karl Marx, Il Capitale, libro III
 
1. Specificità del comunismo moderno
 
Chiedersi perché essere comunisti dovrebbe essere naturale per un comunista, eppure è domanda che fa tremare i polsi e mette a disagio per varie ragioni. Tra queste sicuramente pesano come un macigno la caduta dell’Urss, e la storia del comunismo del 900, entrambe ancora non elaborate. Pesa, inoltre, la attuale situazione di difficoltà che, comprensibilmente ma ingiustificatamente, ci schiaccia sul livello della sopravvivenza immediata. Ma c’è anche un’altra importante ragione: definire “il perché” implica sempre definire “il che cosa” e c’è sempre stato un certo “pudore” a definire il comunismo in una scuola di pensiero il cui fondatore si è dichiarato, da subito, contro le definizioni utopistiche da “osteria dell’avvenire”. Eppure, niente sarebbe più sbagliato del pensare che Marx non abbia detto cose fondamentali al proposito e che soprattutto, oggi, sulla scorta di una secolare esperienza pratica, non sia necessario entrare nel merito, portando avanti la riflessione di Marx alla luce degli avvenimenti passati e presenti. Se è vero che non siamo comunisti perché abbiamo letto il Capitale, è altrettanto vero che, se lo siamo in un certo modo, cioè nel senso moderno del termine, è solo perché abbiamo letto il Capitale. E per letto non intendo che ciascun individuo che si riconosca nel movimento comunista lo debba aver letto effettivamente, bensì in una accezione più ampia, nel senso di farlo proprio.
 
La spinta profonda ed iniziale ad essere comunisti credo che provenga da una insofferenza, da un senso di profonda inaccettazione per quanto vediamo e sperimentiamo ogni giorno nella nostra vita e, per quanto riusciamo a vedere e sentire, nella vita dei nostri simili. E’ il rifiuto dell’ingiustizia e dell’ineguaglianza, che è tanto più forte in quanto questa ingiustizia e questa ineguaglianza le sentiamo essere ingiustificate, a muoverci. Eppure, molti (per fortuna!) sono coloro che, mossi da una simile intolleranza, operano o ritengono di operare contro l’oppressione, lo sfruttamento, e persino l’ineguaglianza senza per questo essere o dichiararsi comunisti. Seguaci di religioni e confessioni diverse, aderenti a partiti e movimenti filosofici variegati cercano di operare in tal senso.
 
Nessuno di questi, però, ha la nostra stessa idea di società futura o i nostri stessi metodi di analisi e di intervento sulla realtà o, soprattutto, ritiene che, per risolvere i problemi sociali, sia necessario trasformare la società alla sua radice, cioè a partire dai rapporti di produzione. In effetti, noi non siamo neppure i primi comunisti della storia né il comunismo è stato inventato da Marx. L’aspirazione a ristabilire la situazione di eguaglianza tra gli uomini esistente nello status quo ante il sorgere delle classi, è probabilmente vecchia quanto l’esistenza delle classi stesse. Comunisti erano i primi cristiani, prima che il cristianesimo diventasse instrumentum regni dell’impero romano in crisi. Comunisti erano i seguaci di Thomas Müntzer che nel XVI secolo guidavano le armate contadine contro i principi tedeschi al grido di “omnia sunt communia!”. Comunisti erano gli “uguali” capeggiati da Babeuf, la cui sconfitta chiuse la Rivoluzione francese, suggellando la definitiva affermazione del dominio politico della borghesia. E dal fallimento degli “uguali” scaturì per tutta l’Europa un fiorire di sette, anche grazie all’opera di quel grande pioniere italiano del comunismo che fu Filippo Buonarroti.
 
Il comunismo moderno, il nostro comunismo, pur figlio delle lotte degli sfruttati di ogni tempo e luogo, è qualcosa di altro e diverso. E’, come disse Marx al momento di costituire la Prima Internazionale, il superamento della fase delle sette e dei progetti utopistici del passato, generosi ma impotenti. Essere comunisti “moderni” è soprattutto la consapevolezza che oggi, per la prima volta nella storia, il comunismo è possibile. Perché oggi l’esistenza delle classi, derivata dallo sviluppo della divisione del lavoro e necessaria allo sviluppo della capacità produttiva del lavoro umano, non solo non è più necessaria, ma è anzi di ostacolo al libero ed ulteriore sviluppo delle forze produttive della società. In buona sostanza, nella fase storica caratterizzata dall’affermazione definitiva del capitale e dalla contraddizione lavoro salariato – capitale si sono create le condizioni per l’abolizione delle classi e quindi dello sfruttamento e dell’ineguaglianza. E’ in questo senso che Marx scrisse: “il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà deve conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente.”[1] Il “presupposto” è il movimento del capitale stesso. Essere comunisti implica, quindi, una specifica concezione del mondo, un determinato metodo di analisi della Storia e della Società e una certa prassi di lotta.
 
2. Il comunismo è necessario e possibile
 
Il comunismo è possibile perché è necessario. Il capitalismo produce insieme il massimo di razionalità ed il massimo di irrazionalità, il massimo di ricchezza ed il massimo di povertà, il massimo delle possibilità di sviluppo dell’individuo ed il massimo della frustrazione e dell’oppressione individuale. In nessuna altra società del passato la scienza ha avuto un così grande ruolo e soprattutto un così grande influsso sulla produzione, attraverso la tecnologia. Ma la scienza non permea veramente né la comprensione della vita, né la gestione complessiva della società. Eppure il modo di produzione capitalistico si presenta come razionale. Quanto più l’azienda è grande tanto più è governata da un piano razionale in base al quale viene stabilita la suddivisione del lavoro. L’obiettivo di tale pianificazione è ridurre il tempo di lavoro necessario alla produzione della merce. Per ottenere questo risultato la forza produttiva del lavoro viene incrementata e vengono introdotte le macchine.
 
Ma la riduzione del tempo di lavoro necessario e l’introduzione di macchine e tecnologie sempre più avanzate non si traduce in maggiore ricchezza e minore fatica per tutti. Il principio del movimento del capitale, infatti, non è la soddisfazione dei bisogni umani ma la massimizzazione dei profitti, l’accumulazione fine a se stessa, attraverso l’aumento dello sfruttamento del lavoratore, mentre la riduzione del tempo di lavoro necessario è finalizzata alla competizione tra i capitali. Così alla razionalità della divisione del lavoro nelle singole unità di capitale corrisponde l’irrazionalità anarchica della divisione generale del lavoro nella concorrenza che caratterizza il sistema economico complessivo. E il sogno di una umanità libera dalla fatica e dal bisogno si traduce in un incubo per la maggior parte della popolazione: sovrapproduzione di mezzi di produzione, di merci, di lavoratori, orari di lavoro che si allungano, intensità del lavoro che aumenta. Si arriva infine al paradosso estremo: quanto maggiore è la ricchezza accumulata tanto più grande è la povertà prodotta. E si assiste alla crescita della povertà in mezzo all’abbondanza. Anzi, il fenomeno dei “poveri che lavorano” non è un effetto imprevisto e accidentale dell’economia del capitale, ma ne è ragione d’esistenza, obbligo ai bassi salari e causa di alti profitti. Fatti questi di cui abbiamo testimonianza proprio nel paese più ricco e potente del mondo, gli Usa, dove, accanto ad una immane ricchezza, si allungano le file dei senza casa e cresce una umanità lavoratrice senza diritto alla salute, ad una vecchiaia dignitosa, ad una infanzia educata e protetta.
 
Il lavoratore, però, col capitale non perde solo il controllo sulla ricchezza prodotta, ma anche sulla sua stessa attività lavorativa, sempre più parcellizzata, ripetitiva, esecutiva, mentre la razionalità della pianificazione aziendale si manifesta come costrizione, dispotismo sui lavoratori. Non sono gli uomini, i produttori, a dominare le forze produttive, controllandole e dirigendole, ma sono le forze produttive a dominarli, come se, anziché il prodotto dell’attività umana, fossero forze naturali che incombono, minacciando di scatenarsi con tutta la loro furia cieca sulla società. Come avviene in tutta la sua devastante evidenza proprio nel corso delle crisi che immancabilmente e periodicamente scuotono la società del capitale ed il cui superamento è possibile, entro i rapporti di produzione dominanti, solo attraverso immani distruzioni di ricchezza, che ristabiliscono le condizioni per la ripresa del processo d’accumulazione. La distruzione di ricchezza diventa così necessità, allo scopo di produrre altra e sempre più grande ricchezza. Una logica irrazionale anima il capitale, la quale raggiunge il suo apice nella guerra, fenomeno sorto con la civiltà e le classi, ma che con il capitalismo assume una necessarietà e una violenza mai viste e crescenti. E’ in antitesi alla natura caotica, irrazionale, anarchica e indipendente dal controllo dei produttori che il comunismo è “dicibile”.
 
Il comunismo si sostanzia proprio come razionalità, pianificazione e controllo delle forze produttive. Ma non si tratta dell’applicazione di una razionalità meccanica, deterministica alla realtà da parte di una intelligenza o di una elìte superiori. Il comunismo è, per Marx, la riconduzione delle forze produttive della società sotto il controllo dei produttori liberamente associati, secondo un piano razionale[2]. Quindi, il comunismo non è soltanto (neanche nella sua fase iniziale, quella socialista) proprietà collettiva (e tantomeno soltanto statale) dei mezzi di produzione, come invece si è troppo spesso sottolineato e praticato nelle esperienze del socialismo realizzato. E’, soprattutto, gestione collettiva delle forze di produzione della società. E questo significa non solo il controllo della distribuzione dei risultati del lavoro, cioè del plus-prodotto, ma anche la ricomposizione della scissione tra lavoro intellettuale e manuale, cioè tra direzione ed esecuzione. 
 
La questione centrale, dunque, è quella del come si esercita tale controllo. Ed il come riguarda il rapporto tra la classe lavoratrice e lo Stato, ovvero la trasformazione dello Stato da entità separata e contrapposta alla maggioranza della società civile, i lavoratori salariati, in un organismo sempre più partecipato dalle masse e quindi sempre meno “Stato”. E’ in questo senso che Marx e Lenin parlano di “abolizione” dello Stato. Il comunismo è, dunque, l’unica vera democrazia possibile, basata sulla libera associazione tra gli individui produttori ed orientata alla liberazione delle loro potenzialità ed inclinazioni. E’ il contrasto stridente tra quanto è in potenza e la realtà effettiva della società attuale a fornire le basi materiali, il presupposto del comunismo. Mentre nelle società e nei modi di produzione precedenti la povertà e il dominio di classe apparivano “inevitabili”, oggi lo sviluppo delle forze produttive consentirebbe la soddisfazione dei bisogni dell’umanità, rendendo inutile e perciò ancora più intollerabile l’oppressione di classe.
 
Ma, “lo sviluppo delle forze produttive che rappresenta la missione storica e la ragion d’essere del capitale”[3] trova un limite nel capitale stesso e “questo specifico limite testimonia del carattere ristretto, meramente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico; attesta che esso [il capitale] non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato ad un certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo”[4]. Lo sviluppo delle forze produttive, insieme alla organizzazione razionale della produzione complessiva, che permetterebbe di impiegare tutte le forze di lavoro e di evitare gli sprechi, renderebbero possibile ridurre l’orario di lavoro per tutti. E in questo modo si libererebbe tempo vitale sia per la partecipazione alla direzione della vita economica e sociale, che nella società attuale viene monopolizzata dal ceto politico legato alla classe dirigente nell’economia, sia per il libero e multilaterale sviluppo di ogni individuo. A questo proposito, va notato che il capitale, estendendo il modello organizzativo della grande industria a tutti i settori dell’economia, distrugge la vecchia divisione del lavoro con le sue specializzazioni fossilizzate. Se questo, da una parte “impone la necessità di riconoscere il cambiamento dei lavori e la più grande versatilità dell’operaio quale legge sociale della produzione”, dall’altra “impone la necessità di rimpiazzare l’individuo parziale, semplice esecutore di una funzione di dettaglio, con l’individuo integralmente sviluppato, per il quale differenti funzioni sociali sono modi che si scambiano liberamente.”[5]
 
Sulla base della grande industria si crea anche il presupposto alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, attraverso il processo di centralizzazione dei capitali, sollecitato dalla concorrenza, che porta “all’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi”, fino alla realizzazione dei monopoli. Infatti, osserva Marx: “l’accentramento e la socializzazione del lavoro arrivano ad un punto in cui entrano in contraddizione col loro rivestimento capitalistico. Ed esso viene infranto. Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati.” Ed è così che si determina la possibilità “della trasformazione della proprietà capitalistica, che già si basa in pratica sull’andamento sociale della produzione, in proprietà sociale.”[6] Ma l’elemento che Marx pone alla base della possibilità del comunismo è soprattutto la realizzazione del mercato mondiale.
 
Il comunismo è possibile solo se è universale e ciò richiede relazioni “empiriche” universali, possibili solo sulla base del mercato mondiale. “Altrimenti”, avverte Marx già nell’Ideologia tedesca “1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute realizzare come potenze universali…3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale”.[7] Parole queste che forse possono dire qualcosa sulla fine dell’esperienza del comunismo novecentesco, coincidente con la ricostituzione del mercato mondiale e sulla fase storica che si sta aprendo. Del resto, lo stesso Lenin intendeva la Rivoluzione russa solo come primo passo di una rivoluzione che sarebbe dovuta essere almeno europea.
 
3. Il comunismo è pensare e praticare il futuro
 
Essere comunisti oggi vuol dire riconoscere la necessità e la possibilità del comunismo in quanto detto fino ad ora. Vuol dire rintracciare le basi del comunismo nella società odierna, nella quale, se da una parte il capitale si contrappone ai lavoratori come potenza sempre più grande ed ostile, dall’altra crea, molto più che nel passato, i necessari presupposti per la sua trasformazione in una forma sociale superiore. La progressiva concentrazione monopolistica dei capitali, l’aumento delle differenze sociali, la finanziarizzazione dell’economia, la crisi generale di sovrapproduzione e soprattutto la creazione del mercato mondiale sono, in questo senso, elementi determinanti della possibilità del comunismo. Certo nessuno può parlare di “immediata” attuabilità del comunismo. Numerose sono le “mediazioni” che questo richiede. Ma, cerchiamo di intenderci, sarebbe un errore relegare la necessità del comunismo in una lontana prospettiva da raggiungere chissà quando. Intenderla come una specie di faro che brilla alla fine di un percorso chissà quanto lungo.
 
La questione del comunismo non può che informare di sé l’azione odierna dei comunisti, perché già oggi le contraddizioni del capitale vengono impietosamente allo scoperto e pongono delle domande cui si può rispondere solo andando alla radice, ai rapporti di produzione. Appare chiaro cioè che il mercato ed il privato non sono più in grado di sostenere i compiti posti dallo sviluppo delle forze produttive in questa fase di nuova mondializzazione dei mercati e di riproposizione della crisi generale. L’involucro costituito dai rapporti privati di proprietà viene lacerato in più parti e lo Stato è di nuovo invocato, dagli stessi capitalisti, a sostegno dell’economia. In tale situazione si rivela tutta la fragilità di un sistema che si pretendeva, fino a ieri, come eterno.
 
Si ripresenta così non solo la possibilità di proporre di nuovo il superamento del capitalismo, ma si riacquista anche la legittimità a parlare di regolazione, di pianificazione razionale dell’economia, di proprietà pubblica dei mezzi di produzione. Elementi questi non da interpretare come “programma massimo” o da tenere come prospettiva per il futuro, ma da far vivere, anche parzialmente, nelle lotte e nelle proposte della vita politica di ogni giorno. E’ fondamentale chiarire questo concetto in un momento, seguente alla sconfitta del tentativo iniziato con l’Ottobre, in cui i mass media insistono nell’ossessiva damnatio memoriae di quel tentativo e di tutti coloro che vi si sono richiamati nel XX secolo. Del resto, non è casuale tale perseveranza da parte del capitale, conscio della spada di Damocle che continua a pendergli sul capo. La rottura che l’Ottobre operò nel dominio mondiale del capitale, realizzatosi con la “prima globalizzazione” all’inizio del 900, è riuscita, pur con tutti i suoi limiti, a rappresentare per molti decenni un punto di riferimento alternativo reale e perciò pericoloso.
 
Oggi l’integrazione del mercato mondiale e le contraddizioni del capitale si ripresentano, ed in una modalità tanto più grande che una eventuale rottura in qualche punto provocherebbe reazioni molto più estese e profonde. Ma nessuna trasformazione sociale può avvenire in modo deterministico, cioè come portato spontaneo delle contraddizioni del capitale. Essere comunisti oggi vuol dire, per questo, comprendere la necessità dell’elemento soggettivo e della volontà cosciente. Non basta essere coscienti della realtà del capitale. Solo se tale coscienza si organizza e conquista le masse diventa una forza materiale che può trasformare la realtà. E condizione necessaria per arrivare a questo sono il partito e la lotta politica. A pensare tutto questo ci si sente piccoli e inadeguati, specie se si guarda al nostro stato attuale, me ne rendo conto. Ma la forza di un movimento di trasformazione sta nella capacità di elevarsi dall’immediato, senza perdere il contatto con la realtà, per immaginare il futuro.
 
Se la fantasia è sogno staccato dalla realtà, l’immaginazione è capacità di pensare una realtà diversa, a partire dalla realtà stessa, e dunque capacità di agire in modo alternativo. Ed è di immaginazione e coraggio che abbiamo bisogno, il coraggio di mantenere posizioni “estreme”, non estremiste, perché in una situazione in cui i margini di mediazione si riducono e la lotta di classe viene inasprita dal capitale solo in questo modo si può assolvere al compito principale dei comunisti: indicare la direzione. Essere comunisti, dunque, vuol dire avere coraggio, il coraggio di pensare e praticare il futuro.
 
Domenico Moro
 

[1] Marx - Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 25.
[2] “La figura del processo vitale sociale, ossia del processo materiale di produzione, getta via il suo mistico mantello di nebbie solo quando sta, come prodotti di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo consapevole e attuato secondo un programma.” K. Marx, Il Capitale, Newton Compton, Roma 1996, p.82.   
[3] Ibidem, p. 1091.
[4] Ibidem, p.1077.
[5] Ibidem, p.358.
[6] Ibidem, p. 548.
[7] Marx - Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1979, p.25.