www.resistenze.org - pensiero resistente - unità dei comunisti - 04-03-07
da: www.gramscioggi.org
Chi sono i comunisti
Vladimiro Merlin
Coordinatore cittadino PRC Milano - Capo Gruppo Consiglio Comunale di Milano
I compagni ed i lettori mi perdoneranno se “rubo” questo titolo che fu di un bellissimo libro edito da Mazzotta negli anni 70’ e che raccoglieva una serie di scritti di Pietro Secchia, che non a caso non aveva il punto di domanda finale perché non ricercava una astratta definizione o la purezza di una identità, ma semplicemente spiegava (mostrava) cosa concretamente erano stati (ed erano) i comunisti. E questa, credo, deve essere la strada che dobbiamo seguire nel dibattito che si è aperto con alcuni articoli su questa rivista, ma che ci viene posto anche dalle trasformazioni e dai processi che sono in atto nella sinistra e tra i partiti che ancora oggi si dicono comunisti in Italia. Gli interrogativi posti in queste riflessioni a volte apertamente formulati altre semplicemente allusi nel contesto delle argomentazioni sono fondamentalmente questi: Ha ancora un senso definirsi comunisti nel 2007? Indica solo un legame con il passato o individua una prospettiva per il futuro?
Ci sono ancora uno spazio ed una ragione politica e sociale per una autonoma forza comunista oppure i comunisti sono destinati a diventare semplicemente una corrente politico/culturale tra varie altre all’interno di nuovi soggetti più o meno genericamente e ampiamente di sinistra? Per affrontare questo punto bisogna, a mio parere, tornare all’origine della questione, a quello che ha motivato l’esistenza dei comunisti, la questione della necessità della trasformazione sociale, del socialismo, cioè il fatto che la società capitalista è fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il suo rapporto di produzione fondamentale: la vendita del lavoro come merce ed il ricavo di plusvalore da parte del capitale dallo sfruttamento del lavoro. Questo è il significato della centralità della contraddizione capitale lavoro, il fatto che solo abolendo tale sfruttamento, eliminando quel rapporto di produzione si potrà costruire una società realmente diversa, non il numero degli operai sul totale dei lavoratori o il tipo di contratto di lavoro (precario o a tempo indeterminato). Ora la prima domanda che voglio porre è: questo sfruttamento è ancora il segno della società in cui viviamo oppure no?
Se la risposta è si allora si conferma la necessità dell’esistenza di un partito comunista, dato che non vedo altre soggettività politiche che si pongano in quella prospettiva. Quanto appena detto sulla natura fondamentale del rapporto di produzione capitalistico non significa che non vi siano stati cambiamenti nella forma (giuridica ma non solo) dei rapporti di lavoro. In particolare la grande estensione di lavoro precario che ha caratterizzato questi ultimi anni modifica, senza dubbio, il grado di sfruttamento e deteriora profondamente la qualità della vita in particolare dei giovani lavoratori ed è la cartina di tornasole che registra il cambiamento dei rapporti di forza, consolidatosi negli ultimi decenni, tra le classi sociali, in favore del capitale, ma, come ho già detto, non modifica la natura del rapporto di produzione che caratterizza la società in cui viviamo.
E qui veniamo alla seconda questione che vorrei porre nella nostra discussione: in Italia e nel mondo, in questi ultimi decenni, sono esistite altre forze o correnti politiche, oltre ai comunisti, che si sono poste il problema della trasformazione sociale con l’obiettivo di eliminare lo sfruttamento del lavoro? Per quanto mi guardi attorno trovo varie forze e correnti di pensiero di sinistra che hanno programmi e prospettive senza dubbio progressiste, ma immancabilmente tutte si fermano sulla soglia della questione di fondo, che unica, in definitiva, determina lo spartiacque tra il “miglioramento” della società capitalista (quanto realmente possibile e duraturo?) e l’apertura di un processo (il socialismo) che apre la strada ad un superamento del capitalismo verso una società diversa. E’ chiaro che con tutte queste forze, nei vari modi e nelle varie forme possibili, si devono costruire ovunque alleanze e coalizioni, ma qui non stiamo ragionando della politica delle alleanze, qui stiamo ragionando della soggettività politica della trasformazione. Stiamo ragionando della necessità dell’autonomia della soggettività comunista. Arrivo qui ad una terza questione che vorrei porre: la scelta da parte dei comunisti di stare all’interno di soggetti politici più genericamente di sinistra (socialdemocratici, laburisti o progressisti) nella storia recente o passata ha mai portato ad un esito positivo? E’ mai riuscita a determinare le condizioni per cambiare in senso comunista il soggetto in cui si operava, oppure ad indurre una linea politica che effettivamente ponesse tale soggetto sul terreno del cambiamento sociale?
L’esperienza concreta, per fare solo alcuni esempi dall’entrismo praticato in molti casi da forze comuniste di matrice trotskista, a varie esperienze più recenti come Izquierda Unida o la stessa Linke tedesca, ci dicono che immancabilmente il risultato di queste scelte è stato la marginalizzazione del ruolo dei comunisti, l’annullamento, di fatto della loro autonomia, nel senso della possibilità/capacità di crescere nel radicamento sociale e di conquistarsi la forza per costituirsi in soggettività politica autonoma. Questo tipo di scelta in nessuno di questi, ed altri casi, è mai stata la premessa per una accumulazione di forze che, in tempi migliori, abbia portato a determinare la ricostruzione di un soggetto autonomo dei comunisti, al contrario ha consolidato sempre di più la loro marginalità, consentendo, nel migliore dei casi, solamente una sopravvivenza come corrente politico/culturale dentro questi soggetti di sinistra, un po’ come in una riserva indiana, magari con momenti più o meno positivi, ma sempre al livello della sopravvivenza (testimonianza) mai con la capacità/possibilità di diventare determinanti o di riconquistare le condizioni di una propria autonomia.
In molti casi, inoltre, questo tipo di esperienze si sono collocate in contesti in cui si sono andati affermando e consolidando sistemi politici fondati sull’alternanza di due partiti o schieramenti, entrambi interni al sistema capitalistico, e questo fattore, unito al precedente, ha finito per consolidare la marginalizzazione dei comunisti. E’ questo un punto importante di riflessione perché entrambi questi fattori sono oggi in campo in Italia, Da un lato vi è il tentativo di consolidare un sistema bipolare, attraverso la legge elettorale maggioritaria e la spinta alla costituzione di due grandi partiti, il partito unico della destra ed il partito democratico, affermando nel nostro paese un sistema politico di tipo anglosassone/americano.
Dall’altro vi è la tendenza al superamento della presenza autonoma dei comunisti, all’interno di soggettività eclettiche e genericamente di sinistra. Questi due processi non sono in contrasto o in alternativa tra di loro, al contrario, sono collegati e complementari, e tendono ad alimentarsi reciprocamente, in quanto nella dinamica di un sistema di alternanza, nel polo progressista servono sia un centro (il PD) che una sinistra, entrambi reciprocamente legittimantesi, nel rispettivo ruolo, purché collocati all’interno di uno dei due poli dell’alternanza. E’ un caso che da qualche tempo nel PRC, da parte della maggioranza (ed è ribadito nel documento per la conferenza nazionale di organizzazione) si sia cominciato a dire che il PRC si colloca oggi nell’alternanza per costruire le basi (come?) per una futura alternativa?
Io penso di no! E penso che anche che questa dinamica in atto nel PRC ci faccia chiaramente capire (per chi lo vuole vedere) la direzione di marcia ed il senso ultimo della costituzione della Sinistra Europea sezione italiana. In sostanza risultano poco credibili le affermazioni secondo cui la scelta di annegare le soggettività comuniste dentro contenitori più “ampi” e genericamente di sinistra consentano da un lato di salvaguardare l’autonomia delle forze comuniste e dall’altro di aumentare le forze, peraltro tutte le esperienze di questo tipo dopo una iniziale fase positiva hanno dimostrato (e non vale solo per i comunisti e la sinistra) che la sommatoria di più entità differenti non produce mai la somma delle forze ma produce invece un saldo negativo. La ragione vera che spinge verso questi processi è un’altra è la convinzione, quasi mai espressa apertamente, che non sia più attuale oggi un partito autonomo dei comunisti e che sia meglio una soggettività di sinistra, che lasci cadere l’identità e la cultura, il pensiero e l’esperienza dei comunisti, per fondarsi su altri pensieri e culture che sono poi quella di matrice socialdemocratica con venature più o meno radicali, che si sono però dimostrate storicamente (ed anche attualmente) incapaci (per limiti o volontà) di superare i limiti fondamentali del sistema sociale capitalistico.