www.resistenze.org - pensiero resistente - unità dei comunisti - 22-07-08 - n. 237

La Sinistra Arcobaleno e’ morta. Viva il partito comunista
 
di Leonardo Masella
 
Editoriale Ultimo numero de L'ernesto
 
Che la storia non proceda sempre linearmente ma a volte a salti, anche imprevedibili, torna a ricordarcelo il risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile. Di colpo l’intera sinistra italiana (150 parlamentari) viene spazzata via dal parlamento. Contemporaneamente la destra, anche quella fascista e leghista, stravince al sud e al nord. Questo risultato è un evento che verrà ricordato come uno spartiacque nella storia d’Italia. Si chiude definitivamente il ciclo storico della Prima Repubblica nata dalla Resistenza e si esaurisce contemporaneamente il ciclo politico avviato da Rifondazione Comunista dopo la fine del Pci. Nulla è come prima.
 
Il risultato della Sinistra Arcobaleno al 3%, addirittura sotto la soglia per la presenza in parlamento, era assolutamente imprevedibile, ben al di sotto delle più nere previsioni. Ha sorpreso anche noi, che pure avevamo previsto da tempo e più volte denunciato, assolutamente controcorrente, il rischio di una pesante sconfitta, il che impone anche a noi una riflessione più profonda e strategica sul malessere sociale e culturale delle nostre società. Una riflessione che andrà fatta con calma e serietà, con l’aiuto dell’inchiesta sociale, come ci ha insegnato Marx. Tuttavia, due cose ci appaiono da subito certe. Primo, che diversamente da tutte le sciocchezze, che avevano altre finalità, sullo spostamento a sinistra della nostra società prodotto dalla spinta dei movimenti, il nostro Paese non è affatto orientato culturalmente a sinistra. Secondo, che è bene prendere atto definitivamente che l’elettorato italiano non è più “politicizzato” e “ideologizzato” come era negli anni ’50 e ’70, ed è bene non vivere di “nostalgia” per quegli anni, altrimenti si commettono errori di valutazione e di previsione esiziali. Oggi, in una società come la nostra, lo “zoccolo duro” che vota a sinistra e comunista e non voterebbe mai a destra o altrove si è ridotto drasticamente e va riducendosi sempre di più. Il malessere sociale, in crescita vertiginosa, può oscillare molto più facilmente di prima dall’estrema sinistra all’estrema destra e viceversa.
 
Perché il disastro elettorale?
 
La mia tesi è che l’esito complessivo delle elezioni politiche del 13 e 14 aprile – non solo quindi la disfatta della sinistra ma anche la vittoria della destra e delle sue parti più radicali (Lega e An), con le gravissime conseguenze politiche e sociali che vediamo già dai primi giorni dopo le elezioni (1) – abbia la sua causa principale nell’ingresso di Rifondazione Comunista, per la prima volta nella sua storia, nel governo, come fu sciaguratamente deciso al Congresso di Venezia del Prc. Con quell’ingresso e con la permanenza del Prc nel governo, tutta la sinistra è stata vista come corresponsabile dei provvedimenti impopolari del governo che hanno tradito le promesse. Rifondazione Comunista è stata percepita non solo come inutile ma come la più incoerente fra tutti. Le masse guardano i simboli e il simbolo di questo tradimento è stato Bertinotti sullo scranno di presidente della Camera mentre contemporaneamente il governo calpestava tutte, ma proprio tutte le istanze portate avanti nell’intera sua storia da Rifondazione Comunista (dai diritti dei lavoratori al movimento per la pace, da Genova 2001 alle battaglie antisecuritarie ed antirazziste, dalla lotta contro la Tav alla laicità). E’ evidente che la delusione popolare, giovanile, femminile, intellettuale, che è cresciuta vertiginosamente in questi due anni diventando via via persino disgusto per la politica e a volte ripulsa per le stesse forme della democrazia liberale, è andata in tutte le direzioni: nell’astensione, nel voto alla Lega e ad An, nel “voto utile” al Pd. Se il centro-sinistra avesse fatto una politica deludente ma almeno a sinistra vi fosse stato un punto di riferimento coerente, all’opposizione, come era avvenuto per il precedente governo di centro-sinistra Prodi-D’Alema-Amato, una parte del malessere sociale non sarebbe andato ad alimentare la destra, ma sarebbe rimasto a sinistra, come avvenne, infatti, alla fine degli anni ’90, quando il Prc perse sì consensi per aver fatto cadere Prodi ma non venne spazzato via.
 
Perché il Prc è entrato al governo?
 
Dunque, l’ingresso al governo del Prc non ha causato solo la debacle della sinistra ma anche la vittoria della destra, anche di quella più estrema. Questa è la verità che emerge da tutti i dati dei flussi elettorali. Queste sono le pesantissime responsabilità del gruppo dirigente del Prc, responsabilità che si aggravano se si dimostra che l’ingresso al governo non si è trattato di un errore di valutazione, ma di un progetto che aveva altre finalità rispetto a quelle dichiarate.
 
Infatti, oggi tutti fanno autocritica sul governo Prodi. Il primo è stato lo stesso Fausto Bertinotti, che ha anticipato tutti i suoi fedeli ma poco coraggiosi seguaci già mesi prima della fine del governo, affermando che la realtà dei fatti aveva smentito la tesi della permeabilità del governo ai movimenti. Altri, come l’ex-ministro Ferrero, ci sono arrivati solo dopo la sconfitta, sostenendo che non c’erano i rapporti di forza nella società. Sembrano autocritiche “forti”, tuttavia non lo sono. Perché non dicono la verità. Che non ci fossero i rapporti di forza per un cambiamento della società in un paese cardine della Ue e della Nato come l’Italia, qualunque dirigente nazionale del Prc lo sapeva benissimo. Sarebbe un offesa alla loro intelligenza pensare davvero che non si fossero accorti che la società italiana non era orientata a sinistra e men che meno era tale da spostare a sinistra il centro-sinistra. Il Congresso di Venezia non fu un “errore”. L’ingresso al governo aveva un altro obiettivo: cambiare radicalmente non la società ma la natura al partito, spegnendo l’antagonismo tradizionale del Prc al capitalismo per portarlo all’avvicinamento e poi alla fusione con quelle componenti di sinistra, socialdemocratiche e ingraiane dei Ds (da Folena, a Tortorella, a Mussi, a Occhetto) con le quali il Prc aveva rotto dopo lo scioglimento del Pci. Questa è stata la lunga marcia di Fausto Bertinotti nel Prc dal 1993, quando ruppe con Ingrao per entrare nel Prc, nominato segretario direttamente da Cossutta: riportare il Prc, o la sua maggioranza, nell’alveo della Bolognina di sinistra, secondo l’ispirazione originaria occhettiana di una fuoriuscita “da sinistra” dal comunismo. Il rifiuto di uscire dal governo anche di fronte a provvedimenti inaccettabili non si spiega se non con il rifiuto di rompere quel progetto nostalgico, che infatti ora è perseguito ancora, costi ciò che costi, dall’area di Vendola e aiutato, non a caso, da Massimo D’Alema.
 
E’ finito il bertinottismo?
 
Tuttavia ora questo progetto bertinottiano è fallito. Significa che è finito ? No, i suoi colpi di coda sono ancora pericolosi e, se non previsti e combattuti adeguatamente, possono far fallire anche la possibilità di rinascita di una forza comunista con un consenso di massa in Italia. Che vi siano questi rischi è evidente dalla dinamica congressuale del Prc. Come mai, nonostante la chiarissima volontà di Bertinotti di liquidare il Prc e di ridurre il comunismo ad una “tendenza culturale”, la risposta nel Prc è così debole ? Come mai persino di fronte ad una sconfitta così rovinosa, chi si dichiara contrario alla tesi di Bertinotti – Ferrero, Grassi e Mantovani – rifiuta di fare una mozione congressuale con l’Ernesto e gli altri comunisti disponibili, una mozione realmente alternativa alla liquidazione bertinottiana? Le ragioni non solo tattiche ma anche di cultura politica sono sotto gli occhi di tutti. E’ l’intero gruppo dirigente di Venezia che ha gestito non solo la fase finale, la partecipazione al governo e la Sinistra Arcobaleno, ma tutto il lungo percorso di innovazioni moderate e socialdemocratiche (dall’abbandono della centralità della contraddizione capitale-lavoro al superamento della nozione di imperialismo, dalla ideologia borghese-pannelliana della non-violenza in ogni tempo e in ogni luogo alla costruzione della Sinistra europea che ha diviso e discriminato i comunisti ed ha anticipato il superamento del Prc). Innovazioni che sono servite a Bertinotti e al gruppo dirigente a fingere una svolta a sinistra, con l’internità ai movimenti, ad utilizzarli senza scrupoli quando gli ha fatto comodo, per scaricarli al momento giusto e fare la vera svolta, a destra, che è stata quella di legittimarsi al governo, come forza buona, “democratica”, non più antagonista e pericolosa per il potere del capitale e per la Nato, impegnata nella guerra imperialista permanente contro i popoli del mondo con il coinvolgimento pieno dell’Italia.
 
Così come tutti i principali dirigenti del Prc sapevano benissimo, prima di entrare al governo, che non vi erano affatto le condizioni, i rapporti di forza per cambiare la società, nella stessa misura anche oggi tutti i dirigenti sanno benissimo che dopo la debacle storica del 13 e 14 aprile l’esperienza di Rifondazione Comunista è finita, eppure continuano ad affermare di voler “salvare” Rifondazione. E’ l’ennesimo inganno, per tattica congressuale, per conquistare a questo o a quel gruppo ciò che resta dei militanti e soprattutto del patrimonio economico e immobiliare, di notevole entità dopo anni di consistente finanziamento pubblico. E’ il segno anche questo, assieme ad un congresso combattuto a colpi di tesseramento democristiano, del processo degenerativo e disgregativo in stadio avanzato in corso nel Prc.
 
Rifondazione Comunista sta affondando
 
Del resto, come può essere finita la Sinistra Arcobaleno e non essere finita Rifondazione Comunista che ne è stata la principale artefice? Chi ha voluto a tutti i costi la Sinistra Arcobaleno? Chi era il leader della Sinistra Arcobaleno? Fausto Bertinotti. Visto dalle masse, ancora oggi, come il leader di Rifondazione Comunista. Non esiste Rifondazione Comunista senza Fausto Bertinotti. Purtroppo è così, perché così Bertinotti l’ha voluta costruire e perché così tutto l’entourage, Ferrero e Mantovani compresi, gli ha permesso di fare. Rifondazione Comunista è completamente “bruciata”, non solo da due anni di partecipazione fallimentare al governo ma ora anche dalla sconfitta disastrosa. Se Rifondazione Comunista si presentasse da sola alle prossime elezioni amministrative ed europee prenderebbe meno del 3% e forse meno del Pdci, come è già avvenuto in numerosi casi, di proposito nascosti dal gruppo dirigente, già alle precedenti amministrative degli ultimi anni (2). E’ come se la casa fosse stata bombardata e distrutta e la stanza dove c’è Rifondazione fosse la stanza centrale su cui è caduta la bomba. La stanza più vicina al Prc è quella di Sinistra Democratica, poi un po’ più in là c’erano i Verdi, nella più lontana c’era il Pdci (3).
 
Allora perché ancora c’è una parte del gruppo dirigente del Prc che non vuole dire con chiarezza come stanno le cose? Vi sono due ragioni, una ragione di tipo tattico, come già detto, per conquistare qualche voto in più nel congresso. Ma ce n’è un’altra di tipo strategico. Per impedire o ostacolare il processo di ricostruzione unitaria di un partito comunista: utilizzare la propaganda del “salvare Rifondazione Comunista” contro la ricostruzione di una forza comunista. Perché una cosa è proporre di “salvare” Rifondazione Comunista dalla liquidazione di una forza comunista in Italia, tutt’alta cosa, anzi il suo opposto, è proporsi di “salvare” Rifondazione dalla ricostruzione di una forza comunista con chi è disponibile. E’ accettabile ed è anzi molto importante contribuire a salvare Rifondazione Comunista, ciò che resta del suo patrimonio di militanza, di culture antagoniste, di capacità di costruire lotte e movimenti, della sua positiva ispirazione originaria di fondere storie e provenienze diverse, solo se ciò avviene su di una svolta politica a sinistra, in direzione di un processo di avvicinamento e di unità con le altre forze comuniste e anticapitaliste, a partire da quelle disponibili, con l’obbiettivo di ricostruire un partito comunista, di nome e di fatto, con consenso di massa. Anche perché l’alternativa a ciò non è salvare Rifondazione (che da sola non si salva più), ma collocarla all’interno di una nuova versione della “sinistra unitaria e plurale”, di una nuova sinistra arcobaleno, rivista e corretta, ma pur sempre non più comunista, di sinistra socialdemocratica (il cosiddetto “riformismo forte”), compatibile con una alleanza di governo col Pd.
 
Il congresso del Prc e la mozione dei 100 circoli
 
L’area dell’Ernesto ha proposto a Ferrero, Grassi e Mantovani di presentare assieme una mozione alternativa alla liquidazione bertinottiana, affinchè si andasse ad un congresso con sole due mozioni su cui chiamare gli iscritti a pronunciarsi: si vuole oppure no un partito comunista? Questa proposta ci è stata rifiutata, proprio per evitare questa scelta, perché ciò che non si vuole in entrambe le principali mozioni (Vendola e Ferrero) è proprio un partito comunista. L’area dell’Ernesto, tuttavia, ha tenacemente continuato a lavorare per costruire una mozione alternativa alla liquidazione assieme a tutti i compagni e le compagne disponibili, a prescindere da ciò che avevano votato a Venezia, ovviamente sulla base di una piattaforma politica comune. Siamo riusciti nel nostro obbiettivo costruendo una mozione unitaria con altre sensibilità e componenti, accomunati dalla condivisione di non far sparire ma anzi di rilanciare una forza comunista in Italia (4). Ci ha aiutato l’esperienza comune messa in campo lo scorso autunno con l’appello dei circoli critici fiorentini, che raccolse migliaia di firme e promosse una grande assemblea nazionale a Firenze. L’aver proseguito tenacemente il lavoro unitario fra militanti con storie, esperienze, sensibilità culturali diverse ma accomunati dall’idea di non far morire e di rilanciare una forza comunista in Italia, ha dato i suoi frutti. Ci ha aiutato lo spirito unitario, senza primogeniture e soprattutto la discussione e la convergenza sui contenuti, su cosa significa essere comunisti oggi in Italia, assieme alla valorizzazione della partecipazione e del protagonismo dal basso. La mozione, che abbiamo chiamato dei 100 circoli perché la sua genesi è nella iniziativa dei militanti dei circoli fiorentini, ha un valore non solo nella contingenza della battaglia congressuale ma anche sul piano strategico (5), perché la sintesi raggiunta fra queste anime è avvenuta su punti fondamentali per costruire una nuova identità comunista all’altezza dei tempi, niente affatto nostalgica o minoritaria ed è quindi di buon auspicio per l’unità di tutti i comunisti, sia dentro che fuori del Prc.
 
Segnalo 4 punti di grande valore strategico presenti nel documento: l’obbiettivo della ricostruzione di un partito comunista; il problema del radicamento sociale; la ricostruzione di un sindacato di lotta; l’analisi internazionale.
 
L’obbiettivo della ricostruzione di un partito comunista
 
Innanzitutto il documento dei 100 circoli è l’unico documento, fra i cinque presentati nel congresso del Prc, in cui la “rifondazione” non è semplicemente né della sinistra né solo “comunista”, ma è sempre “di un partito comunista”, cosa non secondaria, perché la sola “rifondazione comunista” è possibile anche all’interno di un altro soggetto politico e partitico, come tendenza culturale (definizione di Bertinotti), come tendenza politica (definizione di Ferrero), e persino come componente organizzata. Inoltre, al termine “rifondazione” il documento affianca sempre il termine “ricostruzione” di un partito comunista, sciogliendo un equivoco che risale sin dai primi anni del Prc. “La rifondazione/ricostruzione di un partito comunista – afferma la mozione – deve anche porsi l’obiettivo di superare la diaspora comunista, riaggregando le tante forze interessate, ma ancora disperse, con un percorso che metta al centro i contenuti, le pratiche sociali comuni, una critica al governismo e un progetto di chiara alternativa al Partito Democratico, condizioni indispensabili per garantire uno sbocco positivo a questo processo”. Importante questo esplicito riferimento al “superamento della diaspora comunista”. Altrettanto importante e strategico è anche, però, il chiarimento che “un percorso che metta al centro i contenuti, le pratiche sociali comuni, una critica al governismo e un progetto di chiara alternativa al Partito Democratico” è la “condizione indispensabile” perché abbia successo. E’ una indicazione da seguire con grande attenzione nel processo unitario dei comunisti.
 
Il documento dei 100 circoli insiste su questo tema quando afferma: “Noi pensiamo che un partito comunista non si proclami, che non si riduca ad un simbolo o a un nome, ma si costruisca come uno strumento al servizio dei lavoratori/trici e dei movimenti, nel vivo delle lotte contro il capitalismo e i suoi effetti in tutti i campi… A sinistra del Pd, dopo la devastazione elettorale, ciò che è necessario e possibile fare è ricostruire due paralleli processi di ricomposizione unitaria. Il primo fra le forze che esplicitamente si richiamano al comunismo e al marxismo, per la rifondazione/ricostruzione di un partito comunista e anticapitalista che per dimensioni e coerenza possa essere credibile per ampie masse lavoratrici. Questa è la condizione affinché si avvii, con qualche possibilità di successo, anche il secondo contemporaneo processo di ricomposizione, sulla base di lotte e contenuti comuni, di una sinistra anticapitalistica e di alternativa più ampia. Altrimenti, il rischio è che dopo la drammatica sconfitta elettorale si determini un pericolosissimo processo centrifugo di disgregazione dei comunisti e della sinistra, in presenza di una destra pericolosa al governo e di un’opposizione parlamentare più disponibile che mai a mediare con Berlusconi”.
 
I comunisti e il radicamento sociale
 
Il documento affronta, inoltre, un altro nodo strategico che è parte integrante dell’identità comunista, la cui mancata risoluzione è alla base della sconfitta storica dei comunisti in alcuni paesi europei come il nostro: il problema del radicamento sociale del partito. Il punto decisivo per cominciare a risolvere nel modo giusto questo problema è comprendere che le modalità di fare politica e le forme dell’organizzazione vanno “rivoluzionati” rispetto alla impostazione da “partito di massa” praticato nella seconda metà del ‘900. E’ bene prendere atto definitivamente, se ancora ce ne fosse bisogno – e la catastrofe del 13 e 14 aprile forse in questo ci aiuta – che quella società e quei partiti non esistono più e non sono riproducibili. E dunque il radicamento sociale non potrà mai ottenersi in maniera “statica”, aspettando per esempio le masse e la classe nelle sedi, ma solo in stretta connessione alla capacità di costruire iniziativa politica, vertenze, lotte sociali, movimenti. Sarebbe un errore, e l’ennesima illusione, pensare di affrontare il problema del radicamento sociale solo con la semplice aggregazione dei comunisti esistenti nei luoghi di lavoro oppure in termini meramente organizzativi sul territorio e men che meno delegando il radicamento sociale al sindacato di classe collegato al partito (che peraltro non c’è). Quante volte si è sperimentato così in Rifondazione Comunista, senza alcun risultato concreto? Circoli, cellule e simili nei luoghi di lavoro e i circoli territoriali non hanno funzionato ed oggi sono in crisi profonda, non perché portati avanti con poca convinzione dai gruppi dirigenti. Anche per questo, ma anche perché la classe lavoratrice italiana e più in generale la società italiana è profondamente cambiata negli ultimi 30 anni. Il punto è che se non si è in grado di determinare una linea di azione per il conflitto sociale, e non solo nei luoghi di lavoro, che renda utile e attrattiva la presenza organizzata dei comunisti nei luoghi di lavoro e fuori di essi, il radicamento sociale diventa uno slogan, una parola vuota, una pura astrazione ideologica o un richiamo nostalgico al passato. Per esempio, una battaglia organizzata fuori e dentro i luoghi di lavoro contro il protocollo sul welfare del governo Prodi avrebbe prodotto radicamento sociale, sedimentazione organizzativa anche nei luoghi di lavoro; la lotta per la difesa della scuola pubblica contro i finanziamenti alle scuole private può produrre insediamento organizzato fra gli studenti e gli insegnanti, così come una battaglia contro il razzismo e per il diritto di voto amministrativo agli immigrati potrebbe produrre la nascita e la crescita di embrioni di organizzazione comunista fra gli immigrati. Sono le lotte che sedimentano organizzazione e sono i militanti capaci di costruire lotte ad essere messi a dirigere il partito.
 
I comunisti esistono e vengono riconosciuti come tali se rappresentano concretamente – e non astrattamente – quella parte del “proletariato” più avanzata, che pensa ad un profondo cambiamento di sistema. La funzione e il significato di un partito comunista non sono dati per diritto divino ma sono stati conquistati in un secolo e mezzo di organizzazione, di grandi lotte, di protagonismo politico e di militanza esercitata concretamente dai comunisti in Italia e nel mondo. Peraltro, dopo l’esperienza fallimentare della partecipazione dei comunisti nel governo Prodi, il problema della ricostruzione di una forza comunista con un consenso di massa nel nostro Paese deve fare i conti anche con la perdita verticale di credibilità per l’opzione comunista tra i settori popolari e i lavoratori. A maggior ragione, dunque, dopo questa cesura storica fra i comunisti e la classe, non può esistere un progetto di ricostruzione di una forza comunista che non abbia un progetto di ricostruzione organica del rapporto organizzato con la classe reale e con il potenziale blocco sociale alternativo nelle sue molteplici e disarticolate forme.
 
In questo senso, che è il punto più strategicamente rilevante, tutto il documento dei 100 circoli, in particolare nei capitoli “La presenza e l’intervento nei movimenti”, “La centralità della questione sociale e dei lavoratori” e “L’organizzazione del partito e il suo insediamento sociale”, rappresenta un contributo originale e avanzato alla ricostruzione di un rapporto organico fra partito comunista e classe, nel rilancio e nella attualizzazione ai tempi di oggi (e con il linguaggio di oggi) della concezione leninista di partito come “avanguardia” reale nei conflitti, che è poi il ruolo che motiva al fondo l’esistenza o meno di un “partito” comunista nel XXI secolo in un paese a capitalismo “maturo” come l’Italia. Pur senza rincorrere il movimentismo minoritario di una manifestazione nazionale alla settimana, che nella sconfitta e nella frantumazione della sinistra di classe tenderà a crescere nell’illusione così di risolvere i problemi, il posto di un partito comunista in questa fase è, tuttavia, dentro i movimenti di massa reali e più avanzati che animano il conflitto sociale nel nostro Paese. Senza cedere alla involuzione bertinottiana che, prima di diluire il Prc nel governo, provò a diluirlo in quello che enfaticamente chiamava “il movimento dei movimenti”, la mozione dei 100 circoli chiarisce che “praticare l’internità ai movimenti non significa rinunciare all’autonomia dei comunisti, a portare una propria posizione dentro il loro dibattito e ridursi ad essere solamente un riferimento istituzionale”. L’intreccio fra partito comunista, sinistra anticapitalista e movimenti è nel documento dei 100 circoli posto nel modo corretto quando afferma: “Sappiamo che la sinistra anticapitalista è più ampia dei soli comunisti e sappiamo che le forme concrete di impegno a sinistra vanno ben oltre quelle rappresentate dall’appartenenza ad un partito. Movimenti, reti, comitati, collettivi, associazioni, militanza sindacale, vertenze territoriali e ambientali: molti sono i modi in cui si fa politica oggi a sinistra. Pensiamo solo a cos’è il No Dal Molin a Vicenza o il No TAV in Val di Susa. Ma se non si rilancia la rifondazione/ricostruzione di un partito comunista, più forte e più grande di ciò che è l’attuale Rifondazione, con una massa critica sufficiente, in grado di stare nei movimenti e nelle lotte per costruire un blocco sociale antagonista e prospettare un progetto di società alternativa, il rischio è che queste realtà si disperdano e siano sconfitte”. Questa non è una concessione tattica ai movimenti per una esigenza di unità con altre componenti, ma è la concezione strategica di una forza comunista oggi.
 
E’ evidente, altresì, che un partito comunista non può essere radicato socialmente senza essere radicato innanzitutto nel movimento dei lavoratori. E su questa difficoltà pesa come un macigno la specificità italiana della questione sindacale, l’assenza, da anni, di un sindacato che sia contemporaneamente di lotta e di massa.
 
La ricostruzione di un sindacato di lotta
 
Il documento dei 100 circoli è l’unico documento che affronta seriamente la questione sindacale, provando ad avanzare una chiara indicazione di lavoro. Come si fa a pensare che sia centrale la contraddizione fra capitale e lavoro, come si fa a proporsi di rilanciare il conflitto sociale, i movimenti, l’opposizione e persino la sinistra, senza affrontare la questione sindacale, la gravissima situazione di assenza – da anni – in Italia di un sindacato di lotta, autonomo dai governi e dalla ideologia della impresa capitalistica? Che il documento di Vendola così come quello di Ferrero non affrontino la questione sindacale è significativo della involuzione dell’area della maggioranza del congresso di Venezia e spiega il perché della catastrofe attuale della sinistra. Eppure Rifondazione Comunista avrebbe nel suo codice genetico l’ostilità all’impostazione concertativa della Cgil (chi non ricorda la battaglia del Prc dei suoi primi anni per l’elezione democratica dei delegati sindacali e contro i famigerati accordi concertativi del luglio ’92 e ’93). Il documento dei 100 circoli non solo fa una analisi degli “errori” più rilevanti della Cgil degli ultimi anni, ma si propone esplicitamente di favorire “una crescita e un coordinamento delle componenti e dei settori più avanzati della Cgil (Lavoro Società, Rete 28 Aprile, Fiom)”, così come auspica “analogo processo nell’ambito del sindacalismo di base”, come le Rdb, i Cobas ed altri spezzoni del sindacalismo di classe. E considera “sempre più necessario promuovere l’unità d’azione fra le diverse componenti del sindacalismo conflittuale, dentro e fuori la Cgil, per favorire una prospettiva di rinascita di un grande sindacato di lotta e di classe, riferimento credibile per lavoratori e lavoratrici di tutte le categorie”. E’ da notare, e qui c’è un altro elemento di grande valore strategico, che il documento propone il collegamento “con sindacati di classe e movimenti sociali di altri paesi del mondo, a partire dall’Unione europea”. Sono anni che nessuno poneva la questione dei collegamenti internazionali del sindacato italiano, la qualcosa – in un mondo in cui il capitale è sempre più globalizzato e solidale contro i lavoratori e in una Unione Europea che esprime politiche sempre più aggressive contro i lavoratori (vedi l’ultimo accordo dei governi della Ue sull’orario di lavoro settimanale a 60-65 anni) – dimostra la stupefacente deriva provincialistica e nazionalistica della sinistra italiana, una delle cause principali del suo fallimento storico.
 
Come fare a favorire questa linea sindacale? Altra risposta interessante, probabilmente banale ma che non si è mai data o voluto dare nel Prc: il documento dei 100 circoli propone concretamente di costituire “coordinamenti di comuniste e comunisti attivi nelle diverse organizzazioni sindacali”. Dunque, pur senza costituire correnti comuniste nelle diverse organizzazioni sindacali di classe, se tuttavia si costituiscono coordinamenti di comuniste e comuniste attivi nei diversi sindacati è possibile favorire il processo unitario.
 
L’analisi internazionale del documento dei 100 circoli
 
La nostra mozione è l’unica che affronta con una analisi seria la situazione internazionale e in essa l’involuzione moderata ed euroatlantica della Ue. I due capitoli internazionali, “La guerra e l’imperialismo” e L’Italia e la Ue subalterne all’alleanza con gli Usa”, sono non solo senza paragoni con nessun altro documento, ma possono essere un punto fermo strategicamente avanzato per l’elaborazione internazionale della rinascita di una forza comunista. Di particolare importanza è che le cause della guerra permanente vengano individuate non più nella generica categoria della globalizzazione ma nella crisi della potenza economica americana di fronte all’emergere di nuove potenze (si citano India, Russia, Cina, Brasile, Sudafrica). “Gli Stati Uniti – si afferma – di fronte alla propria crisi economica, a un debito estero che è il maggiore del mondo, all’emergere di nuove potenze che ne minacciano il primato mondiale; di fronte all’emergere di un mondo multipolare in cui più forti si fanno le spinte verso processi di emancipazione e di liberazione di interi popoli e continenti, percepiscono il rischio di un declino della loro egemonia planetaria. E scelgono la via della guerra, del riarmo e del primato militare per tentare di vincere con le armi quella competizione che stanno perdendo in campo economico”. Per non parlare del “nuovo internazionalismo” che viene auspicato assieme all’ “impegno per ricostruire un coordinamento non solo europeo ma anche mondiale delle lotte contro l’imperialismo e per il socialismo”. “Del resto – afferma il documento – nella nostra lotta non siamo soli, in Europa e nel mondo. Partiti e movimenti di ispirazione comunista e anticapitalista - con basi di massa - operano in Paesi in cui vivono oltre i 2/3 della popolazione mondiale, in ogni continente… In questo quadro auspichiamo il massimo di unità e convergenze possibili innanzitutto tra i comunisti e con le forze della sinistra anticapitalista e di classe che nella lotta contro le politiche neoliberiste e di guerra, contro il capitalismo e l’imperialismo, tengono aperta la prospettiva storica più generale della costruzione di una società di ispirazione socialista, alternativa al capitalismo”. Una impostazione internazionalista, questa, che potrà essere un contributo molto importante anche per il processo di unificazione delle forze comuniste.
 
Che succederà al congresso nazionale del Prc?
 
Dagli esiti del congresso del Prc dipende senz’altro tanta parte degli scenari futuri. Anche se il Prc è il partito che più di tutti si è “bruciato” nell’esperienza di governo, nella conseguente Sinistra Arcobaleno e nella sua disfatta, anche se – come abbiamo detto – Rifondazione Comunista sta affondando definitivamente, tuttavia il Prc ha ancora un importante patrimonio di militanti in grado di costruire lotte, movimenti, vertenze, con una impostazione non governista e non subalterna alle compatibilità del sistema, un patrimonio importante per ricostruire una forza comunista fortemente dinamica, non testimoniale o ferma al ricordo nostalgico dei bei tempi (del Pci o della sinistra extraparlamentare). Ma questo patrimonio di militanza può essere salvato solo se viene rimotivato in un progetto strategico con un futuro, altrimenti rischia il disfacimento e il ritorno a casa.
 
C’è chi lavora (Bertinotti, Vendola, Mussi) per traghettare ciò che resta di questo patrimonio nel nuovo soggetto politico–partito della sinistra socialista. E’ altresì evidente che il nostro compito è di lavorare in senso opposto, per collocare la massima parte di questo patrimonio nel progetto/processo strategico di riunificazione dei comunisti in una nuova formazione comunista. L’esito di questa lotta fra questi due opposti progetti strategici sul futuro del Prc dipende, oggi e nei prossimi mesi, sia dalla capacità propulsiva e attrattiva del progetto di unità dei comunisti, sia dagli equilibri congressuali che si determineranno fra e nelle mozioni dopo i congressi dei circoli (che formeranno le percentuali nazionali delle diverse mozioni). Come è ovvio vi sono diversi scenari, oggi difficilmente prevedibili, a cui far corrispondere una linea politica differente, anche se la situazione più probabile appare quella di un accordo fra la mozione di Ferrero e quella di Vendola. Quel che è certo è che, indipendentemente dagli scenari diversi, l’unica prospettiva strategica per chi non voglia rinunciare a ricostruire una forza comunista nel nostro Paese, è la riunificazione delle forze comuniste, assieme ai tantissimi comunisti e comuniste ormai senza partito. Per far avanzare questa prospettiva vanno collocati tutti i passaggi, da valutare nel dettaglio al momento giusto. Oggi ne vediamo a breve due, da favorire e far crescere entrambi, con tempi diversi, uno successivo all’altro, a prescindere dagli equilibri congressuali che si determineranno con i congressi dei circoli: uno più sociale, l’altro più politico-elettorale.
 
L’utilità sociale dell’unità dei comunisti
 
Il primo: far avanzare nel congresso del Prc, a partire dai congressi dei circoli e poi in quelli delle federazioni, con ordini del giorno trasversali alle diverse mozioni, e in particolare incalzando la mozione Ferrero, una linea di opposizione sociale, di lunga lena, di fase, senza alcun ritorno a ipotesi governiste e di alleanze di governo col Pd (senza che ciò significhi né equidistanza fra centro-destra e centro-sinistra nè indifferenza per la dialettica interna al Pd). Una linea di ricostruzione del conflitto sociale e dei movimenti di lotta, a partire dal conflitto del lavoro contro il capitale. Su ciò c’è obbiettivamente maggiore vicinanza con la mozione di Ferrero che con quella di Vendola, sia per il tema della centralità del conflitto di classe che per la contiguità maggiore della mozione Vendola con la Sd di Fava e Mussi. Su questa base sarà necessario avanzare, dunque, non una proposta “ideologica” di costituente comunista, bensì proposte concrete che vadano in quella direzione, che avvicinino nelle lotte e nelle posizioni politiche i comunisti, a prescindere dalle diverse mozioni interne al Prc e dalle diverse appartenenze ai partiti. Ha fatto mille volte meglio al processo di avvicinamento dei comunisti del Prc e del Pdci la straordinaria manifestazione del 20 ottobre, che ha prodotto l’unità e la fraternizzazione sul campo, dal basso, di migliaia e centinaia di migliaia di militanti comunisti dei due partiti, piuttosto che tante iniziative elitarie. Fa molto meglio all’unità dei comunisti la costruzione, anche su un singolo tema, di una lotta unitaria dei due partiti, Prc e Pdci, assieme ad altre forze comuniste e anticapitaliste, utile alla società, che non mille proclami.
 
Per una radicalità comunista
 
Ha affermato l’ex-ministro del Prc nel governo Prodi, Paolo Ferrero, in una intervista a Liberazione: “A questa destra populista o contrapponiamo una radicalità altrettanto forte, comunista, oppure vince la guerra tra poveri”. A questa affermazione, assolutamente condivisibile, va data tuttavia coerenza, altrimenti è solo uno specchietto per le allodole. Per sconfiggere la guerra tra poveri che rischiano di essere preda della ideologia radicale della destra (leghista e fascista), è necessaria ma non sufficiente la radicalità comunista. Assieme alla radicalità serve anche una forza consistente, una massa critica in grado di diventare punto di riferimento credibile per il malessere sociale crescente, altrimenti se quella che Ferrero chiama la “radicalità comunista” è divisa in tre/quattro piccoli pezzi e in competizione fra di loro, il malessere sociale andrà ancora più a destra, contro gli immigrati, contro le donne, contro i gay e le lesbiche, contro i lavoratori pubblici “fannulloni”, nelle guerre fra poveri, oppure ancora peggio a sostegno delle campagne razziste e nazionaliste e delle vere e proprie guerre imperialistiche di aggressione ad altri popoli del mondo a cui l’Italia si appresta a partecipare. Per questo, proprio per dare coerenza a questa idea condivisibile, ci vuole un processo di ricostruzione di una forza comunista che sia contemporaneamente radicale nei contenuti e nella ideologia (rilanciando il pensiero e l’analisi marxista) ma anche robusta, un punto di riferimento credibile e attrattivo sia del malessere sociale che dei pezzi sparsi della sinistra anticapitalistica e di alternativa. E i due partiti che realisticamente possono assieme costituire una prima aggregazione unitaria sono obiettivamente il Prc e il Pdci.
 
In questa direzione le forze più avanzate e consapevoli del movimento per l’unità dei comunisti, come l’Ernesto ma non solo, dovranno lavorare dopo i congressi del Prc e del Pdci e in particolare nei mesi d’autunno. Lotte e vertenze comuni, tende in piazza, feste comuniste, manifestazioni, tutte condotte nelle modalità più appropriate al fine di favorire il protagonismo dal basso, un processo ampio e aperto, a partire dai due partiti, e da tutte le articolazioni possibili e utilizzabili dei due partiti, circoli, federazioni, gruppi consiliari, aree interne. Nei mesi autunnali dovremo scatenare una offensiva unitaria, politica, sociale, culturale, che coinvolga il Prc, il Pdci, altre forze della sinistra comunista e di classe sinceramente interessate al processo unitario, il sindacalismo di classe, i movimenti, su tutte le concrete problematiche della società, dalla lotta contro la distruzione del contratto nazionale di lavoro, contro la precarietà e per aumenti salariali al rilancio di un movimento contro i nuovi pericoli di guerra (in Afghanistan, in Libano, contro l’Iran, contro la nuova base Usa di Vicenza), dalla battaglia contro il razzismo, per i diritti degli immigrati alla lotta per la difesa della 194. L’unità dei comunisti è utile non ai comunisti, non è politicistica ed autoreferenziale (come è stata la Sinistra Arcobaleno in campagna elettorale, causa della sua disfatta), ma è utile alla società italiana, ai lavoratori, alla costruzione di un blocco sociale alternativo al capitalismo, alla rinascita di un sindacalismo e di un sindacato di classe e di massa. Se saremo capaci di dimostrare questo avremo fatto un bel passo avanti nella ricostruzione unitaria di una forza comunista.
 
Un nuovo 20 ottobre
 
Nel congresso del Prc è necessario far avanzare un processo sociale e di unità nelle lotte dei comunisti e della sinistra. In particolare la proposta centrale che va fatta crescere con ordini del giorno, documenti, appelli, è di promuovere una nuova grande manifestazione come quella del 20 ottobre. Una manifestazione, eventualmente promossa formalmente da un appello di rappresentanti dei lavoratori appartenenti a diverse organizzazioni sindacali e politiche, che abbia come obbiettivo il rilancio dell’opposizione sociale sulla base di una piattaforma chiaramente alternativa sia alla politica della destra berlusconiana che a quella della grande borghesia del Pd, che si oppone, quindi, sia alla guerra permanente degli Usa (ricordiamo che la Sd di Mussi non aderì il 9 giugno alla manifestazione contro Bush), sia alla impostazione neoliberista della Ue (alternatività che impedì l’adesione di Sd alla manifestazione del 20 ottobre). Una manifestazione che per i suoi contenuti sia capace di allargare a sinistra, non a destra, lo schieramento del 20 ottobre, per intenderci a quei movimenti e a quelle forze politiche e sociali della sinistra comunista e di classe che il 20 ottobre non c’erano e che furono, invece, in grado da sole di promuovere il grande corteo contro Bush del 9 giugno mentre le burocrazie minoritarie del Prc e del Pdci riempivano 100 metri quadrati di Piazza del Popolo.
 
Alle elezioni europee e amministrative con una sola falce e martello
 
Pur dando priorità all’utilità sociale dell’unità dei comunisti, non si possono tuttavia sottovalutare le prossime scadenze politiche ed elettorali. Propongo che si lavori affinchè questo processo unitario abbia come primo sbocco elettorale le elezioni europee ed amministrative della primavera del 2009. Non per una ossessione elettoralistica o simbolica (che ha costituito uno degli errori d’origine che ha fatto fallire la Rifondazione Comunista e che quindi bisognerà evitare), ma perché quelle elezioni sono, obbiettivamente, un appuntamento politico in cui è possibile, anche per l’inesistenza del “voto utile”, dare il primo segnale di esistenza di una forza comunista ad ampie masse. Per tutte le forze comuniste, anche per quelle più lontane da una logica elettoralistica e istituzionale, sarebbe un errore esiziale perdere questo appuntamento, che può fornire l’elemento incoraggiante di massa per andare avanti nel processo costituente, che dovrà mantenere la sua centralità sociale e di classe.
 
Inoltre, è ovvio che una presentazione elettorale unitaria non implica obbligatoriamente una fusione immediata delle forze che vi partecipano e la costruzione in tempi brevi di un unico nuovo partito comunista, anche per evitare che la costituente comunista venga percepita solo come un espediente in funzione elettorale, oltre al fatto che un processo serio e rigoroso di ricostruzione di un partito comunista, di nome e di fatto, è un processo che non ammette più scorciatoie o precipitazioni affrettate. Per questo, se i processi di unificazione fossero ancora immaturi, la presentazione elettorale (sia alle prossime elezioni europee che a quelle amministrative) potrebbe rappresentare quantomeno una prima coalizione elettorale di forze comuniste, anticapitalistiche e di classe, nella quale in questa fase ogni forza può mantenere la propria autonomia. Un buon risultato di una coalizione elettorale comunista e di sinistra darebbe un segnale straordinario di vita, di rinascita, di speranza nel futuro. Questo è il secondo obbiettivo, dopo quello sociale, da perseguire con grande determinazione.
 
Queste due direzioni di lavoro, sociale e politico-elettorale (verso un nuovo 20 ottobre e verso un simbolo comunista unico alle elezioni europee), sono gli assi portanti di una svolta a sinistra del congresso di Chianciano, su cui lavorare per una eventuale gestione unitaria di ciò che rimane di Rifondazione Comunista. Inaccettabile, invece, sarebbe una proposta di gestione unitaria del partito senza una linea politica chiara e condivisa.
 
L’Appello ComunistiUniti
 
Negli ultimi tempi sono nati diversi tentativi di costituenti comuniste, comitati, coordinamenti per l’unità dei comunisti. Questo è positivo, anche se è senz’altro vero che sono sorte iniziative di unità dei comunisti con impostazioni eccessivamente ideologiche, testimoniali, minoritarie, con annessa e connessa la rincorsa a chi è più comunista o a chi è il vero comunista. Questi sono, tuttavia, fenomeni normali in una fase come quella che stiamo vivendo. A maggior ragione assume una importanza strategica l’iniziativa più significativa e antidogmatica messa in campo nelle settimane scorse in direzione dell’unità dei comunisti: l’appello “Comuniste e comunisti, cominciamo da noi”, promosso da rappresentanti di movimenti, di lavoratori e lavoratrici, intellettuali, apparso su grandi giornali e che ha raccolto subito, in poche settimane, più di 6000 firme (6). Intanto per l’ampia rappresentatività sociale, intellettuale e di presenza nei movimenti dei promotori questa è proprio l’opposto di una iniziativa minoritaria o testimoniale. Ma non solo. Tutto l’approccio dell’Appello è fortemente dinamico e aperto. “Siamo comuniste e comunisti del nostro tempo – comincia così l’Appello. Abbiamo scelto di stare nei movimenti e nel conflitto sociale. Abbiamo storie e sensibilità diverse: sappiamo che non è il tempo delle certezze. Abbiamo il senso, anche critico, della nostra storia che non rinneghiamo; ma il nostro sguardo è rivolto al presente e al futuro. Non abbiamo nostalgia del passato, semmai di un futuro migliore”. La riproposizione di una Sinistra Arcobaleno viene definita proposta che non avrebbe alcuna valenza alternativa e sarebbe subalterna al progetto moderato del Partito democratico e ad una logica di alternanza di sistema”. Così come l’Appello si rivolge direttamente “alle lavoratrici, ai lavoratori e agli intellettuali delle vecchie e nuove professioni, ai precari, al sindacalismo di classe e di base…. ai movimenti giovanili, femministi, ambientalisti, per i diritti civili e di lotta contro ogni discriminazione sessuale, nella consapevolezza che nel nostro tempo la lotta per il socialismo e il comunismo può ritrovare la sua carica originaria di liberazione integrale solo se è capace di assumere dentro il proprio orizzonte anche le problematiche poste dal movimento femminista… al mondo dei migranti, che rappresentano l’irruzione nelle società più ricche delle terribili ingiustizie che l’imperialismo continua a produrre su scala planetaria, perchè solo dall’incontro multietnico e multiculturale può nascere - nella lotta comune - una cultura ed una solidarietà cosmopolita, non integralista, anti-razzista, aperta alla “diversità”, che faccia progredire l’umanità intera verso traguardi di superiore convivenza e di pace”. E’ del tutto ovvio che non è un lungo e approfondito documento politico e teorico, è un semplice appello, ma tutto si può dire tranne che abbia un approccio ideologico, “senza respiro programmatico” (7).
 
L’appello ha avuto l’indubbio merito di dare una risposta immediata allo sconforto a sinistra prodotto dalla sconfitta del 14 aprile ed anche per questo ha raccolto nei primi giorni migliaia di adesioni. A sostegno all’Appello si sono svolte importanti riuscite iniziative pubbliche. Tuttavia, con la fine di luglio e dei congressi del Prc e del Pdci si chiude la prima fase dell’iniziativa unitaria promossa dall’Appello. Il successo di questa iniziativa ci incoraggia ad andare avanti. Ma il processo unitario procede nelle modalità e nei tempi dettati dagli eventi e avanza per tappe. Sulla base di una analisi puntuale degli avvenimenti (e innanzitutto degli esiti dei congressi del Prc e del Pdci) e di un bilancio della prima fase dell’Appello, sarà necessario ricalibrare l’iniziativa per superare i primi inevitabili problemi e difficoltà, ma soprattutto per estenderla ad altre forze ed aree che potrebbero rendersi disponibili nella seconda fase dell’autunno e per farla diventare un movimento di massa attraverso il coinvolgimento ed il protagonismo dal basso dei militanti comunisti di base.
 
Intreccio permanente fra teoria e prassi
 
Sappiamo benissimo che il tracollo della sinistra italiana e la fine del ciclo storico della rifondazione comunista (e di tutte le esperienze politiche che traggono origine da lì), vengono da lontano. Come si afferma nel documento dei 100 circoli sostenuto dall’Ernesto, “un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte di gelo”. Sappiamo benissimo che il problema della ricostruzione di una forza comunista è un problema innanzitutto di ricostruzione di una cultura comune all’altezza dei tempi, non solo sul significato dell’esistenza di un movimento comunista mondiale ma anche sul senso e la funzione di una forza comunista nella specificità di un paese come il nostro. Uno degli errori di fondo della prima rifondazione comunista non è stato affatto “l’eclettismo delle provenienze”, che invece poteva essere molto importante ed utile per il positivo rimescolamento delle tendenze comuniste del Pci con quelle presenti nella sinistra extraparlamentare che confluirono nel Prc, ma non aver saputo o voluto costruire da quelle provenienze diverse una discussione libera, una elaborazione ed una cultura comune, per una sintesi più alta che guardasse al futuro più che al passato delle vecchie provenienze. Nel Prc, così come a maggior nel Pdci dopo la scissione del ’98, non è mai stata fatta una seria riflessione collettiva sull’esperienza storica mondiale di costruzione del socialismo del ‘900 (che pure si imponeva dopo il crollo dell’Urss e lo scioglimento del Pci), per capire ciò che ha retto e ciò che non ha retto alle dure repliche della storia e come proseguire il cammino per il socialismo. Così come non è mai stata fatta una riflessione seria su cosa significa “partito comunista” in un paese del capitalismo “maturo” come il nostro, completamente diverso dagli anni ’50 in cui agiva con successo il “partito di massa”.
 
Se non vogliamo ripetere quegli errori che ci hanno portato alla catastrofe attuale si impone questa riflessione teorica, che andrà fatta – però – sia in un confronto aperto fra provenienze comuniste diverse, senza che nessuno pretenda di avere la verità in tasca o di aver visto sempre giusto, sia nel fuoco delle lotte che ci impone la situazione attuale, in un intreccio permanente fra teoria e prassi.
 
 
Note
(1) I 300 mila fucili evocati da Bossi, i saluti romani ostentati al Campidoglio, l’omicidio neofascista del ragazzo veronese, la “guerra fra poveri” di Ponticelli, le nuove leggi razziali promosse dal governo, l’esercito nelle città per garantire ordine e sicurezza, gli annunci bellicosi della Confindustria. E’ solo l’inizio della nuova situazione politica.
 
(2) Già nelle amministrative del 2006 (28 e 29 maggio) al Comune di Napoli il Pdci ha raggiunse la stessa percentuale (il 4,7%) del Prc superandolo sia pure di poco in voti assoluti (23.659 contro 23.311). Sempre in quelle amministrative di due anni fa il Pdci superava il Prc nel Comune di Crotone (con il 3,5% contro il 3,4%) e nel Comune di Varese (il 3% contro il 2,8%), oltre che in numerosi altri Comuni non capoluogo di provincia (Cento, Cesenatico, Bisceglie, Modugno, Genzano, Cassino, Ariccia, Rossano, Arzano). Nelle amministrative del 2007 (27 e 28 maggio) il Pdci superava il Prc nel Comune di Pistoia (con il 9,4% contro il 4,7%), nel Comune di Lecce (l’1,6% contro l’1,1%), nel Comune di Catania (con l’1,6% contro l’1,2%), oltre che in altri comuni più piccoli (Bollate, Castellammare di Stabia, Rivalta, Jesi, Grugliasco, Ceccano, Castrovillari).
 
(3) Anche il Pdci è coinvolto, sia pure molto più marginalmente, sia dal fallimento del governo Prodi che dall’esperienza catastrofica della Sinistra Arcobaleno. Tant’è vero che anche all’interno del Pdci si è aperto per la prima volta nella sua storia un dibattito congressuale per mozioni alternative, dal quale sembra emergere una posizione di maggioranza (Diliberto-Rizzo) autocritica sulle esperienze di governo di questi anni e favorevole alla ricostruzione di una forza comunista ed anticapitalista e una posizione di minoranza, organicamente governista e favorevole alla costituente di sinistra di Vendola-Bertinotti-Mussi.
 
(4) Chi volesse leggere la mozione integrale può farlo accedendo al sito della mozione: www.appelloprc.org.
 
(5) E’ interessante il giudizio critico che dà della nostra mozione Rossana Rossanda sul Manifesto del 7 giugno. In una analisi specifica delle mozioni congressuali del Prc, la fondatrice del Manifesto scende chiaramente in campo a sostegno di una sintesi fra la mozione Vendola e quella Ferrero per un rilancio della linea politico-strategica della sinistra arcobaleno, al più rivista e corretta. Della nostra mozione scrive che essa sostiene “la tesi che Rifondazione comunista deve tornare alle origini, cioè essere un partito comunista integro, assumere luci ed ombre del passato, operare per una rottura della linea di > uscita dal Congresso di Venezia, per un sindacato che si separi da una Cgil ormai > e, pur adoperandosi per una unità delle sinistre di opposizione, non confondersi con esse. Sola apertura è, coerentemente, verso il Partito dei comunisti italiani”. La nostra mozione, secondo la fondatrice del Manifesto, è “in netta discontinuità con il passato recente di Rc, per intenderci con Fausto Bertinotti”, per “andare a un aggiornamento del Pci o meglio di un partito leninista”.
 
(6) Chi volesse leggere l’Appello integrale e i nomi dei primi firmatari può accedere al sito: www.comunistiuniti.it
 
(7) Nella mozione Ferrero si dedicano alcune righe per attaccare la Costituente comunista e quindi indirettamente l’Appello. La Costituente comunista si ritiene sbagliata “perché fondata esclusivamente su base ideologica e simbolica, priva di respiro programmatico e di apertura ai movimenti, e dunque incapace di incidere positivamente nella realtà” (pag. 14 “La critica alle costituenti”). Questo argomento è debolissimo. Perché se si dimostrasse che non è vero che la costituente comunista è “fondata esclusivamente su base ideologica e simbolica” e si dimostrasse che invece ha un “respiro programmatico” e aperto ai movimenti, si smonterebbe la motivazione della contrarietà di questi compagni. Poi, se si è contrari a prescindere si trovano sempre nuovi pretesti ideologici.