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da: rebelion.org
http://www.rebelion.org/noticia.php?id=56973
 
La crisi in Myanmar si accentua
 
Txente Rekondo, Gabinete Vasco de Analisis Internacional (GAIN)
 
30/10/2007
 
Le immagini e le notizie da Myanmar, o per meglio dire sulle proteste che stanno manifestandosi in quel paese, hanno tolto dal suo isolamento informativo quello stato asiatico. L’interesse crescente che mostrano alcuni paesi occidentali e i mezzi di comunicazione non può passare inosservato a coloro che hanno seguito la complessa situazione birmana negli ultimi anni. La nostra visita di alcuni anni fa in quel paese ci ha permesso di scoprire parte di questa realtà, nascosta e dimenticata dall’Occidente per tanto tempo. La sincerità della gente, le difficoltà economiche vissute da gran parte della popolazione, le misure repressive della Giunta militare, l’importanza del buddismo e dei monaci buddisti (Sangha), la permanente presenza delle forze armate (Tatmadaw), il mercato nero del combustibile, le pagode…erano e sono parte del paesaggio birmano che alcuni sembrano aver scoperto ora.
 
Ma perché proprio ora? Richiama fortemente l’attenzione questo improvviso interesse per il popolo birmano, abbandonato come molti altri popoli, poiché l’ordine del giorno è in ogni momento determinato dagli interessi geostrategici, militari ed economici dell’Occidente e soprattutto degli Stati Uniti. Ed è in questo contesto che bisognerebbe collocare il recente intervento di Bush di condanna del regime birmano, che ha il chiaro intento di sviare l’attenzione dalle sue sconfitte più recenti in Iraq e Afghanistan, come pure dal suo braccio di ferro con l’Iran.
 
In linea con questo comportamento occidentale ci sono due interessanti elementi che rendono bene l’idea della mancanza di attenzione verso la Birmania e, soprattutto, di quanto siano da considerarsi “lacrime di coccodrillo” le informazioni e le reazioni in merito a quanto sta accadendo. Il primo è rappresentato dalla stessa definizione di “rivoluzione zafferano”, che ha l’evidente scopo di metterla in relazione con i cambiamenti di regime promossi da Washington attraverso le cosiddette “rivoluzioni colorate”. Il riferimento allo “zafferano” deriverebbe dal colore delle vesti dei monaci buddisti, che si sono messi alla testa delle attuali proteste. Ma, come hanno segnalato analisti che meglio conoscono quelle realtà, tuniche di colore “zafferano” sono indossate dai monaci buddisti dei paesi vicini, mentre i monaci e le monache di Myanmar si caratterizzano per il “cremisi” della loro veste.
 
Un altro punto di controversia “aneddotica” riguarda la definizione del paese. Mentre dalla maggioranza degli stati e delle Nazioni Unite il termine Myanmar è accettato, tanto gli USA quanto la Gran Bretagna continuano ad usare quello di Birmania (negando al governo militare l’autorità “democratica” che possa consentirle di cambiare il nome). Ma oltre a questo uso di parte e politico, il dato certo è che Birmania (o Burma in inglese) è una versione “corrotta” della parola Myanmar, e che entrambi i termini sono usati dalla popolazione birmana, che attribuisce al primo un carattere informale e al secondo quello letterario e formale.
 
Ma, al di là di questi aneddoti in merito al conflitto birmano e alle sue interpretazioni e ripercussioni esterne, in questi giorni le strade di quel paese sono testimoni delle mobilitazioni più importanti contro il governo birmano dalle proteste del 1988 (8888, in riferimento all’otto di quel mese). Myanmar è un paese con più di cinquanta milioni di abitanti, che in maggioranza sono buddisti, circa il 90% della popolazione. Inoltre, il paese conta 135 etnie riconosciute ufficialmente, distribuite tra otto gruppi principali. Di qui deriva l’importanza del clero buddista e dei movimenti indipendentisti di alcune minoranze nazionali nella composizione del mosaico birmano. Altri due elementi chiave sono rappresentati dai militari, che governano il paese da decenni, e dall’opposizione che cerca, senza successo, di trarre vantaggio dalle manifestazioni di questi giorni, in gran parte caratterizzate dalla presenza dei monaci buddisti. A completare il puzzle, c’è infine la presenza di attori stranieri che non esitano a inserire le proteste popolari nel contesto delle proprie strategie e dei propri interessi.
 
Le radici di queste nuove proteste sono squisitamente economiche; le misure governative hanno significato un duro colpo per le famiglie birmane che già sono costrette ad ingaggiare quotidianamente una dura battaglia per sbarcare il lunario. Se la disastrosa gestione economica dei dirigenti birmani è evidente, non bisogna dimenticare che in parte le attuali misure sono il frutto delle pressioni del FMI e della Banca Mondiale, che non nutrono alcun dubbio sulla necessità di applicare le loro politiche neoliberali, anche a costo di esasperare la penuria economica delle popolazioni locali.
 
Ma, allo stesso tempo, è anche certo che le proteste hanno provocato una situazione la cui dimensione politica è innegabile. Da alcuni media questi scontri ci vengono presentati come un braccio di ferro tra i monaci e i militari, due “eserciti” di circa mezzo milione di persone con i loro alleati, una lotta tra Tatmadaw e Sangha. Il ruolo di una parte della comunità religiosa buddista, che ha preso la testa delle proteste, presuppone l’esistenza di un nuovo fattore, quando si affronta l’analisi degli avvenimenti. Il ruolo centrale del buddismo nella vita birmana è decisivo ai fini della comprensione di quanto accade e del fatto che alcuni abbiano visto in questa sua presa di posizione una sorta di “carta bianca” a promuovere il cambiamento di regime nel paese, dotata di una giustificazione religiosa.
 
Tuttavia, esistono ancora alcuni punti oscuri in tutto ciò. Così, alcuni analisti, non avendo dubbi circa l’importanza del Sangha in Myanmar, affermano che la partecipazione dei monaci non sarebbe condivisa da tutto il clero, ma da una parte importante di questa comunità. Inoltre, il protagonismo dei monaci in fasi diverse della storia del paese, viene utilizzato per mettere in rilievo l’importanza di questa nuova loro partecipazione alle manifestazioni. Nel passato, i monaci buddisti si erano messi alla testa delle rivolte indipendentiste e contro l’occupazione britannica e, mentre alcuni lo facevano con piena convinzione politica, altri si ponevano solo l’obiettivo di conservare lo status quo nella società birmana e di non perdere il ruolo protagonista e di controllo in determinati ambiti.
 
Le caratteristiche delle attuali manifestazioni non possono essere paragonate agli avvenimenti dell’agosto 1988, sebbene alcuni fattori permettano di cogliere un legame tra le due situazioni. E’ evidente che oggi la partecipazione di alcuni ex dirigenti studenteschi di quegli anni ha un peso nella definizione della strategia. Inoltre, sebbene le proteste, per numero ed estensione, siano oggi minori, il fattore mediatico (Internet soprattutto) può portare ad una loro sopravvalutazione, nell’aspettativa che queste si estendano a tutto il paese e che aumenti il numero dei manifestanti.
 
D’altro canto, in questa occasione il regime birmano ha anticipato i manifestanti e ha dispiegato in modo imponente la sua forza militare e i gruppi di “vigilantes” (noti come USDA) per reprimere le proteste ed impedire che raggiungano le dimensioni del 1988. Senza alcun dubbio, la maggiore differenza, che può giocare relativamente a favore dei manifestanti, è rappresentata dal ruolo dei monaci a loro sostegno, con un’intensità che non si era mai registrata in passato.
 
I protagonisti
 
Se i protagonisti principali sono i manifestanti che scendono nelle strade per reclamare un cambiamento profondo nel loro paese, anche altri attori sono presenti nella nuova scena birmana.
 
L’opposizione “ufficiale” e più gradita all’Occidente è quella che si articola attorno alla figura di Aung San Suu Kyi e al suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), che sarebbe stata colta di sorpresa dalla piega che sono venute assumendo le proteste. Con un passato legato sempre all’elite politica del paese, Suu Kyi nel 1988 acquisì il ruolo di protagonista dopo il suo ritorno nel paese, avvenuto proprio quell’anno. Da allora, in diverse occasioni è stata costretta agli arresti domiciliari e al carcere, e i governi occidentali hanno puntato su di lei quale ricambio alla Giunta militare.
 
La stessa Suu Kyi sembrerebbe disposta ad accettare con piacere questo ruolo protagonista, anteponendolo ad un’autentica unità delle forze di opposizione, il che di fatto significa un’evidente manifestazione di debolezza di fronte alla Giunta militare. In tal senso, alcuni analisti segnalano che all’interno della stessa NLD sarebbe in corso uno scontro tra due tendenze: quella “radicale”, sostenitrice di una rottura e che condividerebbe le posizioni di altri settori più progressisti (studenti, comunisti e altre organizzazioni) e quella “conservatrice”, allineata a Suu Kyi, che starebbe manovrando per un cambiamento contrattato con i militari, con il beneplacito dei suoi sostenitori occidentali, e che sarebbe appoggiata dalla gerarchia buddista. In tal modo dovrebbero essere interpretate anche le richieste “limitate” che il clero buddista ha avanzato alla Giunta militare.
 
Il potente un tempo Partito Comunista della Birmania (CPB), attualmente illegale e clandestino, si sta ancora riprendendo dalle dissidenze interne e dall’enorme repressione a cui è stato sottoposto dopo aver puntato sulla lotta armata contro il regime militare. Tuttavia, può ancora svolgere un ruolo in questi avvenimenti e, insieme ad altre organizzazioni progressiste e studentesche, ha preso parte alle proteste e alle rivendicazioni per un cambiamento profondo della situazione. Gli appelli del passato di questi gruppi al lavoro unitario di tutta l’opposizione, alla formazione di un governo provvisorio e a nuove elezioni multipartitiche sono stati respinti da Suu Kyi.
 
Da parte sua, la Giunta militare sembra avere il controllo della situazione e, secondo Renaud Egreteau del Ceri, “il maggior pericolo potrebbe venire da una scissione o da divergenze all’interno dell’esercito stesso”. E’ per questo che da Occidente è stata avviata una macchinazione per diffondere voci e notizie circa la presunta cattiva salute e l’infermità di alcuni dirigenti (si è parlato anche della morte di qualcuno di loro). Si vuole pure ingigantire alcune presunte rivalità o lotte che la si manifesterebbero nei differenti clan, per offrire l’immagine di scontro tra i due uomini forti della Giunta militare, Than Shwe e il numero due Mahung Aye.
 
I militari birmani stanno prendendo tempo e non è azzardato pensare che possano cercare una via d’uscita negoziata a medio o lungo termine, per conservare buona parte dei loro privilegi e non essere condannati o perseguiti per i loro eccessi repressivi di questi decenni. Al momento, la Giunta militare ha calibrato la sua risposta repressiva, perché non raggiunga i livelli del 1988 e soprattutto perché le proteste non assumano le stesse dimensioni di allora. Per questo, il regime sembra essere ancora forte.
 
Se prima abbiamo menzionato altri due attori interni, i militari e il clero buddista, un ruolo in questo copione birmano spetta anche alla cosiddetta “comunità internazionale”, sebbene essa non si pronunci con un’unica voce.
 
L’importanza geostrategica di Myanmar, le sue rilevanti risorse da sfruttare e importare, a cui si aggiungono le rivalità tra alcuni degli attori della scena internazionale, fanno si che lo scacchiere birmano sia il luogo adatto a permettere che questa “comunità internazionale” si confronti con le sue differenze e i suoi interessi, a scapito delle rivendicazioni del popolo birmano.
 
In questo contesto, a richiamare l’attenzione è il fatto che il presidente USA abbia attribuito proprio ora tanta importanza alla situazione in Myanmar. Con il suo discorso di “incitamento alla democrazia”, Washington ha avviato una campagna diplomatica e mediatica per favorire un cambio di regime in questo paese asiatico. La proposta di inasprire le sanzioni contro il governo della Giunta militare deve essere interpretata prevalentemente in chiave di uso interno (di fronte alle prossime elezioni presidenziali Bush ha bisogno di presentare qualche “successo”, soprattutto dopo le sonore sconfitte in Iraq o in Afghanistan, e anche per ciò che può accadere con l’Iran).
 
Anche Cina e India fanno sentire la loro pressione sul Myanmar, per esercitare dominio e capitalizzare influenza nel continente. In tal senso, richiamano l’attenzione le pressioni che vengono esercitate sul governo di Pechino affinché favorisca un cambiamento in Myanmar, nello stesso momento in cui ci si dimentica intenzionalmente del ruolo dell’India, a cui non vengono sollecitate le stesse iniziative. In questa situazione, Washington e i suoi alleati vogliono utilizzare l’imminenza dei giochi olimpici del 2008 in Cina per premere su questo paese, e può anche darsi che raccolgano il risultato sperato; ma non si deve certo dimenticare che la Cina, ora come nel passato, ha saputo muoversi nella scena internazionale senza cedere alle pressioni e ai ricatti di questo “club in difesa della democrazia di modello occidentale”.
 
Infine troviamo l’Europa che, fedele alla sua triste condizione, non è capace di offrire un’immagine unitaria: in sintonia soprattutto con gli importanti interessi delle grandi imprese europee, i governi europei non vogliono che le loro prese di posizione arrechino danni ad esse. In questa occasione, la cosiddetta Unione Europea agirà come sempre, difendendo i propri interessi a scapito delle richieste di cambiamento della popolazione birmana e, soprattutto, passando sopra al proprio discorso ufficiale “a difesa dei valori democratici”.
 
La Giunta militare da qualche tempo sa che deve trovare una via d’uscita: è questa la ragione per cui ha cominciato a disegnare una strategia per avviare una specie di transizione, attraverso le riforme economiche e politiche iniziate e pianificate negli ultimi anni. Questo processo offre molti buoni esempi in luoghi non tanto lontani, e i militari birmani guardando ad essi starebbero cercando di avvicinarsi ai settori “moderati” dell’opposizione divisa e, con l’appoggio delle classi imprenditoriali e dell’elite politica attuale, di definire le modalità per il passaggio ad una “democrazia di tipo occidentale” che dia immunità ai protagonisti del passato, e che in realtà rappresenti un modo di “cambiare perché nulla cambi”.
 
Da parte sua, la cosiddetta comunità occidentale se davvero volesse che le sue proposte “democratizzatrici” venissero prese sul serio, dovrebbe agire nello stesso modo di fronte ai regimi corrotti di altre zone del mondo, o di fronte ai suoi alleati nelle “petro-monarchie” del Golfo, dove i diritti umani e le libertà brillano per la loro assenza.
 
Un cambio patteggiato o una riforma formale potrebbero essere la soluzione che si sta meditando per ottenere un cambiamento degli attuali ruoli in Myanmar, con un esercito che “domini la situazione dietro il sipario” ma fuori dalla fotografia politica ufficiale, con una nuova elite politica disposta a non operare cambiamenti e rotture che non siano graditi all’Occidente e con un clero buddista che può continuare a conservare il suo status quo, senza limiti al suo operare e al suo potere. Se così fosse, i desideri di cambiamento e di trasformazione dei manifestanti birmani e di buona parte della popolazione di Myanmar sarebbero dimenticati e messi da parte, con l’offerta di un prodotto che non è quello che viene richiesto.
 
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare