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- popoli resistenti - cina - 12-04-08 - n. 223
Provocazione nel Tibet
Higinio Polo
Il compagno Higinio Polo ci ha fatto pervenire un suo articolo sulle vicende del Tibet pubblicato in “Rebelion”, che volentieri abbiamo tradotto.
L’eccellente campagna propagandistica che da anni ha fatto del Dalai Lama un uomo benevolo, pacifico, amante della democrazia e della libertà del Tibet, è riuscita a confondere molte coscienze. In realtà, Tenzin Gyatso, così si chiama il Dalai Lama, è l’ultimo capo spirituale di una setta lamaista che, dopo la rivoluzione comunista nel 1949 in Cina, ha visto arrivare la fine dei propri privilegi. Il Tibet precedente al 1949 era un territorio dove la maggioranza dei suoi abitanti erano servi; e molti erano schiavi che potevano essere anche venduti e dove la proprietà e la ricchezza erano concentrate nelle mani della nobiltà feudale e dei monaci dei monasteri. I cambiamenti politici maturati con la rivoluzione cambiarono completamente lo scenario, e, già nel 1956, il Dalai Lama e la sua corte capeggiarono una ribellione contro il governo rivoluzionario cinese, armati e aiutati finanziariamente dalla CIA nordamericana, insurrezione che fu sconfitta dall’Esercito Popolare cinese nel 1959. Le vittime, di entrambe le parti di questa piccola guerra civile, furono circa diecimila, non certo più di un milione come vergognosamente continua ad affermare il Dalai Lama.
Non c’è mai stata una “invasione cinese” del Tibet, come ripete, tra le altre cose, il fantasmagorico “governo in esilio” del Dalai Lama, perché l’altopiano tibetano era territorio cinese secoli prima che esistessero tutti gli attuali territori europei. Il Dalai Lama guidava un regime così benevolo che contemplava pene per i delitti consistenti anche nel cavare gli occhi dei condannati, nel tagliare piedi e mani, e in altri castighi simili. Quel regime ha potuto conservarsi grazie all’isolamento del Tibet, alla decadenza della Cina imperiale e all’azione di potenze imperiali come la Gran Bretagna che è arrivata ad occupare Lhasa.
Dalla sua sconfitta nel 1959, il Dalai Lama si è stabilito nel nord dell’India, “ha scoperto” la bontà della democrazia e si è trasformato in una pedina strategica nelle mani di Washington, che lo ha finanziato e aiutato diplomaticamente nell’ultimo mezzo secolo. Durante gli anni sessanta, gli Stati Uniti hanno organizzato ed addestrato in tecniche di guerriglia e di sabotaggio, anche in territorio nordamericano (in Colorado) gruppi di tibetani: fino all’inizio degli anni settanta, questi gruppi, i khampas, che sono arrivati ad arruolare quasi diecimila uomini, hanno lanciato regolarmente attacchi armati all’interno della Cina da basi che avevano in Nepal: allo stesso tempo, operazioni segrete dell’aviazione nordamericana rifornivano di armi ed esplosivi questi gruppi.
La sconfitta dell’insurrezione del 1959, unita al nazionalismo e all’irredentismo politico di radice religiosa dei monaci, è stata utilizzata in diverse occasioni per organizzare campagne di assedio e discredito della Cina; l’ultima, a metà di marzo 2008. Contrariamente alle informazioni tendenziose della stampa conservatrice internazionale, le proteste e la “rivolta” in Tibet non sono state pacifiche, e sono cominciate nei monasteri tibetani di Drepung, Ganden e Sera: tutta la provocazione è stata perfettamente organizzata. I partecipanti alla rivolta hanno fatto sprofondare Lhasa nel caos, hanno incendiato la compagnia elettrica, lasciando senza luce la città e hanno organizzato un autentico pogrom razzista contro cinesi han e commercianti della minoranza musulmana che ha causato le vittime. Le stesse di cui, in seguito, la stampa internazionale ha indicato come responsabile il governo cinese! Ci sono testimonianze del linciaggio fino alla morte di due cittadini cinesi han da parte di monaci e giovani tibetani, e sappiamo che cinque ragazze sono morte carbonizzate in conseguenza di uno degli incendi provocati dai monaci e gruppi di tibetani seguaci del Dalai Lama.
Contrariamente alle informazioni che ci hanno fornito, la polizia cinese non è stata in grado di controllare la feroce esplosione di violenza, fino al punto che più di duecento poliziotti sono risultati feriti, insieme a quattrocento civili. Più di quattrocento negozi sono stati saccheggiati e incendiati, e la stessa cosa è capitata con sette scuole e sei ospedali, come pure con decine di veicoli. La maggioranza della popolazione tibetana non si è resa protagonista di questa sinistra esplosione di ostilità contro cinesi han e musulmani, che è stata opera dei seguaci del Dalai Lama. Le vittime sono morte in questa orgia di odio e distruzione e non per l’azione repressiva della polizia cinese, come invece hanno cercato di farci credere.
Il momento è stato perfettamente calcolato: la prossimità dei Giochi Olimpici amplifica l’effetto del nuovo focolaio di tensione per Pechino e, inoltre, la calcolata politica di pressione nordamericana sulla Cina (l’unico paese che, nel secolo XXI, potrebbe rappresentare un rivale strategico per Washington) utilizza un’altra carta per assediare la Cina. Pechino sa che il progressivo rafforzamento della Cina ha dei punti deboli che, senza dubbio, verranno utilizzati dagli Stati Uniti: il Tibet e il Dalai Lama, ma anche i gruppi islamisti della regione cinese del Xinjiang, che ricevono oscuri appoggi; come pure la possibile provocazione di una crisi a Taiwan, o anche la riattivazione della crisi nucleare nella penisola coreana, alla periferia della Repubblica Popolare di Cina. Perché i fatti di Lhasa non sono stati una “rivolta” di un popolo oppresso, ma una provocazione freddamente calcolata, di cui il Dalai Lama e Washington conoscono tutti i dettagli.
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare