da nuovacolombia@yahoo.it
La “volonta’ di pace” di Alvaro Uribe e la
farsa governativa del ralito
L’anno
2004, non lontano dal volgere al termine, è stato caratterizzato da
un’imponente offensiva diplomatica del Governo Uribe, il quale ha sguinzagliato
i propri ambasciatori e funzionari in mezzo mondo per cercare di convincere
l’eterogenea e variegata comunità internazionale circa le presunte efficacia e
bontà della sua politica di “sicurezza democratica”.
Secondo la propaganda demagogica della Casa
de Nariño, i risultati ottenuti dall’esecutivo in materia politica,
economica, militare ed internazionale sarebbero tangibili. Ma la verità, manco
a dirlo, è largamente lontana e contrapposta al trionfalismo
dell’establishment.
Sul piano politico, Uribe ha ricevuto un forte schiaffone già nell’ottobre
2003, quando la maggior parte dei colombiani aventi diritto al voto,
mobilitatisi nell’ambito del forte e vasto movimento contro il referendum
uribista, nei sogni presidenziali plebiscitario ma in realtà ultraminoritario,
disertò le urne per sabotarlo nonostante l’oligarchia avesse martellato per
mesi con i potenti media di regime. Dopo quella fragorosa sconfitta il governo
Uribe, che sempre più organizzazioni ed ong in tutto il mondo definiscono come
narco-paramilitare, ha subito un’emorragia di consensi e di ministri, alcuni
silurati ed altri obbligati a dimettersi per scandali a ripetizione
(corruzione, narcotraffico, peculato, ecc.). Più recentemente, il consolidarsi
di un vasto movimento antiuribista ha avuto ripercussioni anche nel Congresso,
che Uribe Vélez tenta di imbrigliare al fine di neutralizzare la pur
moderatissima e socialdemocratica opposizione parlamentare, che si oppone al
progetto di modifica costituzionale che permetterebbe ad Uribe di ricandidarsi
ad un secondo mandato.
Sul piano economico, aldilà delle cifre ufficiali di enti statali ed organismi
multilaterali, il Paese è in ginocchio: aumentano le importazioni, che dopo
l’inizio della nefasta “apertura economica” nel ’90 sono passate da 500.000 a
quasi 10 milioni di tonnellate all’anno; prosegue implacabilmente il processo
di smantellamento dell’apparato produttivo colombiano, ora privatizzato ora
svenduto al capitale transnazionale; aumenta la voragine del buco nero del
riciclaggio dei narcodollari, con modalità non identiche ma analoghe a quelle
usate nei decenni passati dai cosiddetti cartelli delle droghe; infine, ma non
per ordine d’importanza, la Colombia sottoscriverà presto con gli USA il TLC,
“Trattato di Libero Commercio” bilaterale che i secondi perseguono come forma
di far passare l’ALCA, gradualmente, pur senza il consenso di tutti i governi
latinoamericani (Venezuela in primis).
E’ doveroso ricordare che il TLC-ALCA andrà a distruggere definitivamente
l’economia contadina e rurale, espanderà lo strapotere -anche giuridico- delle
transnazionali ed il saccheggio delle ingenti risorse naturali
andino-amazzoniche, e porterà all’ennesima potenza la svendita della già
calpestata sovranità nazionale della Colombia, così come di tutti gli altri
paesi che l’hanno sottoscritto (Cile) o sono in procinto di sottoscriverlo
(Perú, Ecuador e diversi paesi centroamericani).
Sul piano sociale, la politica economica di Uribe ha generato e continua a
generare un allargamento della forbice tra l’oligarchia, sempre più potente e
ricca, e quasi l’80% della popolazione che vive al di sotto della soglia di
povertà, guadagnando appena 1 dollaro al giorno. E mentre i diritti sindacali a
un lavoro dignitoso vengono conculcati e negati, così come quelli umani, il
tasso di disoccupazione rasenta il 30% (il più alto dell’America Latina), senza
contare la sottoccupazione quale fenomeno in perenne crescita nel modello
economico neoliberista, al pari del lavoro precario ed informale (secondo l’Asobancaria, dei 15 milioni di
occupati ben 9, ossia il 60%, lavorano nel settore informale). E se gli
ospedali e le scuole chiudono i battenti per via dei tagli stratosferici alla
spesa pubblica, in perfetta sintonia con i dettami del FMI e della Banca
Mondiale, la controriforma agraria avanza a colpi di sangue e piombo
paramilitare, e l’emarginazione e l’esclusione sociali si espandono quali
condizione in cui la maggior parte della popolazione si trova a dover
difficilmente sopravvivere.
Sia chiaro che, dei miliardi e miliardi di pesos sottratti alla spesa pubblica,
gli unici a non essere impiegati nella guerra sporca contro il popolo e le sue
organizzazioni sono quelli che si “perdono” nei meandri della burocrazia
centrale e dipartimentale dell’amministrazione dello Stato.
Molto si è detto e scritto sulla reingegneria delle Forze Armate governative,
conseguente al controinsorgente Plan Colombia quale braccio armato dell’ALCA ed
alla sua recente e disperata accelerazione, chiamata “Plan Patriota”, in cui
decine di migliaia di soldati addestrati e diretti sui campi di battaglia da
ufficiali USA e dal South Com del Pentagono cercano di decapitare il movimento
guerrigliero. Ma è sul piano militare e della “sicurezza” che la “Seguridad democratica” di Uribe, che
è poi una politica di netto stampo fascista, sta fallendo. Il tentativo di
togliere l’acqua al pesce, e cioè di sterminare l’opposizione sociale e
popolare per isolare la guerriglia, incontra una sempre più accesa resistenza;
ed il movimento guerrigliero, lungi dall’essere militarmente indebolito, ha intensificato
gli attacchi al regime cambiando il proprio modus operandi e rafforzando la propria presenza nelle aree
metropolitane.
Anche i media filogovernativi (El Tiempo, El Espectador, Semana, Caracol, ecc.)
hanno dovuto riferire in merito all’insubordinazione di alcune unità di truppe
speciali contro-guerriglia mandate a gettare, nell’ambito del “Plan Patriota”,
ulteriore benzina sul fuoco del conflitto sociale ed armato colombiano.
Insubordinazione, anche violenta, che è fuoriuscita dal controllo della catena
di comando dell’Esercito colombiano per via degli scarsi risultati ottenuti in
aree in cui la guerriglia ha una influenza storica, la conoscenza totale del
terreno operativo ed un grande appoggio della popolazione, tutti fattori,
questi, a cui si sono aggiunte le inondazioni, prima, e le siccità, poi, che
hanno fatto saltare i nervi alle sedicenti “truppe d’acciaio” di regime, che
dal febbraio 2004 ad oggi hanno subito (solo nel sud-oriente colombiano) più di
1500 perdite, tra morti e feriti.
Sullo scenario internazionale, Uribe raccoglie indubbiamente le simpatie dei
settori più guerrafondai e reazionari, che vedono nella sua amministrazione un
partner incondizionato nella crociata contro il cosiddetto “terrorismo”,
capitanata dai falchi della Casa Bianca. Tuttavia, l’isterismo e
l’auto-sacralizzazione con cui si è posto nei confronti della comunità
internazionale (“chi non è con me sta con i terroristi!”) l’hanno reso
marcatore di numerosissimi autogoals, tra i quali valgono la pena di essere
citati il boicottaggio della stragrande maggioranza degli europarlamentari alla
sua visita al Parlamento Europeo, scenario di un prepotente intervento di
fronte ad una sala pressoché deserta, e i continui attacchi pubblici
all’ufficio del Segretario dell’ONU per la Colombia, “reo” di aver criticato la
sua amministrazione per via dell’ininterrotta violazione dei diritti umani.
Inoltre, non va dimenticata una delle colonne vertebrali della politica
fascista e corporativa di Uribe Vélez: la legalizzazione e lo sdoganamento dei
gruppi paramilitari, responsabili di indicibili ed infinite mattanze, con i
quali il Governo colombiano ha aperto da alcuni mesi un “processo di pace”
farsa smilitarizzando il municipio di Santa Fe del Ralito (dipartimento di
Córdoba); in proposito, vanno chiarite alcune questioni sulle quali la stampa
internazionale ha seminato non poche menzogne e cortine fumogene. In prima
battuta, è bene sottolineare che i gruppi paramilitari non sono nati, come
l’oligarchia cerca di far credere, quali risposta “agli abusi ed alle violenze
del movimento guerrigliero”; i paras
esistevano già negli anni ’50, quando queste bande di assassini (chiamati pajaros o chulavitas) vennero implementate sulla scia della dottrina della
“Sicurezza Nazionale” e del “nemico interno”, esportata dagli USA in tutta
l’America Latina. Da sempre organizzati, diretti e controllati dalla Forze
Armate ufficiali, sono stati al contempo una politica ed uno strumento del
terrorismo di Stato contro la popolazione civile, soprattutto in quelle aree in
cui l’imposizione di megaprogetti e grandi interessi economici dell’oligarchia
latifondista e delle multinazionali passava (e passa) per lo sfollamento
forzato delle popolazioni locali. Inoltre, i paramilitari sono stati il
paravento dell’Esercito per quel che concerne la guerra sporca, praticata dallo
Stato contro il movimento democratico e che ha sterminato decine di migliaia di
sindacalisti, dirigenti popolari, leaders contadini, studenteschi ed indigeni,
giornalisti indipendenti e candidati alla presidenza, parlamentari, senatori e
rappresentanti locali dell’opposizione sociale e politica al regime bipartitico
di liberali e conservatori.
Come documentato ampiamente da Joseph Contreras, giornalista del News Week,
Uribe Vélez, negli anni in cui fu governatore del dipartimento di Antioquia,
promosse la legalizzazione dei gruppi paramilitari organizzati in “cooperative”
di sicurezza privata, le “Convivir”,
sancita da una legge ad hoc.
Di conseguenza, il “processo di pace” del Ralito non è un dialogo bensì un
monologo, un assolo di due corde dello stesso mandolino che strimpella da
decenni la colonna sonora del circo politicante colombiano. Un circo in cui i
domatori di Washington, gli acrobati delle grandi confederazioni economiche, i
giocolieri dei media di regime ed i clown del Congresso hanno tutto l’interesse
ad inglobare ufficialmente nelle Forze Armate i paramilitari “smobilitati”,
processando alcuni dei loro capi per il delitto di narcotraffico (onde
evitargli i capi d’imputazione legati ai crimini di guerra e di lesa umanità),
in modo da dare un contentino agli osservatori ed alla comunità internazionali,
salvo poi ricollocare sull’altare dell’ingiustizia cronica l’impunità totale di
questi assassini mediante la legge di “alternatividad
penal”, che garantirebbe la riconversione delle pene in non meglio
definiti “affidamenti sociali”.
Descritta la cornice di questa abominevole operazione uribista, naturalmente
appoggiata dagli USA, accompagnata dall’Organizzazione degli Stati Americani ed
addirittura finanziata dalla Svezia, non resta che svelarne la tela: il
riciclaggio legalizzato, da parte dello Stato e dell’oligarchia colombiani, dei
milioni di ettari -usurpati ai contadini a ferro e fuoco dai paras- e dei narcocapitali accumulati
in tutti questi anni di lutto e distruzione.
Di fronte all’oggettivo allontanarsi dell’orizzonte della soluzione politica al
grave conflitto sociale ed armato colombiano, impossibile senza la rimozione
strutturale delle cause che l’hanno storicamente, socialmente, politicamente ed
economicamente generato, la conquista di una vera pace con giustizia sociale
per il popolo colombiano passa per una sola strada: la costruzione di un
governo realmente democratico e pluralista, che difenda la già vessata
sovranità nazionale e che rappresenti e promuova i diritti delle maggioranze.
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