www.resistenze.org - popoli resistenti - congo - 03-12-06

Elezioni presidenziali in Congo: vittoria di Kabila, sconfitta dei “signori della guerra”.
 
Sergio Ricaldone
 
Quella che oggi si chiama Repubblica Democratica del Congo è il paese dell’Africa dove l’imperialismo euroamericano ha potuto compiere, a telecamere spente e nella totale indifferenza mediatica, una gigantesca operazione di rapina a mano armata occultata da una omertà strappata con la corruzione e le minacce, utilizzando mezzi non dissimili da quelli di Hitler verso i “popoli inferiori” e le “razze non ariane”.  Molte delle 20 mila foto scattate nelle miniere dello Shaba (ex Katanga) giacenti nell’archivio di Lubumbashi, sono simili a quelle scattate ad Auschwitz.  Perciò per capire il significato delle recenti elezioni politiche generali in Congo dalle quali è uscito vincitore Joseph Kabila, è bene tenere conto della immane tragedia che ha vissuto il suo popolo in questi ultimi 10 anni e della estrema arretratezza in cui il Paese è stato deliberatamente tenuto da un secolo di dominazione coloniale imperialista.
 
Secondo per grandezza dopo il Sudan, la RDC è grande 8 volte l’Italia con una popolazione di poco più di 50 milioni di abitanti, di cui 8 milioni concentrati nella sola capitale Kinshasa.  Tagliato in due dall’equatore il suo asse centrale (e vitale) è il grande fiume Congo che si snoda per 4360 km. attraverso una delle più sterminate giungle pluviali del pianeta dove tutto è gigantesco: piante monumentali di legno pregiato, farfalle poderose, grosse sanguisughe, alti termitai e animali di ogni specie, dai grossi elefanti ai velenosissimi cobra.  Benché enorme la RDC dispone di soli 1700 km. di strade asfaltate, per lo più dissestate e divorate dalla foresta onnivora.  Il resto sono piste e sentieri fangosi, erosi dalle piogge e spesso impraticabili. In questo intricato oceano verde vivono milioni di contadini disseminati in piccoli villaggi raggiungibili con lunghi viaggi fluviali che ricordano le fatiche degli esploratori ottocenteschi descritti da Conrad.  Con parte del paese privo di energia elettrica, non esistono, fuori dai grandi centri urbani, altri mezzi importanti di comunicazione di massa all’infuori delle radioline.  Non a caso tra il primo turno elettorale e il ballottaggio sono occorsi più di tre mesi di tempo per far arrivare agli elettori un minimo di informazione.
 
La capitale Kinshasa è diventata invece una tipica megalopoli africana, con otto milioni di abitanti.  Tagliata in due dal Boulevard 30 Juin, una lunga trincea d’asfalto scavata tra grattacieli anneriti dallo smog, dove il traffico sfreccia su otto corsie e gli scappamenti vomitano nuvole inquinanti di fumo nero, la città è perennemente avvolta dalla umida foschia del clima tropicale. Nel chiasso assordante di City Center ciò che colpisce, e provoca qualche brivido, è il continuo, lamentoso, refrain musicale di molte orchestrine che ascolti un po in tutta l’Africa: “Fratelli e sorelle che portate il virus non contagiate gli altri”.  Scandito dai ritmi dei tamburi ti ricorda che l’AIDS – declinato nella sua pronuncia francofona, SIDA – si somma, in versione Apocalipse Now alle sacre profezie di San Giovanni nel Nuovo Testamento – guerre, carestie, fame, pestilenze – che nel giro di un decennio hanno provocato l’agghiacciante bilancio di 4 milioni di vittime.
 
Ma il Congo è anche il risultato bizzarro di una lotteria geologica provocata dagli spostamenti delle placche continentali e da pressioni sismiche immani che in miliardi di anni hanno distribuito a loro esclusivo capriccio le grandi ricchezze naturali del pianeta accumulando nel suo sottosuolo ricchezze minerarie immense, uniche al mondo per densità e quantità, che hanno trasformato il Congo in uno scandaloso forziere a cielo aperto. Diventando perciò una autentica maledizione da quando il civilizzato Occidente capitalistico ha posato gli occhi su questo ricchissimo bottino.
 
In un tale contesto l’essere riusciti, per la prima volta nella storia del Congo, ad indire elezioni politiche giudicate democratiche dagli osservatori della forza di pace dell’ONU (Monuc) e da quelli (con un pò di puzza al naso) dell’Unione Europea, è di per sé un evento di portata storica. Le cifre finali di questa consultazione non sono affatto banali: 16.256.000 votanti pari al 65,56% degli aventi diritto.  Nella capitale, Kinshasa, su un totale di 8 milioni di abitanti, solo 2 milioni, dei 2.900.000 che si sono iscritti, ha votato, il che vuol dire che anche nelle province più lontane c’è stata una grande partecipazione.
 
Già in testa al primo turno, Joseph Kabila è stato eletto presidente al ballottaggio del 29 ottobre col 58,05% dei voti contro il 41,95% del suo avversario Jean Pierre Bemba.  Determinante il sostegno del partito lumumbista (PALU) di Antoine Gizenga, erede e continuatore del suo fondatore Patrice Lumumba, il cui partito aveva ottenuto al primo turno il 20% dei voti.  Il valore politico di questo risultato raddoppia se lo sguardo si posa sul vincitore di questa sfida e sull’insieme delle forze politiche che lo hanno sostenuto, contro il suo sfidante al ballottaggio, Jean Pierre Bemba.  Più che contro un avversario Kabila ha dovuto battersi contro un implacabile nemico, feroce “signore della guerra”, sostenuto dagli invasori, e autore delle carneficine che hanno insanguinato per anni la regione orientale dei Grandi Laghi.. Tiranno senza scrupoli, Bemba ha compiuto in extremis due tentativi, entrambi falliti, per invalidare le elezioni: il primo è stato un mini golpe a mano armata compiuto il 22/23 agosto a Kinshasa, il secondo contestando “per vie legali” il cristallino risultato avallato dagli osservatori internazionali. Non è detto che non ci riprovi.  Mentre stiamo scrivendo queste note giungono dal blog di Colette Braeckman notizie allarmanti dalla città di Goma – all’est del Paese – dove bande di killers al soldo di Bemba hanno ricominciato a sparare anche sui caschi blu della Monuc.
 
Pare tuttavia che dopo i limpidi risultati di queste elezioni ci siano le condizioni e i rapporti di forza per far uscire la RDC dall’abisso infernale in cui è precipitata fin dai lontani tempi dell’assassinio di Patrice Lumumba.  Rimasto per tre decenni sotto la dittatura di Mobutu, oscena marionetta portata al potere dai complotti incrociati delle multinazionali e dei servizi segreti di Washington e Bruxelles, il Congo è stato liberato nel 1997, dopo lunghi anni di guerriglia che ha visto coinvolto lo stesso Che Guevara, dal movimento di liberazione guidato da Laurent Desirèe Kabila , padre dell’attuale presidente.  Liberazione subito vanificata dalle invasioni militari congiunte di Ruanda e Uganda i cui governi si sono resi disponibili, con l’assistenza militare di Israele, a compiere il lavoro sporco delle multinazionali minerarie, soprattutto americane, ansiose di mettere le mani sui tesori del sottosuolo del Kivu, la ricchissima regione dei Grandi Laghi, che Kabila senior intendeva sottrarre allo sfruttamento neo coloniale.  Conclusasi, con il suo assassinio, la breve stagione della liberazione, è iniziata quella che è stata definita la “terza guerra mondiale africana” il cui tragico bilancio è stato contabilizzato dall’ONU in 4 milioni di morti.
 
Sono stati anni di sofferenze atroci durante i quali il gaulaiter delle regioni dell’est, Jean Pierre Bemba, messo al potere dagli invasori ruandesi, ha fatto di tutto per conquistare militarmente il Congo.  Poi, viste le difficoltà, ha tentato di balcanizzarlo alimentando sanguinosi conflitti etnici e tribali, scatenando le sue truppe in una guerra di sterminio contro le varie forme di resistenza popolare esplose nelle città e nelle campagne delle regioni occupate.
 
Nominato presidente alla morte del padre, Kabila junior ha dovuto far fronte alle molteplici emergenze, soprattutto umanitarie, in un paese stremato dalla guerra, dalla fame e dalle epidemie, con strutture statali decomposte e corrotte.  Una eredità tremenda che il giovane leader ha dovuto sobbarcarsi totalmente.  Ci siamo chiesti all’epoca, con un certo scetticismo, chi fosse e quali idee avesse in testa questo giovane soldato che, nel 2001, si è visto proiettato, da un giorno all’altro e in virtù del suo cognome, sulla poltrona presidenziale a gestire un paese che ha prodotto alcuni dei più prestigiosi leaders delle lotte di liberazione africane: Patrice Lumumba, Pierre Mulele, L.D. Kabila.  Lo abbiamo seguito con molto interesse in questi 5 anni di apocalittica transizione, vissuta pericolosamente, alla ricerca di una soluzione in grado di ricomporre i vari pezzi del puzzle congolese: la pace inanzitutto, la liberazione delle regioni occupate, il superamento delle divisioni etniche e delle spinte secessioniste, il controllo delle ricchezze naturali, la formazione di una alleanza politica delle forze nazionali, progressiste e antimperialiste, la ricostruzione delle strutture statali inquinate dalla corruzione dilagante.  Dal primo cessate il fuoco concordato a Lusaka nel 1999 è stato un susseguirsi di tentati accordi, poi di rotture e di ripresa della guerra.  Un interminabile “stop and go” conclusosi finalmente con l’accordo di pace di Sun City, nel 2003, con la paziente assistenza diplomatica del Sudafrica e di altri paesi dell’Africa australe.  Il compromesso raggiunto non è stato sicuramente dei migliori, ma per evitare ulteriori spargimenti di sangue Joseph Kabila ha dovuto accettare per il periodo di transizione di un Congo riunificato, di essere circondato da quattro vice presidenti tra cui Jean Pierre Bemba e Aziarias Ruberwa, principali “signori della guerra” e fautori della sua distruzione.  E’ uno dei tanti paradossi che hanno segnato la complicata storia delle indipendenze africane.  Ma solo così si poteva sperare di arrivare alle prime vere elezioni politiche democratiche.
 
Ora che i risultati sono definitivi e riconosciuti comincia ad apparire il profilo della nuova leadership politica che guiderà la RDC nei prossimi anni.  Insieme al partito nazionalista del presidente Kabila, il PPRD (Partito del popolo per la ricostruzione e la democrazia), ci sarà il partito lumumbista, più connotato a sinistra, di Antoine Gizenga, già indicato come capo del nuovo governo.  Ricompaiono nel nuovo staff presidenziale alcune figure storiche della lotta antimperialista: She Okitundu, già assistente di Kabila senior e lumumbista di antica data, Sadefroid Chamlesso rientrato dall’esilio cubano.  In posizioni di grande rilievo, ai vertici dello stato maggiore delle ricostruite Forze Armate Congolesi, sono stati piazzati i protagonisti della resistenza popolare contro gli invasori, primo fra tutti il generale Padiri Bulenda arrivato a Kinshasa dopo un lungo periodo di vittorioso “maquis” nelle foreste del Kivu alla testa dell’indomabile etnia Mai Mai che ha saputo infliggere cocenti sconfitte militari agli invasori ruandesi.
 
Il programma politico del neo presidente eletto è stato illustrato dallo stesso Kabila in una lunga conversazione con Colette Braeckman del quotidiano Le Soir di Bruxelles, il 16 novembre scorso.  Il modello di sviluppo guardato con maggiore attenzione è quello cinese: “Con il potenziale di risorse naturali di cui dispone la RDC possiamo aspirare a diventare, per l’Africa, la Cina di domani”.  Le priorità più urgenti sono state riassunte in quattro punti essenziali: la ricostruzione delle infrastrutture stradali e ferroviarie per ripristinare la circolazione delle persone, del personale sanitario, delle merci e degli scambi tra città e campagne; la creazione di posti di lavoro, particolarmente nel settore industriale e informatico nel quale oggi è occupato meno del 5% della popolazione attiva; il rilancio dell’istruzione primaria, secondaria e universitaria; l’avvio a soluzione del grave problema dell’acqua e delle campagne.
 
Il largo consenso elettorale ottenuto da Kabila lo incoraggia a proseguire con maggiore impegno contro la corruzione. E dunque anche l’immagine e i comportamenti del potere centrale devono cambiare: “La transizione mi ha imposto un comportamento arrendevole e compromissorio per evitare che il Paese andasse in frantumi. Ora non più. Possiamo stringere i pugni e mostrare i denti contro i corrotti e i “signori della guerra”. Non abbiamo bisogno di lucide Mercedes da esibire   come simboli del potere centrale ma di robuste Land Rover che ci consentano di mantenere legami profondi con il popolo nei luoghi più lontani del nostro immenso paese”.
 
Sono solo parole per il momento ma fanno sperare che il messaggio di fiducia espressogli da milioni di congolesi che lo hanno votato sia stato percepito in tutto il suo valore.