Gli Stati Uniti contro la Corea del Nord:
un infinito alternarsi di bugie, minacce di guerra, false promesse, finte aperture,
fallimenti negoziali e ricatti ai paesi alleati.
(a cura di S. Ricaldone)
Il testo che segue è la sintesi di interventi recenti di studiosi ed esperti
americani e sudcoreani sulla crisi che contrappone gli Stati Uniti e la Corea
del nord.
La domanda che emerge è la seguente: dopo
tante minacce di invasione cosa impedisce agli Stati Uniti di aggredire la
Corea del nord, paese classificato in primissima posizione nella loro lista
degli “stati canaglia”?
La risposta data più volte dall’entourage del presidente Bush e ripresa da
molti giornali è la seguente: l’Iraq, l’Afghanistan, Haiti e altrove costringono gli Stati Uniti ad una
serie di impegni militari troppo sparpagliati ed onerosi e, dunque, conviene
aspettare e trattare alternando proposte e minacce.
Questa risposta lascia intravedere una difficoltà operativa degli USA ad
intervenire militarmente su più teatri di guerra sebbene si tratti di nemici
militarmente insignificanti se confrontati con la forza soverchiante della
superpotenza.
Nel caso della Corea del nord, alle difficoltà operative, bisogna anche
aggiungere altri ostacoli supplementari che nemmeno l’arroganza del clan di
Bush può permettersi di trascurare.
A differenza dell’Iraq, alle spalle della Corea del Nord incombe l’ombra
protettiva di due giganti, la Cina e la Russia, che non hanno nessuna
intenzione di assecondare le pressioni politiche e militari di Washington.
Ma nemmeno la Corea del sud ed il Giappone sembrano gradire troppo una
pericolosa avventura militare nel loro cortile di casa.
Secondo Gavan Mc Cormack, grande conoscitore della Corea ed autore del libro: “Target North
Korea: Pushing North Korea to the brink of nuclear catastrophe, Nation Books,
NY 2004, c’è ancora una ragione più importante: un pericolo
nordcoreano, reale o inventato che sia, aiuta a giustificare il dominio che gli
Stati Uniti esercitano sul Giappone e la Corea del sud sotto forma di una
massiccia presenza militare e nucleare.
Senza questa minaccia, afferma l’autore, “gli strateghi di Washington dovranno
trovarsi altre ragioni per perpetuare le loro basi in questi due paesi e per la
messa in opera del costosissimo sistema antimissile progettato per questa
regione.”
Esiste però un’altra faccia della medaglia che non va trascurata.
Secondo Mc Cormack la violenta campagna di odio condotta apertamente dal
presidente Bush e la conseguente minaccia militare americana, se da una lato
mantiene isolata la Corea del nord, permette al governo nordcoreano di kim Jong II di mantenere alto
il livello di mobilitazione ed il sentimento nazional-patriottico molto diffuso
tra i nordcoreani, uno dei pochi popoli al mondo che, mezzo secolo fa, ha
saputo resistere con successo all’aggressione imperialista della superpotenza.
1. Il bisogno di un nemico, base della politica
americana in Estremo Oriente
Sono anni che Washington aspira a rovesciare, in un modo o in un altro, il regime al potere a Pyongyang
ma, paradossalmente, se questo dovesse succedere, i suoi alleati, Sud Corea e
Giappone, non avrebbero più alcun motivo di restare subalterni agli Stati Uniti
sul piano strategico.
Un indebolimento dell’egemonia americana in Asia Orientale spingerebbe invece a
rafforzare i legami tra i paesi della regione che hanno dato prova, malgrado i
rallentamenti di ritmi precedenti, di un dinamismo economico evidente in grado
di trascinare e di integrare, dopo qualche riforma, anche la Corea del nord.
Che ne sarebbe allora del predominio americano in una area considerata dalla
Casa Bianca un crocevia strategico di importanza planetaria?
Certo, gli strateghi americani dispongono di un “nemico” di scorta in grado di
rimpiazzare la Corea del nord, ma le dimensioni gigantesche di questo “nemico”,
la Cina, sconsigliano qualsiasi replica di una politica basata sulle minacce
militari come quella seguita da Washington contro Pyongyang.
Una tale politica metterebbe ancora più in crisi i rapporti con il Giappone e
la Corea del sud.
Gli Stati Uniti devono comunque continuare ad avere un vero nemico per poter continuare a mantenere la rete di basi militari in Asia orientale e
per giustificare la presenza di quasi centomila soldati, di cui 37 mila in Sud
Corea, ai quali vanno aggiunti altrettanti dipendenti ausiliari di varia
natura.
Per mantenere efficiente questo dispositivo militare e per poterlo modernizzare
senza sosta, specie quello nucleare, Washington non ha altra scelta che quella
di perpetuare il confronto con Pyongyang, quali che siano gli sforzi dei
nordcoreani di dare una svolta positiva ai negoziati in corso, rinunciando ai
programmi di difesa nucleare, motivo ufficiale delle continue pressioni
imperialiste degli Stati Uniti.
2. La
disponibilità al negoziato della Corea del Nord
Per quanto negativa e fuorviante sia l’immagine costruita dai media
occidentali, la Corea del Nord non ha mai, mai! veramente rifiutato di cooperare con gli Stati Uniti ed i loro
alleati.
Essa ha firmato nel 1991 il trattato contro l’impiego delle armi nucleari a
seguito delle promesse fatte dagli USA di ritirare i loro ordigni nucleari
dalla Corea del sud.
Bruce Cuming, esperto americano di politica asiatica dell’Università di
Chicago, ha scritto recentemente che nel giugno 1994 l’amministrazione Clinton,
ben prima di Bush, si era trovata ad un passo dal lanciare un attacco
preventivo contro i reattori nucleari nordcoreani di Yongbyon, a circa 60 km. A
nord della capitale Pyongyang.
Quattro mesi più tardi, grazie all’intervento moderatore dell’ex presidente
Jimmy Carter, i nordcoreani furono convinti di accettare l’accordo “framework”
negoziato con l’amministrazione Clinton.
Secondo questi accordi gli Stati Uniti, ma anche i loro alleati giapponesi e
sudcoreani, avrebbero dovuto finanziare la costruzione di due centrali nucleari
in Corea del Nord per la produzione di energia elettrica. In cambio Pyongyang
avrebbe accettato di smantellare la sua installazione di Yongbyong, obsoleta,
ma dotata di un potenziale militare.
Una di queste due centrali avrebbe dovuto essere operativa già nel 2003.
In realtà nulla è stato costruito poiché l’amministrazione Clinton, confidando
in un crollo del regime nordcoreano, aveva semplicemente ignorato questa parte
dell’accordo.
Nel 1998, Pyongyang aveva autorizzato gli ispettori americani ad ispezionare il
sito di Kumchang sospettato di ospitare
una centrale nucleare clandestina, sospetto rivelatosi in seguito totalmente
falso.
Poco dopo, quale ulteriore prova di infinita pazienza negoziale, i nordcoreani
hanno sospeso il loro programma di missili a lunga gittata fino al 2003
nonostante gli americani abbiano rifiutato di onorare la loro promessa di
proseguire i negoziati.
Dal 2001 i nordcoreani hanno fatto tante altre proposte, incluse quelle di
rilevare o di interrompere altri programmi di riarmo comprendenti, oltre a
quelli nucleari, anche quelli biologici e chimici.
Tutto è stato inutile.
L’amministrazione Bush continua a rifiutare di rispondere positivamente
ed accusa, a torto, Pyongyang di avere violato gli accordi passati.
Cosa chiede in realtà la Corea del Nord?
La normalizzazione dei rapporti con gli USA ed un patto di non aggressione che
ponga fine da un punto di vista formale alla guerra di Corea che, dopo più di
mezzo secolo, continua a reggersi su un fragile armistizio che impedisce a
Pyongyang di normalizzare i legami con i paesi vicini.
La Casa Bianca, invece, continua ad alzare il livello delle sue pretese ed oggi
chiede, oltre alla cessazione dei programmi nucleari militari, anche di quelli
per usi civili.
Una sorta di resa incondizionata che la Corea del Nord, ovviamente, non può
accettare e che ha portato in un vicolo cieco
i negoziati iniziati a Pechino con la partecipazione di altri quattro
paesi: Cina, Russia, Giappone e Corea del Sud.
3. Cresce
l’ostilità antiamericana in Corea del Sud
L’accresciuta aggressività di Washington è vissuta con crescente preoccupazione
dalla Corea del Sud.
Uno studio recente della Rand Corporation, del marzo 2004, rileva che “la
maggioranza dei sudcoreani condividono l’idea che gli stati Uniti non abbiano
alcun rispetto per il loro paese”.
Il sentimento antiamericano è profondamente diffuso tra i giovani.
David Scolfield, dell’Università Kyung-hee di Seul, ha scritto che attualmente
“la maggioranza dei sudcoreani considera il presidente Bush – e non il leader
nordcoreano Kim Jong II – come il più grande pericolo contro la sicurezza e la
pace della penisola”.
Cresce in continuazione il numero dei sudcoreani che aspirano a relazioni
normali con i compatrioti del nord.
Continuano a svilupparsi i legami tra le due Coree soprattutto nel settore dei
trasporti e del turismo.
Molte famiglie, separate fin dalla guerra imposta negli anni ’50 dall’allora
presidente Truman, hanno potuto ricongiungersi.
Nonostante l’ostilità degli Stati Uniti, in particolare quella di Bush, la
politica di riconciliazione delle due Coree, definita poeticamente dal vecchio
leader sudcoreano Kim Dae-iung “sunshine policy” (politica del sole
splendente), continua a fare progressi, specie nel campo degli investimenti.
E’ ovvio che questa evoluzione positiva
dei rapporti tra le due Coree esige che Washington cessi di soffiare sul fuoco.
Per Seul, che sta attraversando un periodo non facile dal punto di vista
economico e politico, l’obiettivo della riunificazione offre grandi opportunità
di ripresa e di sviluppo del suo potenziale industriale, ma richiede una
stabilità politica ed una unità di intenti che il paese non ha.
I principali partiti politici sudcoreani sono considerati corrotti e poco
rappresentativi.
Nel marzo 2004 hanno complottato per destituire il presidente eletto Noh
Moo-hyun.
Secondo i nordcoreani si è trattato di
un tentativo di golpe pilotato dagli americani.
Si tratta ovviamente solo di voci raccolte, ma quel che è assodato è che
Washington non ha mai apprezzato l’indipendenza politica avviata dal leader
sudcoreano Kim Dae-jung, poi confermata dal suo successore Noh. Indipendenza
perseguita nei confronti degli Stati Uniti, ma contestuale ad una
intensificazione dei rapporti con il nord.
Una politica, questa di Noh, che sembra beneficiare di un sostegno sempre più
vasto tra la popolazione del Sud.
4.
Crescono le aperture politiche ed economiche tra le due Coree
La crisi scoppiata dopo la destituzione di Noh moo-hyun è causata da problemi
economici, dall’indebitamento crescente delle famiglie e dall’incertezza nel
futuro.
La Banca centrale di Corea avverte che il rallentamento economico ed il tasso
di disoccupazione potrebbero aggravarsi.
Secondo la Banca centrale la crescita sudcoreana per i prossimi anni subirà un calo dal 2 al 3% a
causa della enorme bolla del debito che frena i consumi interni ed impedisce la
ripresa.
I capitalisti investono molto meno rispetto al passato malgrado la
disponibilità di denaro liquido e dei tassi di interesse minimi.
Si tratta di un netto rovesciamento di tendenza rispetto ai pronostici
ottimisti del governo e degli istituti di ricerca.
Dopo aver sostenuto per 25 anni un tasso annuo di crescita del 7%, nel 2003
esso è caduto al 2,5%. Una doccia
fredda alla quale la classe dirigente non sa dare una spiegazione convincente.
Prima della sua destituzione il presidente
Noh aveva promesso ai sudcoreani che il PIL avrebbe raggiunto nei
prossimi 10 anni i 20 mila dollari pro-capite, cioè il livello di paesi come
gli USA, il Giappone, la Germania, la Francia.
Per il momento il reddito nazionale pro-capite non supera i 10 mila dollari
dopo essere pesantemente caduto durante la crisi asiatica del 1997/1998.
Sebbene molti lavoratori sudcoreani, inquadrati da sindacati molto combattivi,
abbiano raggiunto condizioni di lavoro e di reddito di poco inferiore a quello
dei paesi ricchi, la grande maggioranza non organizzata, occupata in piccole
imprese, presenta un livello di vita assai vicino a quello dei paesi poveri.
Tra questi rientrano gli immigrati da altri paesi dell’Asia, ma soprattutto i
tantissimi giovani costretti al lavoro precario.
Tante sono le ragioni che spiegano la crescita del malcontento popolare e la
crescente ostilità contro la presenza militare americana nel paese, percepita
sempre meno come scudo protettivo e sempre più come forza occupante.
Va ricordato che all’epoca della guerra di Corea, agli inizi degli anni ‘50, le
forze americane, sventolando la bandiera dell’ONU, invasero la penisola coreana
per impedire che una alleanza guidata dai comunisti salisse al potere. Per impedirlo si è imposta la divisione in
due del paese e non si è esitato, da parte americana, ad attaccare e bombardare
il nord seminando la devastazione e la
morte.
Secondo il prof. Noh Jong-sun, dell’Università Yonsei di Seul, circa due
milioni di coreani, la maggior parte al nord, furono uccisi in quella guerra.
I loro fantasmi sono sempre presenti nell’immaginario collettivo.
Solo una normalizzazione pacifica dei rapporti nord-sud e l’avvio di un
processo di riunificazione potrebbe farli dissolvere.
Ma è appunto quello che la superpotenza americana teme di più e cerca in tutti
i modi di impedirlo.