www.resistenze.org - popoli resistenti - corea del nord - 22-05-04

Gli Stati Uniti contro la Corea del Nord:

un infinito alternarsi di bugie, minacce di  guerra, false promesse, finte aperture, fallimenti negoziali e ricatti ai paesi alleati.

(a cura di S. Ricaldone)


Il testo che segue è la sintesi di interventi recenti di studiosi ed esperti americani e sudcoreani sulla crisi che contrappone gli Stati Uniti e la Corea del nord.

La domanda che emerge è la seguente: dopo tante minacce di invasione cosa impedisce agli Stati Uniti di aggredire la Corea del nord, paese classificato in primissima posizione nella loro lista degli “stati canaglia”?

La risposta data più volte dall’entourage del presidente Bush e ripresa da molti giornali è la seguente: l’Iraq, l’Afghanistan, Haiti  e altrove costringono gli Stati Uniti ad una serie di impegni militari troppo sparpagliati ed onerosi e, dunque, conviene aspettare e trattare alternando proposte e minacce.

Questa risposta lascia intravedere una difficoltà operativa degli USA ad intervenire militarmente su più teatri di guerra sebbene si tratti di nemici militarmente insignificanti se confrontati con la forza soverchiante della superpotenza.

Nel caso della Corea del nord, alle difficoltà operative, bisogna anche aggiungere altri ostacoli supplementari che nemmeno l’arroganza del clan di Bush può permettersi di trascurare.
A differenza dell’Iraq, alle spalle della Corea del Nord incombe l’ombra protettiva di due giganti, la Cina e la Russia, che non hanno nessuna intenzione di assecondare le pressioni politiche e militari di Washington.
Ma nemmeno la Corea del sud ed il Giappone sembrano gradire troppo una pericolosa avventura militare nel loro cortile di casa.

Secondo Gavan Mc Cormack, grande conoscitore della Corea ed autore del libro: “Target North Korea: Pushing North Korea to the brink of nuclear catastrophe, Nation Books, NY 2004, c’è ancora una ragione più importante: un pericolo nordcoreano, reale o inventato che sia, aiuta a giustificare il dominio che gli Stati Uniti esercitano sul Giappone e la Corea del sud sotto forma di una massiccia presenza militare e nucleare.
Senza questa minaccia, afferma l’autore, “gli strateghi di Washington dovranno trovarsi altre ragioni per perpetuare le loro basi in questi due paesi e per la messa in opera del costosissimo sistema antimissile progettato per questa regione.”

Esiste però un’altra faccia della medaglia che non va trascurata.

Secondo Mc Cormack la violenta campagna di odio condotta apertamente dal presidente Bush e la conseguente minaccia militare americana, se da una lato mantiene isolata la Corea del nord, permette al governo  nordcoreano di kim Jong II di mantenere alto il livello di mobilitazione ed il sentimento nazional-patriottico molto diffuso tra i nordcoreani, uno dei pochi popoli al mondo che, mezzo secolo fa, ha saputo resistere con successo all’aggressione imperialista della superpotenza.


1.  Il bisogno di un nemico, base della politica americana in Estremo Oriente

Sono anni che Washington aspira a rovesciare, in un modo  o in un altro, il regime al potere a Pyongyang ma, paradossalmente, se questo dovesse succedere, i suoi alleati, Sud Corea e Giappone, non avrebbero più alcun motivo di restare subalterni agli Stati Uniti sul piano strategico.
Un indebolimento dell’egemonia americana in Asia Orientale spingerebbe invece a rafforzare i legami tra i paesi della regione che hanno dato prova, malgrado i rallentamenti di ritmi precedenti, di un dinamismo economico evidente in grado di trascinare e di integrare, dopo qualche riforma, anche la Corea del nord.
Che ne sarebbe allora del predominio americano in una area considerata dalla Casa Bianca un crocevia strategico di importanza planetaria?
Certo, gli strateghi americani dispongono di un “nemico” di scorta in grado di rimpiazzare la Corea del nord, ma le dimensioni gigantesche di questo “nemico”, la Cina, sconsigliano qualsiasi replica di una politica basata sulle minacce militari come quella seguita da Washington contro Pyongyang.
Una tale politica metterebbe ancora più in crisi i rapporti con il Giappone e la Corea del  sud.

Gli Stati Uniti devono comunque continuare ad avere  un vero nemico per poter continuare a mantenere  la rete di basi militari in Asia orientale e per giustificare la presenza di quasi centomila soldati, di cui 37 mila in Sud Corea, ai quali vanno aggiunti altrettanti dipendenti ausiliari di varia natura.
Per mantenere efficiente questo dispositivo militare e per poterlo modernizzare senza sosta, specie quello nucleare, Washington non ha altra scelta che quella di perpetuare il confronto con Pyongyang, quali che siano gli sforzi dei nordcoreani di dare una svolta positiva ai negoziati in corso, rinunciando ai programmi di difesa nucleare, motivo ufficiale delle continue pressioni imperialiste degli Stati Uniti.


2. La disponibilità al negoziato della Corea del Nord

Per quanto negativa e fuorviante sia l’immagine costruita dai media occidentali, la Corea del Nord non ha mai, mai!  veramente rifiutato di cooperare con gli Stati Uniti ed i loro alleati.

Essa ha firmato nel 1991 il trattato contro l’impiego delle armi nucleari a seguito delle promesse fatte dagli USA di ritirare i loro ordigni nucleari dalla Corea del sud.
Bruce Cuming, esperto americano di politica asiatica dell’Università di Chicago, ha scritto recentemente che nel giugno 1994 l’amministrazione Clinton, ben prima di Bush, si era trovata ad un passo dal lanciare un attacco preventivo contro i reattori nucleari nordcoreani di Yongbyon, a circa 60 km. A nord della capitale Pyongyang.

Quattro mesi più tardi, grazie all’intervento moderatore dell’ex presidente Jimmy Carter, i nordcoreani furono convinti di accettare l’accordo “framework” negoziato con l’amministrazione Clinton.
Secondo questi accordi gli Stati Uniti, ma anche i loro alleati giapponesi e sudcoreani, avrebbero dovuto finanziare la costruzione di due centrali nucleari in Corea del Nord per la produzione di energia elettrica. In cambio Pyongyang avrebbe accettato di smantellare la sua installazione di Yongbyong, obsoleta, ma dotata di un potenziale militare.

Una di queste due centrali avrebbe dovuto essere operativa già nel 2003.
In realtà nulla è stato costruito poiché l’amministrazione Clinton, confidando in un crollo del regime nordcoreano, aveva semplicemente ignorato questa parte dell’accordo.

Nel 1998, Pyongyang aveva autorizzato gli ispettori americani ad ispezionare il sito di Kumchang  sospettato di ospitare una centrale nucleare clandestina, sospetto rivelatosi in seguito totalmente falso.

Poco dopo, quale ulteriore prova di infinita pazienza negoziale, i nordcoreani hanno sospeso il loro programma di missili a lunga gittata fino al 2003 nonostante gli americani abbiano rifiutato di onorare la loro promessa di proseguire i negoziati.
Dal 2001 i nordcoreani hanno fatto tante altre proposte, incluse quelle di rilevare o di interrompere altri programmi di riarmo comprendenti, oltre a quelli nucleari, anche quelli biologici e chimici.

Tutto è stato inutile.  L’amministrazione Bush continua a rifiutare di rispondere positivamente ed accusa, a torto, Pyongyang di avere violato gli accordi passati.

Cosa chiede in realtà la Corea del Nord?

La normalizzazione dei rapporti con gli USA ed un patto di non aggressione che ponga fine da un punto di vista formale alla guerra di Corea che, dopo più di mezzo secolo, continua a reggersi su un fragile armistizio che impedisce a Pyongyang di normalizzare i legami con i paesi vicini.

La Casa Bianca, invece, continua ad alzare il livello delle sue pretese ed oggi chiede, oltre alla cessazione dei programmi nucleari militari, anche di quelli per usi civili.
Una sorta di resa incondizionata che la Corea del Nord, ovviamente, non può accettare e che ha portato in un vicolo cieco  i negoziati iniziati a Pechino con la partecipazione di altri quattro paesi: Cina, Russia, Giappone e Corea del Sud.


3. Cresce l’ostilità antiamericana in Corea del Sud

L’accresciuta aggressività di Washington è vissuta con crescente preoccupazione dalla Corea del Sud.
Uno studio recente della Rand Corporation, del marzo 2004, rileva che “la maggioranza dei sudcoreani condividono l’idea che gli stati Uniti non abbiano alcun rispetto per il loro paese”.
Il sentimento antiamericano è profondamente diffuso tra i  giovani.
David Scolfield, dell’Università Kyung-hee di Seul, ha scritto che attualmente “la maggioranza dei sudcoreani considera il presidente Bush – e non il leader nordcoreano Kim Jong II – come il più grande pericolo contro la sicurezza e la pace della penisola”.

Cresce in continuazione il numero dei sudcoreani che aspirano a relazioni normali con i compatrioti del nord.
Continuano a svilupparsi i legami tra le due Coree soprattutto nel settore dei trasporti e del turismo.
Molte famiglie, separate fin dalla guerra imposta negli anni ’50 dall’allora presidente Truman, hanno potuto ricongiungersi.
Nonostante l’ostilità degli Stati Uniti, in particolare quella di Bush, la politica di riconciliazione delle due Coree, definita poeticamente dal vecchio leader sudcoreano Kim Dae-iung “sunshine policy” (politica del sole splendente), continua a fare progressi, specie nel campo degli investimenti.
E’ ovvio che  questa evoluzione positiva dei rapporti tra le due Coree esige che Washington cessi di soffiare sul fuoco.

Per Seul, che sta attraversando un periodo non facile dal punto di vista economico e politico, l’obiettivo della riunificazione offre grandi opportunità di ripresa e di sviluppo del suo potenziale industriale, ma richiede una stabilità politica ed una unità di intenti che il paese non ha.

I principali partiti politici sudcoreani sono considerati corrotti e poco rappresentativi.
Nel marzo 2004 hanno complottato per destituire il presidente eletto Noh Moo-hyun.
Secondo i nordcoreani  si è trattato di un tentativo di golpe pilotato dagli americani.

Si tratta ovviamente solo di voci raccolte, ma quel che è assodato è che Washington non ha mai apprezzato l’indipendenza politica avviata dal leader sudcoreano Kim Dae-jung, poi confermata dal suo successore Noh. Indipendenza perseguita nei confronti degli Stati Uniti, ma contestuale ad una intensificazione dei rapporti con il nord.
Una politica, questa di Noh, che sembra beneficiare di un sostegno sempre più vasto tra la popolazione del Sud.


4. Crescono le aperture politiche ed economiche tra le due Coree

La crisi scoppiata dopo la destituzione di Noh moo-hyun è causata da problemi economici, dall’indebitamento crescente delle famiglie e dall’incertezza nel futuro.
La Banca centrale di Corea avverte che il rallentamento economico ed il tasso di disoccupazione potrebbero aggravarsi.
Secondo la Banca centrale la crescita sudcoreana per i  prossimi anni subirà un calo dal 2 al 3% a causa della enorme bolla del debito che frena i consumi interni ed impedisce la ripresa.
I capitalisti investono molto meno rispetto al passato malgrado la disponibilità di denaro liquido e dei tassi di interesse minimi.
Si tratta di un netto rovesciamento di tendenza rispetto ai pronostici ottimisti del governo e degli istituti di ricerca.
Dopo aver sostenuto per 25 anni un tasso annuo di crescita del 7%, nel 2003 esso è caduto al 2,5%.   Una doccia fredda alla quale la classe dirigente non sa dare una spiegazione convincente.

Prima della sua destituzione il presidente  Noh aveva promesso ai sudcoreani che il PIL avrebbe raggiunto nei prossimi 10 anni i 20 mila dollari pro-capite, cioè il livello di paesi come gli USA, il Giappone, la Germania, la Francia.
Per il momento il reddito nazionale pro-capite non supera i 10 mila dollari dopo essere pesantemente caduto durante la crisi asiatica del 1997/1998.

Sebbene molti lavoratori sudcoreani, inquadrati da sindacati molto combattivi, abbiano raggiunto condizioni di lavoro e di reddito di poco inferiore a quello dei paesi ricchi, la grande maggioranza non organizzata, occupata in piccole imprese, presenta un livello di vita assai vicino a quello dei paesi poveri.
Tra questi rientrano gli immigrati da altri paesi dell’Asia, ma soprattutto i tantissimi giovani costretti al lavoro precario.
Tante sono le ragioni che spiegano la crescita del malcontento popolare e la crescente ostilità contro la presenza militare americana nel paese, percepita sempre meno come scudo protettivo e sempre più come forza occupante.

Va ricordato che all’epoca della guerra di Corea, agli inizi degli anni ‘50, le forze americane, sventolando la bandiera dell’ONU, invasero la penisola coreana per impedire che una alleanza guidata dai comunisti salisse al potere.  Per impedirlo si è imposta la divisione in due del paese e non si è esitato, da parte americana, ad attaccare e bombardare il nord  seminando la devastazione e la morte.
Secondo il prof. Noh Jong-sun, dell’Università Yonsei di Seul, circa due milioni di coreani, la maggior parte al nord, furono uccisi in quella guerra.
I loro fantasmi sono sempre presenti nell’immaginario collettivo.
Solo una normalizzazione pacifica dei rapporti nord-sud e l’avvio di un processo di riunificazione potrebbe farli dissolvere.

Ma è appunto quello che la superpotenza americana teme di più e cerca in tutti i modi di impedirlo.