www.resistenze.org - popoli resistenti - georgia - 18-09-08 - n. 242

da La Rinascita della sinistra, 11/09/08 pag. 9
 
Georgia, “faro di libertà” made in Usa
 
di Manlio Dinucci
 
«Un faro di libertà per questa regione e il mondo»: così il presidente Bush ha definito la Georgia. Che cosa ha fatto questo piccolo paese (circa 4 milioni di abitanti) per meritarsi tale riconoscimento da parte della Casa Bianca? E’ divenuto un avamposto della penetrazione statunitense nell’Asia centrale ex sovietica: area di enorme importanza, sia per le grosse riserve di petrolio e gas naturale del Caspio, sia per la sua posizione geostrategica rispetto a Russia, Cina e India.
 
E’ il petrolio del Caspio che, con i profitti spartiti tra le multinazionali e le élite locali, alimenta il «faro di libertà» della Georgia. Da qui infatti passa l’oleodotto che collega il porto azero di Baku, sul Caspio, al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo: un corridoio energetico, promosso nel 1999 dall’amministrazione Clinton e aperto nel 2005, che aggira la Russia a sud. Esso è controllato da un consorzio con a capo la compagnia anglo-statunitense BP, del quale fa parte anche l’Eni. Per capire quale sia il peso di tale presenza, non solo dal punto di vista economico, basti pensare che il vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney, giunto a Baku il 3 settembre per poi recarsi in Georgia e Ucraina, ha incontrato prima i rappresentanti della BP e della Chevron e solo dopo il presidente dell’Azerbaigian.
 
Contemporaneamente, il «faro di libertà» della Georgia è stato alimentato con la «rivoluzione delle rose» che, pianificata e coordinata da Washington, ha portato nel 2003 al rovesciamento del presidente Eduard Shevardnadze e all’andata al potere di Mikhail Saakashvili. Come ha scritto lo stesso Wall Street Journal (24-11-2003), l’operazione fu condotta da fondazioni statunitensi formalmente non-governative, in realtà finanziate e dirette dal governo Usa, che «allevarono una classe di giovani intellettuali, capaci di parlare inglese, affamati di riforme filo-occidentali». Economicamente e politicamente, la Georgia è quindi controllata dal governo statunitense.
 
Ancora di più lo è sul piano militare. Dal 1997 essa riceve aiuti militari statunitensi. Attraverso il Georgia train and equip program, iniziato nel 2002, il Pentagono ha trasformato le forze armate georgiane in un esercito di fatto al proprio comando. Un contingente di 2mila uomini delle forze speciali georgiane è stato inviato sotto comando Usa a combattere in Iraq e un altro in Afghanistan. Poco prima che l’esercito georgiano attaccasse l’Ossezia del Sud, esso ha partecipato a una esercitazione diretta dal Pentagono, la Immediate response 2008. Durante questa esercitazione, svoltasi in Georgia, 1.000 soldati Usa sono stati dislocati nella base di Vaziani, a meno di 100 km dal territorio russo.
 
Anche Israele ha partecipato all’addestramento dell’esercito georgiano, attraverso compagnie militari «private», e gli ha fornito armi: tra queste, lanciatori multipli Gradlar-160, armati di razzi con bombe a grappolo (le stesse usate massicciamente nella guerra in Libano nel 2006), che il governo georgiano ha ammesso di avere usato nel conflitto con la Russia.
 
Non è quindi credibile che l’attacco all’Ossezia del Sud sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà degli Stati Uniti. E’ stata un’azione chiaramente orchestrata da Washington per mettere ancora una volta la Russia di fronte al fatto compiuto o, in caso di forte reazione russa (come è avvenuto), per aprire una crisi che permetta agli Usa di conquistare posizioni strategiche ancora più a Est.
 
Per tale operazione, sono stati attivati i comandi e le basi statunitensi in Italia. Il Comando delle forze navali Usa in Europa, il cui quartier generale è a Napoli, ha organizzato la spedizione di «aiuti umanitari» in Georgia. Non però con mercantili, come sarebbe logico, ma con navi da guerra: il cacciatorpediniere lanciamissili McFaul, il guardacoste Dallas e la Mount Whitney, la nave ammiraglia della VI Flotta. Questa costituisce la più sofisticata unità navale C4I (controllo, comunicazioni, computer e intelligence) esistente al mondo. Viene usata anche dal comandante della task force congiunta, che da qui dirige tutte le unità ai suoi ordini. Ufficialmente, sempre per l’invio di «aiuti umanitari», sono state attivate anche le basi di Camp Darby e Sigonella.
 
Allo stesso tempo sono entrate nel Mar Nero, il 21 agosto, navi da guerra di Stati Uniti, Germania, Polonia e Spagna, per una esercitazione Nato. Le navi da guerra Usa e Nato presenti nel Mar Nero sono così salite a una decina, ma potrebbero aumentare. Hanno a bordo, tra i vari armamenti, missili da crociera Tomahawk, che possono essere armati di testate sia convenzionali che nucleari. «Per ragioni di sicurezza» la Us Navy non specifica se le navi trasportano armi nucleari. Il gruppo navale, ha dichiarato il vicecomandante della Componente marittima alleata, costituisce «un nucleo fondamentale della Forza di risposta della Nato (Nrf)». Con questa esercitazione, la Nato si sta dunque preparando a un eventuale invio della Nrf nella regione del Caucaso.
 
La stessa Georgia è candidata, insieme all’Ucraina e alla Macedonia, a entrare nella Nato, che continua così la sua espansione verso Est. Il primo allargamento avvenne nel 1999, quando entrarono Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca; il secondo nel 2004, con l’ingresso di Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia. Quindi, nel 2008, il vertice di Bucarest ha deciso l’ingresso di Albania e Croazia. Come se ciò non bastasse, al vertice di Bucarest i paesi della Nato hanno approvato il «dispiegamento di installazioni statunitensi di difesa missilistica basate in Europa», attraverso cui gli Usa cercano di acquisire un ulteriore vantaggio strategico sulla Russia. Questa ha annunciato che prenderà delle contromisure, adottando «metodi adeguati e asimmetrici». E, di fronte al crescente dispiegamento di navi Usa e Nato nel Mar Nero a ridosso del territorio russo, il primo ministro Vladimir Putin ha avvertito che «ci sarà una risposta» da parte della Russia.
 
 L’Europa ritorna così in prima linea in quella che rischia di divenire una nuova guerra fredda, diversa ma non meno pericolosa della precedente. Ma è proprio questo che vogliono a Washington. Ricreare in Europa un clima da guerra fredda è il modo attraverso cui Washington rafforza la leadership e la presenza militare statunitensi nel nostro continente. Ciò che temono a Washington, e cercano in tutti i modi di evitare, è un’Europa che, unendosi e acquistando ulteriore forza economica, possa un giorno rendersi indipendente dalla politica statunitense. Da qui la politica del «divide et impera», che sta riportando l’Europa in un clima da guerra fredda. Tanto a far da scudo in un nuovo confronto con l’Est sono, ancora una volta, gli alleati europei.