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In Haiti, da un mese le mobilitazioni chiedono le dimissioni del presidente e la fine dell'ingerenza internazionale

Eugenia López | avispa.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

17/10/2019

Dal 16 settembre e quasi quotidianamente, avvengono manifestazioni nella capitale di Haiti, Port-au-Prince, così come in altre città dell'interno: sotto lo slogan "lage pye'w" (dimissioni), migliaia di persone chiedono le dimissioni del presidente Jovanel Moïse. In cambio, il presidente haitiano si è rivolto alla popolazione solo in una occasione, il 25 settembre, attraverso un discorso che è stato diffuso alle 2 di mattina.

Crisi

La radice della crisi attuale si trova nella pubblicazione di un rapporto con il quale la Corte dei Conti ha accusato il presidente Moïse di "malversazione di fondi". Il rapporto, di oltre 600 pagine, ha rilevato numerosi casi di gestione irregolare di fondi e di corruzione nel quadro di un programma di sviluppo patrocinato dal Venezuela denominato Petrocaribe.

Tra le altre cose, il rapporto ha esposto che nel 2014 lo Stato firmò due contratti con due compagnie, Agritrans e Betex, per un progetto di riparazione delle strade. Il problema è che entrambe queste imprese, nonostante abbiamo nomi distinti, condividono lo stesso registro fiscale e lo stesso personale tecnico. E risulta che nel 2017, Jovenel Moïse era responsabile di Agritrans e abbia ricevuto più di 33 milioni di gourdes (più di 700.000 dollari al cambio di allora) per il progetto viario.

La crisi è peggiorata con la carenza di combustibile a partire dallo scorso agosto, così come a causa di altri fattori come la disoccupazione, l'inflazione e la crescente insicurezza a Port-au-Prince.

"Oggi l'opposizione è tutta la popolazione: ha fame, non può vivere, i suoi figli non vanno a scuola. Io ho da mangiare, ma non per questo voglio vedere accanto a me persone che non hanno nulla", ha dichiarato il rapper Izolan, originario di Arcahaie, Haiti.

Dall'inizio della ribellione, vengono sollevate frequentemente delle barricate nelle principali arterie stradali e le proteste hanno impedito il funzionamento normale delle scuole, degli ospedali, dei negozi e dell'amministrazione governativa.

Si intensificano le proteste, il governo risponde con la repressione

Alla quinta settimana di mobilitazioni, il malcontento della popolazione ha iniziato a manifestarsi con maggior forza.

Domenica 10 ottobre, due edifici sono stati devastati da incendi vicino al palazzo presidenziale e alla sede della Polizia. Mentre i manifestanti tiravano pietre e molotov verso la polizia, questi rispondevano con gas lacrimogeni, ma anche con armi da fuoco, assassinando diverse persone.

"Non possiamo esser pacifici. Il fatto è che chi amministra il potere ci uccide ogni volta che manifestiamo, ma, dato che non abbiamo denaro sufficiente per mangiare tutti i giorni, muoriamo comunque lentamente. Questo presidente non ha la morale per governarci", ha detto Bernard Camillien, un manifestante di 56 anni, per il giornale tedesco DW.

Secondo i dati ufficiali, almeno sei persone sono state assassinate. Di contro, la Rete Nazionale in Difesa dei Diritti Umani ha parlato di una ventina di morti, così come di 200 feriti a causa della repressione governativa.

Rifiuto dell'ingerenza internazionale

Parte degli scontri violenti hanno avuto luogo quando i e le manifestanti volevano avvicinarsi alla sede locale delle Nazioni Unite (ONU). Oltre a chiedere la rinuncia del presidente, durante le proteste è stata anche denunciata l'influenza straniera nella politica del paese.

La settimana scorsa, il cosiddetto Gruppo Centrale ("Core Group" in inglese, composto da rappresentanti dell'ONU, l'UE e l'Organizzazione degli Stati Americani, così come dalle ambasciate di Germania, Brasile, Canada, Francia, USA e Spagna) ha organizzato varie riunioni con leader di partiti politici, politici di opposizione e consiglieri del presidente per cercare di trovare una soluzione alla crisi.

"Quando manifestano i gilet gialli in Francia, c'è un Gruppo Centrale che viene a parlare con loro? No. Allora, nemmeno gli haitiani lo vogliono. Semplicemente gli diciamo che non vogliamo più questo signor Jovenel Moïse come presidente. Non vogliamo questa ingerenza internazionale: vogliamo che lascino a noi gestire la situazione", ha denunciato Antonin Davilus, di 31 anni.

15 anni di occupazione militare da parte dell'ONU

L'ingerenza internazionale nella vita del paese caraibico non è nuova: non ha cessato da quando Haiti dichiarò la sua indipendenza il 1° gennaio 1984, divenendo la prima repubblica nera del mondo nata da una vittoriosa rivoluzione di schiavi.

Più recentemente, negli ultimi 15 anni, il paese ha vissuto sotto la presenza della Missione delle Nazioni Unite per la Stabilizzazione di Haiti (MINUSTAH), stabilita il 1° giugno del 2014 dalla risoluzione S/RES/1542 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU dopo un golpe che provocò l'esilio del presidente Bertrand Aristide.

Con il terremoto del 12 gennaio 2010, che provocò la morte di oltre 220.000 persone secondo dati del governo di Haiti, l'ONU ha aumentato la presenza della MINUSTAH "con il fine di appoggiare il lavoro immediato per il recupero, la ricostruzione e la stabilità del paese".

Il 15 ottobre del 2017, la MINUSTAH ha cambiato il suo nome in Missione di Appoggio alla Giustizia delle Nazioni Unite in Haiti (MINUJUSTH), divenendo una "Missione di mantenimento della pace".

Per l'attivista e professore universitario haitiano Camille Chalmers, intervistato dall'Agenzia Sovversioni, la presenza dei "caschi blu" dell'ONU non ha nulla a che fare con una missione di pace. Per Chalmers, si tratta invece di una strategia di controllo sia militare, sia politico che ideologico.

Per l'accademico, gli obiettivi proclamati dalla MINUSTAH non sono stati mai compiuti.

"La situazione non è migliorata nel paese, anzi è peggiorata. Ad esempio, per quanto riguarda la questione della sicurezza cittadina, oggi ci sono forme nuove di insicurezza che non esistevano prima della MINUSTAH. L'insicurezza è una questione politica. I momenti di aumento dell'insicurezza corrispondono sempre a momenti di conflitti politici. L'insicurezza inoltre è legata al traffico di droga, con il transito della cocaina dal territorio haitiano verso gli USA. E nonostante tutta l'infrastruttura militare di controllo del territorio esistente: elicotteri, satelliti, tutto questo, il traffico di droga è aumentato dal 2004 da quando è giunta la MINUSTAH. Ed è anche aumentata la presenza di armi illegali nel paese", ha denunciato l'accademico.

Camille Chalmers inoltre spiega che la MINUSTAH ha a che vedere con la nuova dottrina di sicurezza nazionale degli USA che dice che il pericolo adesso sono gli abitanti dei quartieri popolari in zone urbane. "L'obiettivo della MINUSTAH è sempre stato quello della repressione diretta contro i quartieri popolari", afferma.

Di fatto, per Chalmers, la MINUSTAH è stata un laboratorio di sperimentazione del controllo dei quartieri urbani, in particolare per la polizia brasiliana. "I poliziotti e militari brasiliani che hanno servito ad Haiti sono gli stessi che hanno usato per la repressione nelle favelas di Rio de Janeiro e San Paolo. C'è una connessione molto importante dal punto di vista strategico del controllo militare. La presenza della MINUSTAH non deve osservarsi solo ad Haiti, bisogna vederla in un contesto geopolitico globale", ha sostenuto lo studioso.

Finisce la "missione di pace"

Bisogna segnalare che la crisi attuale corrisponde con un momento di cambiamento per il paese caraibico dato che il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha terminato questo martedì 15 ottobre i 15 anni di operazione ad Haiti.

Tuttavia, il ritiro dei "caschi blu" non significa il ritiro dell'ONU da Haiti: la missione militare sarà rimpiazzata con una missione politica con l'installazione dell'Ufficio Integrato delle Nazioni Unite ad Haiti (Binuh).

"In questo difficile contesto, la chiusura della MINUSTAH non significa che le Nazioni Unite abbandonano Haiti. Al contrario, continuerà l'appoggio dell'ONU ad Haiti in altra forma", ha dichiarato il segretario generale aggiunto degli Affari Umanitari dell'ONU, Mark Lowcock.

Haiti, la "Repubblica delle Organizzazioni Non Governative"

Oltre la presenza delle forze armate dell'ONU, dopo il terremoto del 2010, si stima che almeno 10.000 organizzazioni di "aiuto umanitario" sono arrivate nell'isola caraibica. Queste ONG hanno ricevuto donazioni che superano i 9 miliardi di dollari. Si tratta della maggior concentrazione di organizzazioni umanitarie procapite nel pianeta, cosa che è valsa l'appellativo ad Haiti di "repubblica delle ONG".

Anche se queste organizzazioni sono arrivate con l'obiettivo di aiutare il paese, gli effetti della loro presenza sono critici.

Nancy le Roc, giornalista indipendente canadese di origine haitiana, denuncia il grande affare che rappresenta l'aiuto umanitario delle ONG, senza realmente beneficiare la popolazione locale.

"Quando il Disaster Accountability Project degli USA realizzò uno studio sul lavoro delle ONG, l'80% di esse si rifiutarono di dar conto. Si è soliti condannare il governo haitiano, ma solo l'1% dell'aiuto gli fu destinato. Per ogni dollaro canadese donato ad Haiti, solo sei centesimi arrivavano agli haitiani. Qui sta la verità a cui non vogliono rispondere", ha denunciato nel colloquio "Le ONG ad Haiti: tra il bene e il male", organizzato a Montreal.

Da parte sua, la giornalista indipendente haitiana, Marjorie Valburn, spiega che l'aiuto umanitario canalizzato ad Haiti nell'autunno del 2011 illustra bene questo fenomeno: di 1.537 contratti con un valore di oltre 204 milioni di dollari, solo 23 contratti sono stati delegati a imprese haitiane per un totale di quasi 5 milioni di dollari.

Per la giornalista, la presenza delle ONG rappresenta una forma di colonizzazione. "Ad Haiti, si è sviluppato una forma di colonialismo umanitario. Dal 1986, Haiti è il paese che ha ricevuto più aiuto, ma si è impoverito. E vogliono incolpare le vittime! Dall'altro lato, le ONG haitiane non ricevono aiuto, anche se sono quelle che conoscono il paese e le necessità della situazione".

Questa realtà ha come effetto quella di mantenere il paese in una situazione di dipendenza verso l'aiuto internazionale, senza permettere cambiamenti strutturali che migliorino le condizioni di vita della popolazione a lungo termine.

"Non possiamo rifiutare l'aiuto. Lo necessitiamo. Ma necessitiamo anche che gli attori stranieri investano nel capitale più importante che ha il paese: la gente", ha detto l'attivista haitiano Jocelyn McCalla alla BBC.

Crisi sociale, economica e politica

Il fallimento dell'"aiuto" offerto sia dall'ONU come dalle ONG emerge dalla grave crisi sociale e economica che sta vivendo Haiti attualmente.

Secondo i dati dell'ONU, nel 2016 l'isola aveva una popolazione di quasi 11 milioni di abitanti. Di essi, 62.600 sfollati tuttavia vivevano in 36 campi provvisori dal terremoto del 2010, il 60% della popolazione viveva in condizioni di povertà e 25.000 persone erano a rischio colera.

Oggi, è il paese più impoverito del continente americano. L'inflazione supera il 17% e la moneta locale non finisce di svalutarsi.

Di fronte a questo panorama, il malcontento della popolazione continua ad esser più vivo che mai. Nei giorni del 17 e 18 ottobre è stata convocata una "mobilitazione generale delle masse popolari e contadine" per reclamare l'instaurazione di un sistema alternativo che consideri le necessità della maggioranza.


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