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Non è un "cambio di regime" che vogliono gli USA, ma un "cambio di regione"

Storica intervista con Tariq Aziz

"L'embargo si estende anche al dialogo"

Felicity Arbuthnot | globalresearch.ca
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
In occasione della sua morte avvenuta in carcere il 5 giugno scorso all'età di 79 anni

27/06/2015

Pubblicato per la prima volta in Middle East International, 21 maggio 1999

Nota dell'autore: Questa intervista ebbe luogo nel contesto di embargo ONU, sancito sotto l'impulso USA-UK. Furono le sanzioni più draconiane mai imposte su un paese. Durarono nove anni e nove mesi, negando tutto ciò che è essenziale per la sopravvivenza contemporanea.

Tariq Aziz non nasconde la rabbia e la frustrazione quando si parla della situazione del suo paese:

"Questa è una regione di conflitti, sconvolgimenti, rivoluzioni. Ma questa è la prima volta che vengono proclamate sanzioni così rigide ed estese.

"Prima dell'embargo avevamo un alto livello di istruzione gratuita dalla scuola elementare fino all'università e l'assistenza sanitaria gratuita. Ma non si può vivere isolati nel mondo. Le nazioni hanno bisogno del commercio, di vendere e comprare. Vi è stato un netto deterioramento della salute, dei servizi sociali, dell'erogazione di elettricità e acqua potabile".

Seduto nel suo ufficio di Baghdad, il vice primo ministro iracheno elenca innumerevoli altri esempi della miseria inflitta dalle sanzioni: dal modo in cui il crollo del dinaro ha ridotto il reddito dei professionisti - una volta ben pagati - all'equivalente di 3 dollari al mese, al modo in cui è vietato all'ex primo produttore mondiale di vendere i suoi frutti.

Aziz sottolinea che l'aumento della quantità di petrolio che l'Iraq è autorizzato a vendere nell'ambito dell'accordo oil-for-food per 5,2 miliardi di dollari ogni sei mesi non fa nulla per alleviare la situazione: "La nostra industria petrolifera non è in grado", dice e spiega:

"C'è bisogno di nuove attrezzature, componenti, ingenti lavori di ristrutturazione. Anche prima dei recenti ulteriori danneggiamenti causati dai bombardamenti, eravamo in grado di pompare meno di 2 miliardi di dollari ogni sei mesi. Il quaranta per cento va alle Nazioni Unite. Stiamo ancora pagando per UNSCOM (commissione speciale delle Nazioni Unite sull'Iraq, istituita a seguito della sconfitta della prima guerra del golfo, ndt) che ha distrutto centinaia di fabbriche e attrezzature, di cui alcuni membri sono ora stati denunciati come spie. Stiamo anche pagando i risarcimenti al Kuwait, e così via. Abbiamo quasi 23 milioni di abitanti. Abbiamo bisogno di 16-18 miliardi all'anno, più l'esportazione di merci. Eppure non ci è consentito nemmeno di acquistare attrezzature agricole per produrre il cibo per il nostro consumo, che quindi dobbiamo importare".

Ironia della sorte è stata la FAO delle Nazioni Unite, che ha consigliato l'Iraq che importare la maggior parte del suo fabbisogno alimentare era meglio sul piano economico che cercare di diventare autosufficienti. Nel 1993, a soli tre anni dall'embargo, il Programma Alimentare Mondiale (ONU) avvertiva che: "Tutti gli indicatori di pre-carestia sono ora in atto" in Iraq.

Aziz ricorda come James Baker (nominato segretario di stato da Bush padre nel 1989, ndt) gli disse durante il loro famoso incontro a Ginevra prima della guerra che, se l'Iraq non avesse rispettato le richieste statunitensi: "Vi ridurremo all'epoca pre-industriale". "Questo rimane l'obiettivo di oggi", ha affermato Aziz.

"Nel mese di marzo '91, ci hanno lasciato senza telefoni né elettricità, senza acqua potabile, con le raffinerie distrutte o danneggiate, quasi tutti i ponti bombardati cosicché il paese era praticamente diviso. Ma abbiamo ricostruito e restaurato in una certa misura. Il governo è rimasto. Ma ora ci sono bombardamenti quasi quotidiani con gli stessi obiettivi.

"Nell'aggressione del dicembre (1998), gli Stati Uniti hanno ignorato il Consiglio di sicurezza (dell'Onu). Mentre quindici membri erano formalmente riuniti (per discutere dell'Iraq), le bombe venivano già sganciate".

Aziz contrappone il rifiuto di Washington di parlare con Baghdad con la crescente contrarietà alle sanzioni nelle altre capitali del mondo. "Quando andiamo negli Stati Uniti non ci è permesso di lasciare New York. I politici, i vecchi amici, devono venire a New York per incontrarci. Anche a un piccolo funzionario delle Nazioni Unite, non è consentita una tazza di tè con un funzionario iracheno. L'embargo si estende anche al dialogo. Il dialogo è la regola d'oro per trovare soluzioni. Eppure gli Stati Uniti ci accusano di essere antidemocratici".

"Recentemente, al presidente Chirac è stato negato il permesso di discutere dell'Iraq con (il Presidente) Clinton, quando Parigi è profondamente coinvolta e posso parlare a qualsiasi livello con i francesi, i russi, i cinesi. Grandi delegazioni sono venute in visita qui e di recente ho viaggiato in Spagna, Italia, Belgio e Francia. Ma le sanzioni sono un genocidio. Se gli Stati Uniti vogliono imporre sanzioni militari contro l'Iraq, che gli sia consentito, ma non di privare i nostri figli del latte, del diritto alla salute e alle medicine".

Non ha dubbi sul perché dell'atteggiamento degli Stati Uniti:

"L'Iraq dispone della seconda più grande riserva di petrolio, in realtà della prima. È possibile trovare petrolio ovunque si trivelli in Iraq. Gli Stati Uniti vogliono dominare il petrolio, l'Arabia Saudita e il Golfo. Vogliono tenerci dormienti e portare un governo filo-americano con l'alibi della 'democrazia' e dei 'diritti umani'. Siamo una 'minaccia per la pace e la stabilità' e una 'minaccia per la regione'."

"Ma l'Arabia Saudita, governata da un solo uomo, è la beniamina di Washington. L'ironia è che i paesi della regione stanno pagando a caro prezzo: l'Arabia e il Kuwait stanno pagando, mentre noi siamo la 'minaccia' percepita; secondo gli americani siamo sul loro territorio".

Ma l'Iraq costituisce realmente una minaccia per i suoi vicini? Che dire dei diritti umani? Di Halabja? Dei curdi? Risponde che anche l'Iraq si sente minacciato dalle basi americane nella regione, che i curdi hanno un trattamento migliore rispetto ai loro omologhi turchi, godendo di autonomia, del riconoscimento ufficiale e dei diritti culturali. La verità su tali questioni, lascia intendere, è negli occhi di chi guarda.

"Ho letto delle storie su The Times secondo le quali il presidente Saddam sparerebbe a chi non gli è gradito nel consiglio dei ministri. Come potrebbe sopravvivere? Gli iracheni sono pronti a ribellarsi come hanno fatto nel 1921, 1931, 1947, 1957 e 1968".

Così come deve essere risolta questa impasse?

"Perché non viene qui un gruppo trasversale di deputati americani, affrontano il nostro parlamento, dialogano, incontrano le persone? Le incomprensioni nascono dalla mancanza di dialogo. Anche il nostro Vescovo", Aziz è un cristiano caldeo, "non può entrare negli Stati Uniti per viaggiare in delegazione. Ha dovuto richiedere il passaporto del Vaticano".

"L'anno scorso, quando ho ricevuto un invito dalla Oxford Union, il mio visto è stato respinto dal Regno Unito. Ma presto andrò in Irlanda, su invito dell'University College di Dublino e ci connetteremo con l'Oxford Union via cavo, in modo che tardivamente potremo avere il nostro dibattito."

Mentre mi alzavo per congedarmi, Aziz aggiunge: "Non è un 'cambio di regime' quello che gli USA vogliono, ma un 'cambio di regione'."

Poi: "Signora Felicity, quando avevo dieci anni, distribuivo volantini per le strade di Baghdad, infilandoli nelle porte delle case, per fermare il furto di petrolio da parte degli inglesi. Io non rinuncio all'Iraq ora".


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