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da Rebelion - www.rebelion.org/noticia.php?id=61345
 
Il dramma del Kenya
 
Txente Rekondo - Gabinete Vasco de Analisis Internacional (GAIN)
04/01/2008 
 
Le spiagge di fine arena, un oceano di acque trasparenti, immense riserve di animali selvatici, un’immensa savana, trasformano il Kenya nella perfetta destinazione di buona parte del turismo di lusso. Ma dietro questa cartolina paradisiaca troviamo un alto grado di corruzione, rivalità politiche che si accompagnano a diversità etniche, mentre la povertà, le disuguaglianze e la disoccupazione sono qualcosa di endemico.
 
Fino ad alcune settimane fa, le elezioni nel paese si presentavano come qualcosa di normale, ma in seguito la situazione si è complicata e deteriorata, mettendo più che mai allo scoperto il complesso puzzle che caratterizza la realtà di questo stato africano.
 
La maggior parte dei candidati ha dibattuto e difeso le proprie posizioni su diversi temi: economia, infrastrutture, corruzione, majimbo/ugatuzi (federalismo o devoluzione), educazione, sistema sanitario e la costituzione. Ma a urne appena chiuse, i due candidati meglio piazzati, il presidente uscente Mwai Kibaki, e il leader dell’opposizione Raila Odinga hanno agitato i fantasmi etnici per difendere ciascuno la propria vittoria elettorale. Allo stesso tempo, i seguaci dell’uno e dell’altro si sono gettati nelle strade in difesa degli argomenti dei propri rispettivi dirigenti.
 
E da Occidente non si è perso tempo nell’accusare direttamente le rivendicazioni etniche di tutti i mali che in questi giorni devastano il Kenya. Cadendo ancora una volta in un discorso interessato e semplicistico, molti analisti ci presentano l’attuale crisi come uno scontro tra i membri dell’etnia Luo (come Odinga) ed i Kikuyu (a cui appartiene Kibaki). Ma la violenza va ben oltre lo scontro tra due etnie. Nel corso della storia si sono susseguiti i conflitti etnici. Da un lato si sono scontrati i “guerrieri” Kalenjin con i Kikuyu. Più tardi i Kikuyu, insieme a Luo e Luhya hanno combattuto contro i Masai e i Kalenjin. Qui possiamo trovare una delle radici dei conflitti attuali, lo scontro tra due modi di vita molto legati alla proprietà e al controllo della terra. Mentre Kikuyu, Luo e Luhya erano agricoltori, gli altri erano principalmente pastori.
 
In questo contesto l’apparizione del colonialismo britannico ha comportato un’accentuazione delle differenze etniche. Seguendo il manuale coloniale, i britannici hanno provocato divisioni territoriali arbitrarie, in spregio agli spazi etnico-geografici tradizionali, in linea con il famoso “dividi e governa”. Un esempio di questa politica coloniale lo troviamo nella Valle del Rift, dove fino all’arrivo delle forze coloniali la pastorizia era la forma di vita della regione (Masai e Kalenjin). In seguito, i colonialisti imposero lo spostamento degli abitanti locali, sostituendoli con membri di altre etnie, più abituati all’agricoltura e più preparati a sviluppare l’economia agricola e il sistema di coltivazioni imposti dalla metropoli.
 
Dopo la fase coloniale troviamo la cosiddetta fase neocoloniale, in cui le nuove elites politiche hanno cercato di utilizzare i mezzi del colonialismo per consolidare il nuovo potere. In questi anni abbiamo assistito anche a cambiamenti nelle alleanze inter-etniche. Così dal patto tra Kikuyu e Luo siamo passati all’alleanza dei primi con altre etnie minoritarie, specialmente i Kalenjin. E’ pure in questa fase che troviamo un’altra chiave di migliore interpretazione del conflitto. L’utilizzo politico della divisione etnica da parte delle elites.
 
Il favoritismo politico è stato un segno distintivo di tutti i tre presidenti che, coscienti dell’impossibilità di governare con l’appoggio di una sola etnia, hanno cercato accordi con altre, pur conservando i privilegi unicamente per la propria. Ciò è avvenuto con Kenyatta (kikuyu), con il suo successore Moi (kalenjin) e con l’attuale presidente Kibaki (kikuyu), e se alla fine Odinga (luo) sarà il vincitore, si ripeterà la stessa cosa.
 
La situazione del Kenya, considerato come “un’oasi di stabilità in una regione molto mutevole”, può giungere al suo epilogo. Geopoliticamente, Washington ha sempre appoggiato il regime del paese, cosciente del ruolo tampone che il Kenya gioca nella regione, e dell’appoggio alla “guerra contro il terrore” che Nairobi concede agli Stati Uniti. Ma il grande numero di rifugiati di altri stati, i movimenti migratori interni, la presenza di gruppi armati vicini e le divisioni tra stati provocate dai colonialisti, possono arrecare un aggravamento della situazione.
 
La condizione dei masai in Tanzania e dei luo in Uganda potrebbe finire di influenzare la situazione interna di questi due paesi, e di provocare un effetto domino in tutta la zona.
 
L’importanza geostrategica del Kenya per gli USA è diventata evidente questa settimana, quando le tre televisioni più importanti del Nord America hanno dedicato gran parte dei loro programmi informativi agli scontri in Kenya, in competizione con quelli dedicati alla morte di Bhutto in Pakistan.
 
Alcuni analisti rilevano il pericolo che corre il Kenya di fare la stessa fine della Costa d’Avorio. E nel frattempo, alcune letture interessate dei processi elettorali in Africa ce li presentano in preda alle manipolazioni, come se questo non accadesse anche nelle democrazie occidentali, dove i governi non esitano ad anticipare al momento opportuno le elezioni o a riformare i distretti elettorali a proprio vantaggio, ed anche ad utilizzare l’economia del paese come un proprio investimento.
 
Mentre le elites del Kenya non esitano a mobilitare i propri seguaci sotto la bandiera etnica per ottenere benefici politici, buona parte della popolazione si mostra stanca e apatica davanti a coloro che vengono percepiti come “tutti uguali” e dove i veri perdenti sono le masse più povere del paese. Se osserviamo dettagliatamente la situazione del paese africano, possiamo affermare che “né tutti i kikuyu sono dominatori né tutti i luo sono diseredati. I diversi processi coloniali e neocoloniali hanno accentuato le differenze di classe tra le comunità di ogni etnia”. Per questo è molto probabile che le elites di differenti etnie abbiano in comune tra loro più di quanto hanno con gli altri membri della propria etnia; è questo che si vuole ignorare in Kenya.
 
La fine delle politiche propugnate dal colonialismo, che abbiano il volto del neocolonialismo o quello del neoliberalismo, è l’elemento decisivo per superare le disuguaglianze endemiche del Kenya e di buona parte dell’Africa, come lo è dare avvio una volta per tutte ad una giusta ridistribuzione delle terre del continente. Finché non si affronterà ciò, i “pangas” (machete) si leveranno insanguinati, mischiati anche ad altre armi più micidiali e moderne.
 
Traduzione dallo spagnolo per www.resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare