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L’aggressione alla Libia, crimine internazionale dei "forti", dunque impunito[1]
 
di Aldo Bernardini, Professore emerito di Diritto internazionale dell’Università di Teramo
 
Roma, 7 ottobre 2011
 

Da "La Repubblica" (11 agosto 2011). Di fronte alle rivolte e sommosse in varie città, determinate da grave disagio sociale, il premier britannico Cameron proclama la linea dura: la polizia è autorizzata a utilizzare ogni mezzo necessario per riportare l’ordine ad ogni costo nel paese: "Chiunque sarà incriminato per disordini violenti finirà in prigione e non ci preoccuperemo di diritti umani fasulli (corsivo nostro)". Morti, feriti e decine di arresti hanno fatto seguito [2].
 
Da "Il Messaggero" (11 agosto 2011): "Libia e Iran difendono i rivoltosi" in Gran Bretagna, "la comunità internazionale non può restare a guardare tanta violenza" e a tal fine "chiedono l’intervento del C. d. s. dell’ONU" (naturalmente invano).
 
Dichiarazione di Aisha Gheddafi, figlia del Colonnello (3 settembre 2011): "l’Occidente ed i suoi mercenari prendano nota: Aisha Gheddafi non si arrenderà mai alla loro congiura demoniaca. Io porto nelle mie vene il sangue di un padre eroico e non ho mai conosciuto l’idea della resa. La NATO e gli assassini occidentali hanno ucciso mio marito ed il mio bambino. Ma loro devono sapere che da ora Aisha Gheddafi è un soldato. Anche al prezzo della mia vita, io libererò il mio paese…" - Da una lettera aperta al popolo francese del 29 aprile 2011: "Il destino della Libia non sarà mai quello dell’Iraq e il neocolonialismo non tornerà nella terra di Omar El-Mokhtar e Gheddafi".

 
Sommario
 
- Introduzione: 1. L’aggressione alla Libia.
- Il diritto: 2. Norme e principii internazionali sulla sovranità-indipendenza degli Stati. 3. Asseriti limiti determinati dalle discipline dei diritti umani e del diritto umanitario. 4. …e dalla riserva, pretesa come totale, delle misure coercitive ex Cap. VII Carta N. U. alla competenza interna esclusiva degli Stati. 5. I limiti invalicabili dell’azione del C. d. s.
- I fatti: 6. Quelli giuridicamente non rilevanti, ma illuminanti. 7. La disinformazione. 8. Fatti giuridicamente rilevanti: l’intervento esterno.
- Conclusione: 9. L’azione contro la Libia in sede N.U. e il suo fondamentale carattere di illegittimità-illiceità.

 
Introduzione
 
1. Esiste l’osceno nella vita internazionale. Dopo Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, adesso la Libia. Mi astengo per ora dal porre l’accento su considerazioni di fondo, pur essenziali, sulle azioni dei "giusti", dei "buoni", dei "nostri", in sintesi dei "forti"[3]: ricoperte malamente prima o ex post da posizioni extrastatutarie del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dal ricorso distorto e abusivo, in funzione di pessima ideologia, fuori o al di là del contesto del diritto vigente, a principii c. d. umanitari e ai diritti dell’uomo - mai questi principii e le stesse N.U. esposti in tal misura al discredito totale come negli ultimi decenni. Azioni che oggi concretano, contro lo Stato libico, un’aggressione "natista" (della NATO, cioè): a chi si irritasse di una certa assonanza si consiglierebbe di rivolgere gli umori a coloro che dell’attività consonante sono artefici. Nomina sunt consequentia rerum.
 
Il mio discorso intende porsi per l’essenziale su un piano giuridico, scevro soprattutto dei preconcetti scaturienti dall’ideologia vanamente e vacuamente "nobilitante" che mira a farci trangugiare un riesumato concetto di "guerra giusta", inter alia di colonialistica memoria. La guerra contro uno Stato che si è liberato dal dominio coloniale, e proprio contro il governo che di quel riscatto è stato protagonista, la guerra scatenata da potenze, che quel passato colonialista avevano generato e imposto, è qualcosa di inverecondo, di intollerabile. Nessuna belluria ideologica può mimetizzare tanta regressione barbarica. Al diritto, dunque, almeno nella sua funzione disvelatrice.
 
Ma per questo non può farsi a meno di prendere come punto di riferimento, se non altro sommario, la situazione di fatto rispetto a cui il diritto deve trovare applicazione. Tutto è, o sembra essere, reso opaco da una dominante rappresentazione della realtà che comunque si rivelerà in larga misura artefatta; ma che, prima ancora, tende o porta a deviare dalla retta selezione degli elementi rilevanti del diritto internazionale, questo in larga misura ponendosi, per la vicenda libica, al di là della situazione che, artefatta o meno, viene spinta al centro della vicenda. Si tratta della rappresentazione, fatta propria dal complesso mediatico dei paesi occidentali o a questi comunque collegato o subalterno, e dalle forze politiche qui dominanti, per cui l’origine della crisi libica sarebbe da attribuirsi a gravi violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario nella repressione di "pacifiche" manifestazioni "democratiche" di "civili" contro il governo "dittatoriale" libico. Vedremo che tutto ciò, pur se fosse vero, non giustificherebbe in diritto internazionale l’attacco alla Libia. Ma… nell’oceano di rappresentazioni fabbricate capita qualche scivolone verso la verità. Mi son dovuto stropicciare gli occhi quando, su un quotidiano nazionale (e di ciò più avanti) - per verità ho poi trovato diverse menzioni nello stesso senso - ho letto del costruito equivoco tra "insorti" e "civili". Ma come, non si trattava di tutelare la popolazione libica civile contro il proprio governo (sempre impregiudicato il punto se il diritto internazionale consenta siffatte azioni "benefiche")? Viene dunque lasciato trapelare qualche barlume di verità: una "voce dal sen fuggita" ci indirizza alla dimensione giuridica, correttamente intesa, della vicenda libica. Al centro, non la repressione, bensìl’insurrezione, per di più sostenuta dall’esterno (visibilmente a vicenda iniziata, e ciò già sarebbe sufficiente per dissipare le rappresentazioni correnti, ma secondo assoluta verosimiglianza fin da prima). Quindi, in prima linea non questioni di diritti dell’uomo e diritto umanitario, bensì i problemi della sovranità-indipendenza degli Stati e del relativo nucleo fondamentale: tanto di fronte ad un conflitto interno, quanto se fin dall’inizio si riconosce un profilo di intervento esterno. L’assunzione invece di un falso baricentro spiega anche perché mai nella sconvolgente vicenda libica si parli poco di diritto internazionale. Forse perché fa comodo l’opinione che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con le due risoluzioni adottate per la Libia, abbia esaurito il problema. Non è certo così.
 
Le N.U. non sono federazione mondiale, il C.d.s non è né governo né legislatore del mondo. Come invece - se non altro sotto il profilo delle conseguenze pratiche - viene fatto generalmente ritenere almeno a partire dalla prima guerra irachena (si ricorda, nel contesto storico del processo di estinzione dell’Unione sovietica): si arriva ad accreditare come giuridicamente idoneo che il C.d.s. a discrezione invochi il Cap. VII della Carta ( a parte l’aggressione, minacce e rotture della pace, internazionale di per sé, cioè nei rapporti fra Stati, ma qui si innesta il "trucco") perché si proclami legittima la decisione di ogni sorta d’azione nei confronti di uno Stato, anche al di fuori delle tipologie - comunque almeno indicative - disegnate dalla Carta: pure per fatti interni, come un’insurrezione (ai quali venga, sempre discrezionalmente, affibbiata dal C. d. s. una rilevanza internazionale o equivalente: questo è il "trucco"), e - nel caso di misure con l’uso della forza - arrivandosi, riteniamo anche qui ed ancor più illegittimamente, ad "autorizzare" gli Stati che lo vogliano (i "volenterosi") ad intervenire contro lo Stato preso di mira. Per di più, "con tutte le misure necessarie"…Secondo dunque scelte e pertanto intenti ed interessi dei "volenterosi": l’opposto radicale del sistema N. U. Magari, ed è il caso della Libia, perché quello Stato "non protegge" la propria popolazione contro se stesso, e cioè gli insorti contro lo Stato centrale: una recente trovata fantagiuridica per giustificare gli interventi. Questo non è diritto e non è diritto internazionale: e su tutto ciò andrà sviluppato il discorso, ma senza buttar tempo sulla fantasmatica nozione della responsibility to protect[4]. Ben pochi Stati avrebbero accettato la Carta, se quella ne fosse stata esplicitamente la portata: così il presidente jugoslavo Milosevic, vittima illustre e tragica di un sistema internazionale mistificato ed aberrante, nel colloquio che ebbi con lui nel suo carcere di Scheveningen nell’agosto 2001.
 
Siamo davanti a un copione ormai usurato, ma purtroppo abituale, che viene sfoderato per distruggere uno Stato o governo sgradito perché non subalterno. Il "despota" o "tiranno", il "dittatore" sempre naturalmente "sanguinario", che viene criminalizzato con sfrenate campagne mediatiche, le atrocità, le stragi, le fosse comuni, i diritti umani violati, e via "atrocizzando" (e su tutto questo trito e ripugnante scatenamento sarà gustoso annotare più avanti uno specifico dato normativo o almeno interpretativo): solo a posteriori a volte si scoprirà la mala informazione. Qualche protesta o rivolta ovviamente contrastata dal potere costituito, ed immediatamente incoraggiata dall’esterno, quando non preventivamente stimolata, eccessi veri o presunti contro "civili innocenti" (spesso rivoltosi incendiari e armati): di qui - e solo dove ritenuti profittevoli e comunque non proibitivamente costosi sotto ogni rispetto - gli interventi dei "buoni", con o senza "avallo" del C.d.s, sino alla guerra con effetti catastrofici (con le differenze dei casi, Jugoslavia, Iraq, Somalia, Afghanistan…). Perché il risultato finale delle forzature della Carta N.U. , e comunque dei principii fondamentali del diritto internazionale, avallate dalla complessivamente prevalente dottrina, è - va ripetuto - che il sistema di sicurezza collettiva delle stesse N.U. si tramuta nel suo opposto: lungi dall’evitare la guerra, se ne fa promotore; lungi dal bandirla e porvi rimedio, la fa rivivere, fra l’altro mistificando l’aggredito per aggressore.
 

[1] Un primo nucleo di questo saggio è stato pubblicato, fra i varii quotidiani a cui era stato inviato, da “La Padania” dell’8 maggio 2011. Il testo attuale è tratto da “I diritti dell’uomo – cronache e battaglie”, n.2, 2011.
[2] Non verifichiamo l’autenticità della citazione di “Repubblica” né l’esattezza della traduzione. Parlano i fatti per avvalorare la veridicità. Toute proportion gardée.
[3] Per tali si intendono non solo Stati “potenti”, ma quelli – gli Stati occidentali – che pretendono dominio o egemonia economici e culturali, con l’imposizione dei loro modelli socio-politici e l’abuso di ideologie “umanitarie” da loro stessi disattese quando conveniente, e in funzione di restaurazioni dopo gli eventi mondiali del 1989-91. Si tratta complessivamente degli Stati colonialisti di un passato che si pretende di ripristinare.
[4] E cioè un obbligo, asserito erga omnes (verso tutti gli altri Stati), non si sa su quale norma internazionale fondato, di ogni Stato di tutelare la propria popolazione da genocidi, massacri, trattamenti disumani ecc., che includerebbe anche i comportamenti “repressivi” dello stesso Stato e che, se non rispettato ed attuato da quello Stato (secondo la valutazione di Stati terzi o di un organo internazionale quale il C.d.s.), giustificherebbe l’intervento armato anche dall’esterno. È chiaro che i comportamenti statali presi di mira fanno parte dei compiti e funzioni di uno Stato verso la sua popolazione (secondo il proprio diritto interno), da contemperarsi però con altri doveri e funzioni, quali la sicurezza interna e la tenuta del sistema di governo, ma costruirli quali oggetto di un comprensivo obbligo di diritto internazionale generale (erga omnes) è indimostrabile. Anzi, contrario fra l’altro al principio basilare di non ingerenza, che le “nuove prospettazioni” mirano, neppur troppo celatamente, ad incrinare. Singole categorie di comportamenti possono essere previste da specifiche norme internazionali, per lo più convenzionali, con le conseguenze da esse stabilite (vi si tornerà). Si tratta, con la posizione qui rifiutata, di una tesi fra l’altro elaborata da dottrina statunitense in vena della ricerca di scalzamenti delle sovranità statali, gestibili appunto ai fini di ingerenze e interventi esterni. Precedenti dell’abnorme teoria sarebbero in posizioni francesi (vedi CONFORTI-FOCARELLI, Le Nazioni Unite, Padova, 2010, p. 319) come droit d’ingérence in caso di asserite emergenze umanitarie in uno Stato che non potesse o volesse provvedere alla tutela della (sua) popolazione colpita, anche senza il consenso dello stesso Stato. Begli espedienti per un neo-colonialismo dei giorni nostri. La ris. 60/1 del 24 ottobre 2005 dell’Assemblea generale N.U. (Documento finale del Vertice mondiale del 2005) ai par. 138 ss. evoca quella asserita responsabilità, in termini che vanno incontro alle tendenze segnalate, ma ovviamente senza valore giuridico vincolante e senza riflessi sui problemi e le esigenze della sovranità-indipendenza. Anzi, a mio parere, indicare tra i motivi di intervento la (asserita) mancata ottemperanza al (preteso) dovere di “proteggere” la propria popolazione, non essendo il C.d.s. dotato di potere normativo (se non quello concreto relativo alle misure ex Cap. VII), costituisce motivo di illegittimità della risoluzione. Vedi pure CANNIZZARO, Corso di diritto internazionale, Milano, 2011, p. 21 s., che esclude valore normativo alla dottrina in discorso e nega quindi la possibilità di azioni “reattive” degli Stati. Propende invece per la possibilità di intervento da parte del C.d.s. e ne ravvisa un’applicazione nella ris. 1973 del 2011 di quell’organo, relativa alla Libia. Lascia sconcertati questa inclinazione a riconoscere al C.d.s. una competenza “a soffietto”, che si allarga per autoaffermazione. Certo, se si dimenticano i presupposti-base della vita internazionale, resta inutile e impotente qualunque richiamo a tali presupposti e si afferma un vero Führerprinzip in capo al C.d.s. nelle relazioni internazionali. “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”. Peccato che, in tal modo, del dichiarato intento di evitare danni umanitari, in particolare alla popolazione (di buone intenzioni è lastricata la strada dell’inferno), si fa strame: questi danni si moltiplicano, rinasce, come ripetutamente diciamo in queste pagine, l’istituto della guerra, bandito dal sistema N.U., e questo sistema “va a ramengo”. Il principio di indipendenza è incancellabile, per gli Stati e i popoli, e quindi le dirigenze, che resistono in suo nome.
 

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