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L’aggressione alla Libia, crimine internazionale dei "forti", dunque impunito
 
di Aldo Bernardini, Professore emerito di Diritto internazionale dell’Università di Teramo
 
Roma, 7 ottobre 2011
 
Sommario
 
Il diritto
 
2. Avviciniamoci ancora al diritto internazionale, in larga misura riaffermato nei principii basilari della Carta delle N. U. secondo il quadro originario, non certo però nelle applicazioni "stravaganti" più recenti. È utile richiamare considerazioni e citazioni già effettuate in precedenti occasioni. L’art. 2, n. 1, della Carta evoca la "sovrana eguaglianza di tutti i membri" e il n. 4 vieta l’uso della forza "contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato". L’Assemblea generale, nella "Dichiarazione sui principii di diritto internazionale riguardanti le relazioni pacifiche e la cooperazione fra Stati in conformità alla Carta delle N. U. ", ris. 2625 -XXV del 24 ottobre 1970, proclama che "Tutti gli Stati godono dell’uguaglianza sovrana. Essi hanno diritti ed obblighi uguali e sono membri della comunità internazionale su un piano di uguaglianza, nonostante le differenze di ordine economico, sociale, politico o di altra natura. In particolare, l’uguaglianza sovrana comprende i seguenti elementi: a) gli Stati sono uguali dal punto di vista giuridico; b) ogni Stato gode dei diritti inerenti alla piena sovranità; c) ogni Stato ha l’obbligo di rispettare la personalità degli altri Stati; d) l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dello Stato sono inviolabili; e) ogni Stato ha il diritto di scegliere e sviluppare liberamente il suo sistema politico, sociale, economico e culturale; f) ogni Stato è tenuto ad adempiere pienamente in buona fede i suoi obblighi internazionali e a vivere in pace con gli altri Stati". In tale contesto si ribadisce solennemente l’obbligo degli Stati di astenersi dalla minaccia o dall’uso della forza nelle relazioni internazionali contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualunque Stato; che una guerra di aggressione costituisce un crimine contro la pace; che gli Stati hanno l’obbligo di non "organizzare, assistere, fomentare, finanziare, incitare o tollerare attività sovversive, terroristiche o armate miranti al rovesciamento violento del regime di un altro Stato o ad interferire nella lotta civile in un altro Stato". La ris. 3314- XXIX sulla "definizione dell’aggressione", del 14 dicembre 1974, definisce questa come "uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di un altro Stato" e, specificando, evoca fra le attività proibite "l’invasione o l’attacco al territorio di uno Stato da parte delle forze armate di un altro Stato…; il bombardamento, da parte delle forze armate di uno Stato, del territorio di un altro Stato, o l’impiego di qualsivoglia arma da parte di uno Stato contro il territorio di un altro Stato": per concludere che "nessuna considerazione di qualsivoglia natura, politica, economica, militare o altro, potrebbe giustificare un’aggressione; una guerra di aggressione è un crimine contro la pace internazionale e dà luogo a responsabilità internazionale". Proseguiamo con la ris. 36/103 del 9 dicembre 1981, "Dichiarazione sull’inammissibilità dell’intervento e dell’ingerenza negli affari interni degli Stati", la quale precisa "il diritto sovrano di uno Stato di determinare liberamente il suo sistema politico, economico, culturale e sociale, di sviluppare le proprie relazioni internazionali ed esercitare la sovranità permanente sulle sue risorse naturali… senza intervento, ingerenza, sovversione, costrizione o minaccia in qualsiasi forma dall’esterno" e il divieto di "sconvolgere l’ordine politico, sociale od economico di altri Stati, abbattere o cambiare il sistema politico di un altro Stato o il suo governo". Molto significativo è che la stessa Dichiarazione si esprime nel senso del "dovere degli Stati di astenersi da ogni campagna diffamatoria, denigrazione o propaganda ostile allo scopo di intervenire o ingerirsi negli affari interni di altri Stati" e quindi nel senso del dovere di "astenersi dall’utilizzazione e distorsione di questioni attinenti ai diritti umani come mezzo di interferenza negli affari interni degli Stati, di esercitare pressione su altri Stati o di creare sfiducia o disordine entro o fra Stati o gruppi di Stati". È la gustosa annotazione che avevamo preannunciato. Veramente lungimirante, ma quanto disattesa questa espressione del rigetto di un "abuso dei diritti umani" ( e della criminalizzazione di dirigenti), cui negli ultimi decenni abbiamo dovuto così di frequente assistere!
 
Ma, a parte ciò, le precedenti affermazioni, illuminando l’univoca interpretazione dei principii della Carta, esprimono e concretano quel principio fondamentale dell’indipendenza politica e dell’uguaglianza sovrana degli Stati con il connaturale obbligo (per gli altri Stati) di non ingerenza nei fatti interni che sta alla base del diritto internazionale, ne è elemento fondante e costitutivo, come tale riaffermato con lo stesso carattere nella Carta N. U. Il "mutamento di regime" voluto, promosso, agevolato dall’esterno è grave illecito internazionale. È inconcepibile quello che ci tocca vedere nei confronti della Libia, le dichiarazioni di esponenti ufficiali di Stati, cui si vorrebbe ascrivere valore giuridico (che naturalmente non v’è, se non nel senso negativo dell’illiceità), che esprimono la pretesa secondo cui la leadership dello Stato libico avrebbe "perduto legittimità", dovrebbe "lasciare il potere", giungendosi addirittura all’azione di forza e al pianificato omicidio (con l’avallo "implicito" del C. d. s. !), volti a conseguire siffatto obiettivo. Si tratta, si ripete, di gravi illeciti, addirittura crimini internazionali (e di diritto internazionale)[5], quando dalle vociferazioni si passa alle azioni armate.
 
Per il diritto internazionale - capisco che queste affermazioni, per le "anime belle" e gli ideologi di un Occidente "di civiltà superiore", sono colpi allo stomaco - non esistono forme statali e di governo privilegiate o viceversa vietate, sistemi autoaffermantisi e riconosciuti come democratici o viceversa dittatori da respingere, governi "legittimi" perché di democrazia formale o invece declassati regimi autocratici e peggio "tirannici": lecite o no, alla stregua delle norme internazionali, sono solo le specifiche attività degli Stati nei rapporti interstatali. E non fa parte delle attività lecite nei confronti di qualsivoglia Stato la "promozione della democrazia" -checché con ciò si intenda- da parte di altri Stati o gruppi di Stati. Il regime statale rientra nelle scelte e nelle lotte delle forze interne di ogni Stato e del relativo popolo. Ugualmente legittimi per il diritto internazionale e in esso per la Carta N. U. erano tutti i "regimi" degli Stati fondatori dell’ONU, a cominciare da quelli statunitense, britannico e sovietico, e se ne sanciva e sancisce l’obbligo del rispetto reciproco e dell’inammissibilità di azioni statali volte a sovvertirli. Gli stessi principii valsero e valgono per gli Stati sorti dal processo di decolonizzazione, come per ogni altro Stato[6].
 
In quest’ordine di idee, rivolte interne, insurrezioni, rivoluzioni (e magari controrivoluzioni), le quali possono pure essere sacrosante sotto un profilo storico-politico, costituiscono fatti estranei al diritto internazionale, che si svolgono nella sfera interna di uno Stato costituito, rispetto a cui a carico degli Stati terzi vige in principio l’obbligo di non ingerenza (parziale eccezione nel caso, che qui non trattiamo, dell’autodeterminazione -esterna- dei popoli sotto dominio coloniale o assimilabile: ipotesi che nella fase attuale non viene in rilievo nella questione libica)[7]. La rivolta, l’insurrezione, la rivoluzione possono conseguire vittoria totale o parziale (su parte del territorio) e, in caso di situazione di fatto nuova consolidata (effettività)[8], il mutamento si afferma nella realtà internazionale: ma questo risultato deve essere raggiunto da rivoltosi, insorti, rivoluzionari con forze fondamentalmente proprie, nel divieto di ingerenza e interventi di Stati terzi (interventi di questi a favore del governo costituito sarebbero leciti in caso di supporto attivo - per sé illecito - dall’esterno agli insorti)[9].
 
Di fronte a rivolta interna e agli altri fenomeni analoghi, è legittimo per il governo costituito di contrastarla. Senza interferenze, si ripete, nel senso testé asserito. Sarebbero già sufficienti le indicazioni normative e interpretative sin qui fornite: ma vi è qualcosa di più specifico. Decisivo è il Protocollo II del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949 sul diritto bellico, tuttora vigente (ne è parte anche la Libia). Esso stabilisce per gli Stati parti l’obbligo dell’applicazione delle norme umanitarie ai conflitti armati interni (guerre civili, insurrezioni, ecc. ), in cui gli insorti abbiano conseguito il controllo di una parte del territorio, ma con una fondamentale precisazione: e cioè senza che su questa base possa trarsi argomento "per attentare alla sovranità di uno Stato o alla responsabilità del governo di mantenere o ristabilire l’ordine pubblico nello Stato o di difendere l’unità nazionale e l’integrità territoriale dello Stato con tutti i mezzi legittimi", nulla "potrà essere invocato per giustificare un intervento, quale che ne sia la ragione, in un conflitto armato o negli affari interni o esterni" dello Stato in cui avviene il conflitto. Inoltre, per alcune fra le più importanti norme umanitarie, ai fini della tutela della popolazione civile, si precisa espressamente che "le persone civili godranno della protezione concessa dal presente Titolo, salvo che esse partecipino direttamente alle ostilità e per la durata di tale partecipazione" (art. 13, 3 co. ). Se è chiaro che la tutela della popolazione civile vale nei confronti di tutte le parti del conflitto interno, l’estraneità a questo non può poi significare diniego dell’obbligo di fedeltà al governo costituito. È dunque inconcepibile, non può resistersi alla necessità di ripeterlo, quanto si va pretendendo, persino in incontri di Stati che così ricordano le conferenze internazionali ottocentesche per la spartizione e il dominio coloniale: nel senso che il vertice libico debba venire sostituito per volontà esterna, o che si interferisca nella guerra civile, addirittura con il sostegno di ogni genere ai ribelli, con gli attacchi armati contro le forze governative di contrasto all’insurrezione, con i riconoscimenti prematuri degli insorti non in quanto tali, bensì come… governo legittimo dello Stato al posto di quello costituito che legittimamente li combatte (non si tratta, come declamato, senza neppure precisi riscontri fattuali, a carico del governo costituito libico, quello del Colonnello Gheddafi, di "guerra al proprio popolo", bensì di lotta contro gli insorti e chi li appoggia attivamente: ciò che ovviamente non esclude eventuali violazioni del II Protocollo, da parte però di tutti gli attori del conflitto interno, il che andrebbe comunque riscontrato con serietà e soggetto alla disciplina desumibile dalle specifiche normative internazionali in vigore).
 
L’indicato articolo del II Protocollo non è semplicemente norma convenzionale che, a fronte dell’obbligo pattizio di applicazione del diritto umanitario ai conflitti interni, pone un limite alle forme di reazione degli altri Stati contraenti rispetto ad eventuali violazioni. Esso esprime in realtà una norma di "salvaguardia", che in seguito ad un’innovazione normativa convenzionale (l’applicazione appunto del diritto umanitario a un campo prima non coperto) richiama e conferma la norma generale e della Carta N. U. sulla sovranità statale e la non ingerenza "attiva" (a cominciare da quella con l’uso della forza, ma non solo) nei fatti essenzialmente o fondamentalmente interni, a partire da rivolte, insurrezioni, rivoluzioni (con controllo territoriale), che sono l’oggetto specifico del II Protocollo. Significativo è anche che questo esclude dal proprio campo di applicazione (art. 1, 2 co. ) le "situazioni di tensioni interne, di disordini interni, come le sommosse, gli atti isolati e sporadici di violenza ed altri atti analoghi che non sono considerati come conflitti armati", tali situazioni restando dunque problemi puramente interni. Ciò vuol dire che per tali situazioni non vale la disciplina convenzionale del II Protocollo, che esse cioè restano nella sfera sovrana esenti dagli specifici obblighi convenzionali (salvi sempre i più generali obblighi umanitari, di necessità con discipline più blande). È questa la situazione libica all’inizio delle sommosse di Bengasi, almeno se considerate nella dimensione puramente interna.
 
Che si tratti di un principio radicato del diritto internazionale possiamo riscontrarlo già in una risoluzione dell’Istituto di diritto internazionale del 7-8 settembre 1900 sui "Doveri e diritti, nel caso di movimenti insurrezionali, delle potenze straniere e dei loro cittadini nei riguardi dei governi costituiti e riconosciuti che sono alle prese con l’insurrezione"[10]. Tale risoluzione, come è ovvio, ha valore meramente ricognitivo, ma è significativa e ne citiamo i primi articoli. L’art. 1 enuncia: "Il diritto internazionale impone alle terze Potenze, nel caso di movimento insurrezionale o di guerra civile, taluni obblighi verso i governi costituiti e riconosciuti, che sono alle prese con l’insurrezione". E pertanto l’art. 2: "1. Qualsiasi terza Potenza, che sia in pace con una nazione indipendente, è tenuta a non ostacolare le misure che detta nazione prende per ristabilire la propria tranquillità interna. - 2. Essa è tenuta a non fornire agli insorti né armi, né munizioni, né effetti militari, né sovvenzioni. - 3. È in special modo vietato a qualsiasi Potenza di lasciare che si organizzino sui propri territori spedizioni militari ostili ai governi costituiti e riconosciuti".
 
Disposizioni arcaiche? Ma allora gettiamo qualche sguardo alla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 27 giugno 1986 sull’Affaire des activités militaires et paramilitaires au Nicaragua et contre celui-ci (Nicaragua c. États-Unis d’Amérique)[11]. Basta ricordare come la Corte ha condannato gli Stati Uniti per il loro sostegno ai controrivoluzionari nicaraguensi (i contras), che si opponevano al governo sandinista, oltre che per dirette attività statunitensi contro il governo di Managua, in relazione a situazioni e con motivazioni della sentenza perfettamente applicabili alla vicenda libica. Menzioniamo qui i punti della sentenza rilevanti per il nostro complessivo discorso (e che riguardano il divieto di ingerenza e quello della minaccia e uso della forza nei rapporti internazionali), per comodità di esposizione, tutti insieme: pur se relativi a problemi che toccheremo successivamente anche in momenti distinti. Viene affermato quale elemento fondamentale del diritto internazionale consuetudinario che "Le principe de non-intervention met en jeu le droit de tout Etat souverain de conduire ses affaires sans ingérence extérieure : bien que les exemples d’atteinte au principe ne soient pas rares, la Cour estime qu’il fait partie intégrante du droit international coutumier. Comme la Cour a eu l’occasion de le dire : «entre Etats indépendants, le respect de la souveraineté territoriale est l’une des bases essentielles des rapports internationaux (C. I. J. Recueil 1949, p. 35)», et le droit international exige aussi le respect de l’intégrité politique" (par. 202) . Recueil 198s, le respectstoccheremo successivamente anche in momenti distintili) per comodità di esposizione tutti nsieme. In proposito la Corte specifica che il principio "interdit à tout Etat ou groupe d’Etats d’intervenir directement ou indirectement dans les affaires intérieures ou extérieures d’un autre Etat. L’intervention interdite doit donc porter sur des matières à propos desquelles le principe de souveraineté des Etats permet à chacun d’entre eux de se décider librement. Il en est ainsi du choix du système politique, économique, social et culturel et de la formulation des relations extérieures. L’intervention est illicite lorsque à propos de ces choix, qui doivent demeurer libres, elle utilise des moyens de contrainte. Cet élément de contrainte, constitutif de l’intervention prohibée et formant son essence même, est particulièrement évident dans le cas d’une intervention utilisant la force soit sous la forme directe d’une action militaire soit sous celle, indirecte, du soutien à des activités armées subversives ou terroristes à l’intérieur d’un autre Etat" (par. 205). E la Corte approfondisce la questione : "Or, un certain nombre d’exemples d’interventions étrangères dans un Etat au bénéfice de forces d’opposition au gouvernement de celui-ci ont pu être relevées au cours des dernières années. La Cour ne songe pas ici au processus de décolonisation. Cette question n’est pas en cause en la présente affaire. La Cour doit examiner s’il n’existerait pas des signes d’une pratique dénotant la croyance en une sorte de droit général qui autoriserait les Etats à intervenir, directement ou non, avec ou sans force armée, pour appuyer l’opposition interne d’un autre Etat dont la cause paraîtrait particulièrement digne en raison des valeurs politiques et morales avec lesquelles elle s’identifierait. L’apparition d’un tel droit général supposerait une modification fondamentale du droit international coutumier relatif au principe de non-intervention" (par. 206). La risposta della Corte è recisamente negativa al quesito: "La Cour constate … que le droit international contemporain ne prévoit aucun droit général d’intervention de ce genre en faveur de l’opposition existant dans un autre Etat. Sa conclusion sera que les actes constituant une violation du principe coutumier de non-intervention qui impliquent, sous une forme directe ou indirecte, l’emploi de la force dans les relations internationales, constitueront aussi une violation du principe interdisant celui-ci" (par. 209). Viene precisato che il conflitto tra le forze contras e quelle del governo del Nicaragua è un conflitto armato che "non presenta un carattere internazionale", mentre le azioni degli Stati Uniti nel Nicaragua e contro di esso concretano "conflitto internazionale" (par. 219). La Corte risponde affermativamente all’accusa nicaraguense per cui gli Stati Uniti avevano violato il divieto dell’uso della forza "en recrutant, formant, armant, équipant, finançant, approvisionnant et en encourageant, appuyant, assistant et dirigeant de toute autre manière des actions militaires et paramilitaires au Nicaragua et contre celui-ci": constata infatti che "les Etats-Unis, par leur assistance au contras au Nicaragua, ont commis prima facie une violation de ce principe en « organisant ou encourageant l’organisation de forces irrégulières ou de bandes armées … en vue d’incursions sur le territoire d’un autre Etat» et en « participant à des actes de guerre civile… sur le territoire d’un autre Etat», selon les termes de la résolution 2625 (XXV) de l’Assemblée générale. D’après cette résolution, une semblable participation est contraire au principe interdisant l’emploi de la force quand les actes de guerre civile en question « impliquent une menace ou l’emploi de la force»". E si aggiunge, quanto all’invio di ausilii finanziari ai ribelli, che "il constitue à coup sûr un acte d’intervention dans les affaires intérieures du Nicaragua" (par. 228).
 
Entrando più specificamente nelle accuse nicaraguensi con riguardo alla violazione del divieto di non ingerenza da parte degli Stati Uniti, la Corte prende in considerazione la questione che le attività militari e paramilitari contro il governo e il popolo nicaraguense hanno, secondo il Nicaragua, due obiettivi: " a) renverser le gouvernement légal actuel du Nicaragua et le remplacer par un gouvernement acceptable pour les Etats-Unis; b) affaiblir substantiellement l’activité économique et le régime politique afin de contraindre le gouvernement du Nicaragua à accepter les principes d’action et les exigences politiques des Etats-Unis" (par. 239). In proposito viene osservato che, al di là degli obiettivi finali eventuali degli Stati Uniti, "Il paraît clairement établi… tout d’abord que le gouvernement des Etats-Unis, par son soutien au contras, entendait exercer une pression sur le Nicaragua dans des domaines où chaque Etat jouit d’une entière liberté de décision en vertu du principe de souveraineté… ; et ensuite que le dessein des contras eux-mêmes était de renverser le gouvernement actuel du Nicaragua…. La Cour considère qu’en droit international si un Etat, en vue de faire pression sur un autre Etat, appuie et assiste, dans le territoire de celui-ci, des bandes armées dont l’action tend à renverser son gouvernement, cela équivaut à intervenir dans ses affaires intérieures…" (par. 241). Di conseguenza "l’appui fourni par les Etats-Unis aux activités militaires et paramilitaires des contras au Nicaragua, sous forme de soutien financier, d’entraînement, de fourniture d’armes, de renseignements et de soutien logistique, constitue une violation indubitable du principe de non-intervention" (par. 242). Sempre secondo la Corte, il principio di non ingerenza "perdrait assurément toute signification réelle comme principe de droit si l’intervention pouvait être justifiée par une simple demande d’assistance formulée par un groupe d’opposants dans un autre Etat … On voit mal en effet ce qui resterait du principe de non-intervention en droit international si l’intervention, qui peut déjà être justifiée par la demande d’un gouvernement, devait aussi être admise à la demande de l’opposition à celui-ci. Tout Etat serait ainsi en mesure d’intervenir à tout coup dans les affaires intérieures d’un autre Etat, à la requête tantôt de son gouvernement, tantôt de son opposition. Une telle situation ne correspond pas, de l’avis de la Cour, à l’état actuel du droit international" (par. 246).
 
Vengono formulate ancora considerazioni di grande peso dalla C. I. G. nel rigettare l’argomento statunitense di giustificazione del sostegno ai contras, secondo il quale "le gouvernement du Nicaragua aurait manqué à ses « engagements solennels envers le peuple nicaraguayen, les Etats-Unis et l’Organisation des Etats américains». Ces manquements auraient mis en jeu des questions comme la composition du gouvernement, son idéologie et son alignement politique, son caractère totalitaire, les droits de l’homme, la militarisation et l’agression" (par. 257). Ma al riguardo la Corte categoricamente osserva che "les orientations politiques internes d’un Etat relèvent de la compétence exclusive de celui-ci, pour autant, bien entendu, qu’elles ne violent aucune obligation de droit international. Chaque Etat possède le droit fondamental de choisir et de mettre en œuvre comme il l’entend son système politique, économique et social…" (par. 258). Il giudice internazionale non riscontra violazioni del diritto convenzionale da parte nicaraguense e rigetta ulteriori argomenti statunitensi. In particolare che "le Congrès des Etats-Unis a …. exprimé l’opinion que le gouvernement du Nicaragua avait pris des « mesures révélant l’intention d’établir une dictature communiste totalitaire». Quelque définition qu’on donne du régime du Nicaragua, l’adhésion d’un Etat à une doctrine particulière ne constitue pas une violation du droit international coutumier : conclure autrement reviendrait à priver de son sens le principe fondamental de la souveraineté des Etats sur lequel repose tout le droit international, et la liberté qu’un Etat a de choisir son système politique, social, économique et culturel. En conséquence, les choix politiques internes du Nicaragua, à supposer même qu’ils répondent à la description qui en est donnée dans la conclusion du Congrès, ne peuvent pas légitimer sur le plan juridique les diverses conduites reprochées aux défendeurs [gli Stati Uniti : n. d. r. ] à son égard. La Cour ne saurait concevoir la création d’une règle nouvelle faisant droit à une intervention d’un Etat contre un autre pour le motif que celui-ci aurait opté pour une idéologie ou un système politique particulier" (par. 263). E ancora : "les mêmes considérations s’appliquent aux critiques exprimées par les Etats-Unis à propos de la politique extérieure et des alliances du Nicaragua. Il suffit de constater que la souveraineté d’un Etat s’étend à l’évidence au domaine de sa politique extérieure et qu’il n’existe pas de règle de droit international coutumier empêchant un Etat de choisir et de conduire une politique extérieure coordonnée avec celle d’un autre Etat" (par. 265). Riguardo all’accusa di violazione nicaraguense di diritti dell’uomo, la Corte sottolinea che, "quand les droits de l’homme sont protégés par des conventions internationales, cette protection se traduit par des dispositions prévues dans le texte des conventions elles-mêmes et qui sont destinées à vérifier ou à assurer le respect de ces droits" (par. 267). E quindi, "si les Etats-Unis peuvent certes porter leur propre appréciation sur la situation des droits de l’homme au Nicaragua, l’emploi de la force ne saurait être la méthode appropriée pour vérifier et assurer le respect de ces droits [corsivi nostri]. Quant aux mesures qui ont été prises en fait, la protection des droits de l’homme, vu son caractère strictement humanitaire, n’est en aucune façon compatible avec le minage de ports, la destruction d’installations pétrolières ou encore l’entraînement, l’armement et l’équipement des contras" (par. 268). Abbiamo posto in evidenza passi della sentenza di peculiare pregnanza per il discorso del prossimo paragrafo.
 
Le riportate espressioni della Corte internazionale di giustizia appaiono particolarmente pungenti e il lettore intelligente saprà farne applicazione nei confronti dei comportamenti degli Stati che pretendono di tutelare i diritti dell’uomo nei riguardi della Libia. Punto fermo è che il dispositivo della sentenza condanna comunque gli Stati Uniti d’America per l’illecito intervento nei fatti interni e l’uso della forza contro uno Stato sovrano, il Nicaragua (par. 292).
 
Va subito annotato che non vi è certo stato mutamento del diritto internazionale per quel che è dei principii fondamentali qui considerati. I punti stabiliti dalla Corte internazionale di giustizia potranno trovare applicazione riguardo a diversi problemi che toccheremo in seguito. Ma a ben vedere essi confermano la rappresentazione che abbiamo espressa sui dati basilari del diritto internazionale e della Carta N. U. e in specie quelli desumibili dal più volte ricordato art. 3 del II Protocollo di Ginevra.
 
3. La norma citata del II Protocollo di Ginevra tocca un punto focale dell’attuale diritto internazionale, sul quale occorre un’adeguata riflessione, che qui può semplicemente abbozzarsi: il rapporto fra diritto umanitario e dei diritti umani e i profili-cardine del sistema internazionale relativi all’indipendenza-sovranità degli Stati e alla non ingerenza nei fatti interni, i profili cioè noverati in precedenza.
 
Si tratta del nucleo duro della sovranità-indipendenza dello Stato che può subire compressioni, cioè limitazioni obbligatorie nell’esercizio della libertà interna dello Stato stesso (rapporto Stato-sudditi o cittadini in primis), ed eventuali "sollecitazioni" reattive dall’esterno, solo nel quadro di norme positive precisamente e puntualmente formulate, con tutta la relatività congrua con i contesti proprii dei diversi Stati, e ciò anche riguardo alle possibili reazioni di altri Stati, pure attraverso organi internazionali competenti, nel caso di violazioni dei considerati obblighi internazionali: le reazioni solo positivamente previste o necessariamente implicite, mai però reazioni che travolgano il nucleo duro della sovranità-indipendenza. Il citato art. 3 del II Protocollo è appunto emblematico.
 
Questo è vero, come principio-base, nell’ambito delle N. U. alla stregua dell’art. 2, par. 7, Carta, la norma che nel quadro N. U. fa salvo in principio il dominio riservato o competenza esclusiva degli Stati per gli affari interni, una norma che è il riflesso di quella generale sull’indipendenza politica e l’uguaglianza sovrana degli Stati e la non ingerenza nei fatti interni: di conseguenza tutto ciò vale anche in ambiti generali, nei confronti di norme internazionali che mirino ad un’incidenza in particolare sul rapporto fra Stato e individui sotto la sua sovranità. Sembra evidente come il sistema normativo che si è prima delineato faccia centro sul principio di sovranità-indipendenza e fra l’altro risponda alle esigenze del superamento del colonialismo e del contrasto nei confronti di una restaurazione di questo.
 
Soffermiamoci sulle controtendenze sempre più travalicanti, le quali, senza cancellazione per l’essenziale - così fermamente riteniamo - dei quadri normativi ereditati, appaiono congeniali, al di là dei "nobili" intenti professati, ad operazioni di restaurazione. Avvertiamo qui incidentalmente che il presente paragrafo e il successivo nascono, come accennato, da un’esigenza di almeno iniziale riflessione su problemi di fondo del sistema N. U. e del diritto internazionale, sollecitata certo ora dai gravissimi fatti di Libia, problemi di fondo rispetto ai quali attualmente vengon fatte predominare di gran lunga soluzioni "adattive", e cioè di adagiamento su prassi senza dubbio operanti nella realtà nel contesto di (almeno supposta) acquiescenza generalizzata, traenti vigore dalla evocata appariscente "nobiltà" di intenti, ma che, nell’irresistibile sequenza di travolgimenti delle norme della Carta e dei principii generali corrispondenti, giungono ad esiti di integrale rottura del sistema internazionale e della stessa Carta nei loro dati essenziali. E, per chi guardi alla sostanza delle cose, alla restaurazione, come già suggerito, e magari in forme larvate, di antichi dominii. Ecco la necessità della riflessione che viene qui proposta, pur nella consapevolezza che solo un’attiva resistenza degli Stati contro le prassi prevaricanti e concomitanti prese di posizione dottrinali potrebbero arrivare a sbocchi correttivi. Di qui ancora una considerazione: questi due paragrafi potranno venir "saltati" dall’indulgente lettore, dato che successivamente si tenterà di argomentare sul piano giuridico la critica e il rigetto dell’attacco alla Libia anche al di fuori della revisione interpretativa (e meglio forse di ripristino) proposta circa i due profili oggetto del presente paragrafo e del seguente.
 
Si cominci dal discorso sui diritti umani (e sul diritto umanitario), il vasto terreno rispetto al quale si arriva oggi a considerare superato o fortemente attenuato il dominio riservato dello Stato, nel quadro N. U. e anche al di fuori. È il terreno privilegiato di (detto sommessamente, non di rado) improbabili benché accreditate figure relativamente nuove, quali gli obblighi erga omnes o, come usa raffigurarsi, verso la "comunità internazionale" (anche quest’ultima, di per sé, una discutibile configurazione), per la cui violazione Stati singoli o in forma associata potrebbero reagire uti universi nei confronti dello Stato asserito violatore, con tanti saluti per il dominio riservato e la non ingerenza. Con i diritti umani, nella generale rappresentazione di oggi, saremmo, al di là delle pertinenti norme positive in massima convenzionali e valide, lo abbiamo detto, per ambiti soggettivi e con portata e significati oggettivi diversificati da contesto a contesto, a fronte di una sorta di diritto naturale che si imporrebbe a tutti gli Stati in modo uniforme. Si configurano norme internazionali generali non sempre dimostrabili in modo certo, e che travalicherebbero le eventuali norme convenzionali esistenti per le singole materie, soprattutto aprendo la strada, nel caso di asserita violazione, a reazioni eccedenti quelle contemplate dai vigenti quadri convenzionali[12]: nella realtà fattuale, peraltro, secondo le scelte e le indicazioni (di elenco e gerarchia dei "diritti": si pensi a quelli civili e politici e a quelli economici e sociali e al loro reciproco rapporto) degli Stati "forti" autoergentisi ad amministratori e giudici, nei confronti di tutti, dei diritti umani, configurati pertanto, questi diritti, ad immagine e somiglianza delle concezioni e pratiche - per vero poi neppur sempre fedeli alle affermazioni di principio - di quegli Stati "forti". Dunque ideologia, e cattiva ideologia (perché pretende di raffigurare come generali o addirittura universali "valori" proprii di una parte). A ben vedere, sono in gioco concezioni che mirano a scalzare "regimi" esistenti e non graditi e, tanto per ripeterci, a uniformare tutti a un dato modello, quello occidentale.
 
Partiamo da un’enunciazione e dal conseguente ragionamento di un Maestro come Rolando Quadri circa la posizione della problematica dei diritti umani nella Carta N. U. L’enunciazione illumina sul divario tra diritto positivo o vigente ed ideologia, quella che, per ripeterci, negli anni recenti e sempre più gravosamente impedisce un corretto intendimento dei diritti ed obblighi reciproci degli Stati in materia e vale come supporto e copertura delle pretese degli Stati, ovviamente quelli "forti", inalberanti il vessillo della "giustizia" quale da essi intesa. Ancora una volta, si richiama la gustosa annotazione di cui sopra, centrata sull’ipotesi di "abuso dei diritti umani". Mi auguro di non provocare turbamenti in chicchessia.
 
Afferma Quadri: "Né si dica che tutte le materie delle quali si occupa la Carta (e fra queste il trattamento dei sudditi) sarebbero state trasformate da questioni "interne", "domestiche", "nazionali", in questioni "internazionali", in ordine alle quali sarebbe dunque possibile l’ "intervento" degli organi delle N. U. o almeno qualche specie di intervento, sia pure non particolarmente penetrante. Infatti è senz’altro da respingere l’opinione a termini della quale la Carta imporrebbe agli Stati l’obbligo di rispettare i c. d. diritti dell’uomo, opinione che non tiene conto del carattere assolutamente vago ed elastico, non precettivo e forse neppure programmatico (in quanto semplice manifestazione di credenze), delle relative enunciazioni. D’altro lato, anche per il caso in cui degli obblighi venissero a crearsi a tale riguardo, l’art. 2, par. 7, ha cura di precisare con l’espressione «essenzialmente» che una questione resta di competenza esclusiva degli Stati anche quando essa subisca una certa pressione da parte del diritto internazionale, se per sua fondamentale o essenziale natura la questione stessa si connetta al modo di essere e funzionare di un ente sovrano[corsivo nostro]". Di fronte a chi fa valere i diversi articoli della Carta che menzionano i diritti dell’uomo, Quadri sottolinea che in essi le finalità "hanno carattere programmatico e non precettivo" e che si tratta di "obbligo talmente vago che la forma e le estensioni della cooperazione dipendono dalla volontà di ogni Stato membro". E non spetta secondo Quadri agli organi delle N. U. interpretare autoritativamente la Carta: se questa "non è che una convenzione fra Stati e va considerata come un complesso di limiti alla loro autonomia, la sfera di tali limiti essendo convenzionalmente stabilita non può essere rimessa ad una delle parti (gli organi delle N. U. ), essendoché esiste un diritto subiettivo dei singoli Stati verso l’Organizzazione a che questa non invada il dominio loro riservato: non possono dunque logicamente essere gli organi la cui competenza si tratta di limitare ad essere giudici di tale competenza". Per stringere: "Se, dunque, il limite della competenza esclusiva è formalmente organico e costituzionale e il suo apprezzamento non è rimesso in alcun modo, per la decisione in ordine alla sua portata, agli organi delle N. U. , si deve concludere che la sovranità nel senso di autonomia interna è stata rispettata dalla Carta… d’altro lato il limite della competenza esclusiva… è formalmente assoluto nel senso che esso esclude ogni forma di ingerenza ("intervenire" vuol dire in questo caso non solo decidere misure militari o meno o fare raccomandazioni, vuol dire investirsi a qualunque titolo e in qualsiasi forma della questione). Ne consegue che le dichiarazioni della Carta [sui diritti umani, n. d. r. ] al più sono enunciative di semplici programmi, la cui realizzazione dipende esclusivamente dagli Stati"[13]. Chiaro che il principio vale a fortiori fuori dalle N. U. , salvo specifiche normative positive, che certamente da quell’epoca si sono peraltro effettivamente moltiplicate, ma senza alterare il dato di fondo della sovranità-indipendenza degli Stati (se non nelle pretese di arbitrarii intervenienti o aspiranti tali). Di assoluta regola, le convenzioni sui diritti umani e sul diritto umanitario, anche in caso che le violazioni siano ritenute gravi e persino qualificabili come crimini internazionali, prevedono misure reattive relativamente tenui e comunque non certo inclusive di interventi armati: è il modello dell’art. 3 del detto II Protocollo. Si pensi ad es. al Patto delle N. U. sui diritti civili e politici del 1966 che prevede semplicemente un Comitato per ricevere reclami di Stati o individui e rapporti degli Stati che non portano a decisioni vincolanti.
 
Vero è che poi lo stesso Quadri, procedendo dalla riserva di cui all’art. 2, par. 7 in fine, Carta (vedi più avanti) nel senso che resta impregiudicata, nonostante il generale principio di non ingerenza, l’applicazione di misure coercitive a norma del Cap. VII, arriva a sostenere che verrebbe rivelandosi una tendenza, anche al di là della situazione di riferimento dello stesso art. 2, par. 7 in fine, e dei suoi presupposti (minaccia alla pace ecc. ex art. 39 Carta), nel senso della "corrodibilità" del principio di competenza esclusiva attraverso l’affermarsi di corrispondenti prassi soprattutto in sede N. U. Dunque, che nell’attività di queste si manifesterebbero, anche a prescindere da quella riserva (su cui si riprenderà il discorso), ma ad es. sul generale terreno del diritto umanitario e dei diritti umani, tendenze a superare i limiti della Carta in quanto documento convenzionale. Deve però riconoscersi, afferma l’insigne autore, "che le N. U. , nonostante tutto, non siano sempre riuscite a porsi su un piano costituzionale", quale sarebbe appunto quello espresso dalle dette tendenze[14]. A nostro parere, e vi ritorneremo, ciò può essere pure avvenuto in fatto in alcuni casi recenti, ma è restato bloccato, ad es. rispetto a situazioni coinvolgenti Stati "potenti", in particolare dotati del "veto" in C. d. s. , quali Russia e Cina: e questo impedisce di considerare come giuridicamente superato in via generale, almeno per la materia in discorso, il limite della competenza esclusiva dello Stato, per relegare invece tali ipotesi di prassi entro una valutazione di superamento non legittimo, da parte del C. d. s. , del limite di cui si discute.
 
Certo è dunque che la questione generale vada impostata in termini di realizzazione normativa per il diritto umanitario e i diritti umani e quindi in un quadro strettamente positivo: pertanto, al di là di esigue ricadute normative nel diritto internazionale generale (gross violations, ma anche qui in principio senza legittimare interventi "reattivi", anzitutto armati, di Stati agenti uti universi, come appunto saggiamente opina Conforti, il quale però sembra ammetterli in sede N. U. [15]), solo sulla base delle norme convenzionali in materia, con tutti i limiti, come si è detto, di ambiti oggettivi, soggettivi, di relatività storico-politica di significati e valori, nonché di gerarchia fra questi: soprattutto, ed è considerazione di peso, in rapporto alle discipline inerenti ad eventuali violazioni (si ricorda la citata sentenza C. I. G. sul caso Nicaragua-Stati Uniti, specialmente i par. 267 e 268). In tale contesto il citato art. 3 del ricordato II Protocollo mostra, ancora una volta va ribadito, il suo decisivo valore emblematico. Le violazioni di norme umanitarie, norme che le parti del II Protocollo si sono obbligate ad applicare ai conflitti interni di un dato tipo, ad esempio, possono dar luogo alle conseguenze giuridiche desumibili dal sistema per le violazioni del diritto umanitario (non essendone previste di specifiche nel detto Protocollo), ma in nessun caso ad interventi attivi esterni (tanto meno con la forza), il cui divieto - lo abbiamo citato - viene esplicitamente salvaguardato. E i conflitti interni, nonostante ogni conclamata violazione "umanitaria", restano tali, non ne possono derivare incidenze sulla sovranità-indipendenza di uno Stato nei confronti degli altri: salvo nella realtà esondazioni consistenti che turbino le relazioni con altri Stati senza responsabilità di questi, essi - in particolare sotto il profilo umanitario - non possono, ad es. , venir legittimamente di per sé - come subito si ribadirà - considerati motivo di ingerenza esterna né fonti di pericolo per la pace e la sicurezza internazionali (art. 39 Carta, vedi par. seguente). Soprattutto, non potrà impedirsi o sottrarsi al governo legittimo la possibilità di contrasto e repressione dell’insurrezione o simili, in forza di asserite violazioni dei diritti umani e del diritto umanitario, che potranno solo dar luogo alle reazioni più tenui normativamente previste, per l’essenziale secondo i quadri convenzionali applicabili. Il più spinto atteggiamento riguardo ad asserite violazione dei "diritti umani", nei limiti in cui esigibili da altri Stati in base ed in rapporto con la relatività dei diversi sistemi economico-sociali, appare la "pressione" o "sollecitazione" sugli Stati perché li attuino, non la sostituzione attraverso un’attuazione con la forza dall’esterno[16].
 
Va respinta dunque la prassi esorbitante del C. d. s. tanto a titolo autonomo di violazione dei diritti umani e del diritto umanitario quanto - secondo il discorso che verrà svolto tra breve - in base all’invocata deroga dell’art. 2, par 7 in fine.
 
Vero è che in tutto il settore indicato si afferma però al giorno d’oggi, come si è già rilevato, e potremmo ravvisare in ciò uno sviluppo di date considerazioni di Quadri su riportate, una tendenza dottrinale che mira a giustificare gli strappi verificantisi nella prassi delle N. U. : dunque, secondo quanto si è già accennato, nel senso di una sottrazione crescente di questioni alla competenza esclusiva dello Stato in tema di diritto umanitario e diritti dell’uomo. Si fa valere l’acquiescenza diffusa degli Stati rispetto a tali strappi[17]. A nostro avviso prevale il diniego anche di pochi Stati, soprattutto la resistenza legittima di quello preso di mira. E conta che, sulle questioni interne, taluni Stati con "diritto di veto", lo si è detto, sono intransigenti per se stessi o per Stati sodali, pur se a volte invece cedevoli e corrivi - per interessi e calcoli politici talora imperscrutabili, come nelle due risoluzioni del C. d. s. contro la Libia- a danno di Stati "minori". Non possono ritenersi modificati i principii basilari del diritto internazionale. Soprattutto per quel che concerne poi le reazioni contro (asserite) violazioni. Tali reazioni devono limitarsi a quelle positivamente previste e, lo riaffermiamo, mai potrebbe comunque toccarsi il nucleo duro della sovranità-indipendenza dello Stato (modo di essere e funzionare di un ente sovrano). È qui utile ricordare i pertinenti passi già menzionati della sentenza C. I. G. nel caso Nicaragua-Stati Uniti (specialmente i par. 257, 258, 263). Così come all’esterno nessuna misura del C. d. s. potrebbe impedire o eliminare la possibilità (libertà di fatto) di "legittima difesa" dello Stato contro un attacco armato[18], così, e tantomeno, può venire lecitamente intaccata la funzione di governo di uno Stato nel contrasto e repressione di un’insurrezione interna e simili o, più in generale, nella gestione del rapporto fra Stato e individui soggetti: reazioni contro eventuali violazioni di obblighi (in particolare, convenzionali) in materia non potranno lecitamente arrivare all’intervento armato, al mutamento di regime dall’esterno, a sanzioni devastanti. Come a qualunque operazione mirante a sconvolgere e scompaginare la struttura di governo, quali misure mirate a decapitare la leadership di uno Stato, ad es. con proclamate incriminazioni da parte di istanze "giudiziarie" di origine o conio internazionale, caratterizzate poi da nulla o dubbia legittimità sulle questioni in discorso[19].
 
Sia entro le N. U. che al di fuori di esse (l’intervento c. d. umanitario resta comunque vietato): tanto è vero che l’attuale prassi distorta delle N. U. normalmente fa ricorso, anche dove si ipotizzino violazioni dei diritti umani, crimini internazionali e così via, alla scivolosa nozione di "minacce alla pace" e dunque ad un utilizzo "estensivo" tanto di questa categoria ex art. 39 Carta, quanto della clausola finale dell’art. 2, par. 7 in fine, nel quadro del Cap. VII della Carta, per la deroga alla competenza esclusiva dello Stato.
 
In conclusione e sintesi: i diritti umani e il diritto umanitario in tanto rappresentano elementi di progresso in quanto, anzitutto, non vengano utilizzati per attentare al principio basilare della sovranità-indipendenza degli Stati, che resta principio sovraordinato.
 
4. Eccoci dunque specificamente all’eccezione espressa al principio fondamentale di non intervento negli affari interni (art. 2, par. 7, Carta) davanti a misure coercitive del C. d. s. ex Cap. VII Carta (art. 2, par. 7 in fine).
 
Compito del C. d. s in questo ambito e su dati presupposti (art. 39 Carta) è fra l’altro -oltre a raccomandazioni sulla situazione - decidere (art. 41 ss. ) misure degli Stati (senza uso della forza) o sotto proprio comando e controllo, se del caso con delega al segretario generale (azioni con la forza, utilizzando contingenti forniti dagli Stati membri) esclusivamente al fine circoscritto, in situazioni concrete, di bloccare atti di aggressione o rottura della pace internazionale o sventare minacce incombenti alla pace e sicurezza internazionali: con eventuale puntuale e temporanea incrinatura del diritto vigente, dei quadri normativi internazionali, ma senza modifiche definitive di questi né tanto meno forzate alterazioni dei regimi degli Stati presi di mira. Correttamente Quadri[20] parla di misure esecutive (per quelle con la forza si ricorre anche alla nozione di "azioni di polizia internazionale"). Si deve intendere che il principio del non intervento (delle N. U. , cioè degli Stati nel contesto N. U. per quel che qui compete) nelle questioni "che appartengano essenzialmente alla competenza interna di uno Stato" (il detto art. 2, par. 7) non può venire vanificato dalla clausola finale dello stesso paragrafo, secondo cui ciò "non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive a norma del Cap. VII": come sarebbe, ed è secondo quanto accade nella prassi soprattutto più recente delle N. U. , se si ritenesse, come per lo più si ritiene, un’assoluta discrezionalità del C. d. s, così come nell’esordio abbiamo anticipato, nell’individuare una "minaccia alla pace", classificandola (o comunque equiparandola) come internazionale pur trattandosi di situazione "essenzialmente interna" (aggiungendosi poi a ciò - con alterazione del sistema degli artt. 41, 42, 43 ss. Carta - la piena discrezionalità ritenuta pure per la scelta delle misure da applicarsi anche al di là delle tipologie fornite dalle norme, per quanto non tassative ma in ogni modo significativamente indicative, e per la scelta dei mezzi per attuarle). Il principio di non intervento negli affari interni secondo questa ottica risulta dunque nullificato.
 
Da un punto di vista di logica puramente formale, l’art. 2, par. 7 in fine, Carta viene preso in considerazione, secondo il senso estensivo ad esso usualmente ascritto, quale elemento decisivo di interpretazione dell’art. 39 (per estendere questo alle questioni interne): in tal senso esso viene dunque giocato come elemento per la torsione dell’art. 39, in sé e per sé quest’ultimo essendo mirato a situazioni internazionali. Secondo l’impianto originario non solo del Cap. VII, ma anche del Cap. VI Carta (senza qui sviluppare il discorso). In altri termini, se si considera, come sembrerebbe più esatto, l’art. 39 quale norma cardine per l’azione del C. d. s. di fronte alle tre contemplate ipotesi negative relative alla pace e sicurezza internazionali, in forza del tenore letterale e di tutto il sistema per sé mirate a situazioni interstatali (eventualmente anche interne nell’origine, ma in quanto esondanti), l’art. 2, par. 7 in fine, semplicemente salvaguarda la possibilità di misure coercitive che, applicate rispetto a situazioni (originariamente o per esondazione) internazionali, in sé vengano ad incidere (di mero fatto e transitoriamente) su situazioni interne di uno Stato. Se ne è invece voluta fare norma che, consacrando - dal punto di vista dell’ambito delle situazioni cui reagire ex art. 39 Carta - una generale e illimitata possibilità di misure coercitive a discrezione del C. d. s. , altera il significato letteralmente e sistematicamente perspicuo dell’art. 39, con le tragiche conseguenze che ci stanno sotto gli occhi, e che sfociano nell’"internazionalizzare" questioni interne e rendono nei fatti molto più arduo, sanguinoso e costoso perseguire l’obiettivo della pace, anzi addirittura negandolo.
 
Sembra imperativo invece un criterio di interpretazione[21]: la previsione di una deroga a un principio fondamentale non può venire intesa in modo da vanificare integralmente il principio stesso. La prassi sviluppatasi e la dottrina prevalente che con quella concorda portano, attraverso la catena di discrezionalità crescenti l’una sull’altra, ad assegnare al C. d. s. una posizione di legislatore mondiale, con attribuzioni incidenti persino su situazioni interne, addirittura del nucleo più essenziale, degli Stati e financo su rapporti di tipo interindividuale. È una deriva che dir preoccupante è poco. Per fermarla occorre la resistenza degli Stati e, quanto alla dottrina, il compito di raccogliere gli attestati di tale resistenza e comunque le contestazioni e critiche, al fine in ogni caso di avviare con energia un’opera di ripristino del sistema genuino della Carta N. U. [22]
 
Per cominciare, la deroga in questione (riserva dell’art. 2, par. 7 in fine) non potrebbe toccare la fase dell’accertamento della fattispecie (art. 39: in particolare, minaccia alla pace e sicurezza: internazionali, perché tali sono indicate espressamente quelle da "mantenere o ristabilire"), che quindi, almeno al fine successivo dell’applicazione di misure coercitive, non potrebbe riconnettersi a fatti puramente interni, salvo se si manifestassero, come già detto, esondazioni esterne tali da suscitare, ad es. ma non solo, problemi di autotutela per altri Stati. Si tratta qui di una distinzione non certo seguita nella prassi e disattesa o respinta dalla dottrina: con la conseguenza, già lo si è ricordato, dei gravi effetti degenerativi, soprattutto di aggravamenti nelle situazioni di guerre civili e di distruzione di Stati sovrani. È pertanto l’applicazione di misure, adottate su base e per ambito corretti, che eccezionalmente potrebbe in sé (soprattutto ex art. 42, misure con la forza) toccare sfere interne, ad es. per lo stabilimento di forze di interposizione in situazioni fuori dal consenso dello Stato territoriale, ma esclusivamente per parare o fare regredire la minaccia alla pace (e quindi senza toccare il nucleo essenziale della sovranità dello Stato). Proprio per questo, peraltro, anche se il sistema di sicurezza collettiva delle N. U. ex art. 43 ss. Carta non è venuto in essere, le azioni ex art. 42 possono poi legittimamente intervenire solo con sistemi succedanei, mai fuori da controllo e comando N. U. , quindi eventualmente con delega dal C. d. s al segretario generale: in nessun caso, e ciò ancor una volta contro la prassi attuale, con l’utilizzazione di un’ "autorizzazione" o "delega", inammissibile senza dubbio in principio, a Stati (quanto alle organizzazioni internazionali regionali ex Cap. VIII, esse devono essere quelle "competenti" per area o per difesa contro attacchi esterni: appaiono aberranti gli interventi NATO in Jugoslavia, Afghanistan, Libia). E, come già suggerito, le misure non possono essere per sovrappiù, con inaccettabile formula "generica", quelle "ritenute necessarie" dagli Stati abusivamente "autorizzati" (quelli che si offrono, i "volenterosi"). Il sistema di sicurezza collettiva delle N. U. deve essere improntato, per quanto possibile - nei limiti dati dall’esistenza del contraddittorio sistema del "veto" dei cinque membri permanenti - alla neutralità e imparzialità: non può restare subordinato a scelte e interessi di Stati.
 
Abbiamo cercato di valutare la prassi attuale del C. d. s. , suggerendo anzitutto operazioni interpretative dell’art. 2, par. 7 in fine in rapporto all’art. 39 Carta (la distinzione fra accertamento dei presupposti e applicazione delle misure coercitive) e poi suggestioni riguardo alle misure applicabili (riferimento sia pure lasco alle tipologie degli artt. 41 e 42 Carta) e dei mezzi di attuazione (sistema equivalente a quello inattuato ex art. 43 ss. Carta). Sotto l’aspetto del metodo scientifico, non credo concludente tentare di fondare la legittimazione di prassi extrastatutarie sulla formazione di presunte norme consuetudinarie modificative della Carta. E neanche, sia pur solo caso per caso, sull’acquiescenza degli Stati membri delle N. U. : in realtà, si ribadisce, contraddetta da tante prese di posizione di diversi Stati[23], acquiescenza o consenso che, quando non risulti in veri e propri pacta sceleris[24], non sana le illegittimità-illiceità di misure extrastatutarie. Capisco la riluttanza della dottrina a battere queste strade: si coltiva l’illusione che, almeno in ultima analisi, l’azione delle N. U. e soprattutto del C. d. s. non possa non essere, complessivamente, espressione di legalità internazionale. Ma spesso si tratta, precisamente, di illusione, e bisogna osare di riconoscere che tante volte il fatto (la forza), pur avallato in sede N. U. , resta fatto e non si fa diritto, quando non è direttamente antigiuridico, cioè illecito.
 
In verità, dunque, si tratta di uno sforzo di retta lettura delle norme della Carta, fuori da ogni riconoscimento di valore decisivo alle prassi distorsive degli ultimi decenni. Valore decisivo che pare frutto, fra l’altro, di una sopravvalutazione giuridica della caduta dell’Unione Sovietica: fatto enorme, "catastrofe storica" sotto il profilo politico degli equilibri internazionali e quindi del rispetto e dell’attuazione delle norme internazionali - le ricordate prassi distorsive sono di ciò testimonianza - ma non sotto il profilo giuridico di un mutamento delle fondamentali norme internazionali. A partire da quelle a tutela della sovranità-indipendenza degli Stati (così il divieto di ingerenza), certo calpestate e violate in tante ipotesi, ma appunto violate, non cancellate o alterate, così come attesta il rispetto imposto dagli Stati resistenti - qui chiedo ancora una volta venia, per la temerarietà "impudica" delle chiamate in causa: a partire dalle piccole Cuba e Corea popolare (e oggi dalla stessa Libia, finché possibile) e dagli altri paesi "indipendentisti" dell’America latina sino a giganti quali Russia e Cina (pur fra contraddizioni), al di là delle vociferazioni di esponenti di Stati "forti" e delle escogitazioni della dottrina compiacente e corriva o, nella migliore delle ipotesi, condizionata da visioni ideali di nobile ispirazione, ma che non tengono conto della cruda realtà internazionale. Ritenere che la tutela della sovranità-indipendenza degli Stati sia principio retrogrado o superato è non solo contrario, al di là di ogni apparenza, al diritto vigente, ma porta ad affidare la difesa e l’attuazione di "sacri" principii, sovente astratti, a dati Stati autoaffermantisi come tutori di "valori" asseritamente universali: con il risultato di favorire operazioni selettive, determinate da interessi e scelte concreti, estranee ai conclamati "valori", nella distruzione di Stati e nel rinnovato assoggettamento, in forme larvate, a dominio coloniale o assimilabile.
 
5. Se il discorso sin qui svolto si ritenesse troppo subordinato a possibili variabili interpretative della Carta N. U. , soprattutto in rapporto alla (per me contestabile) prassi recente , varrebbe la pena sottolineare - e così prescindiamo, come suggerito in precedenza, dalle argomentazioni dei paragrafi 3 e 4 - come l’azione del C. d. s. e quindi le sue decisioni resterebbero comunque soggette a limiti incontestabili di legittimità-validità, pur se le discutibilissime prassi attuali non venissero messe in discussione. In questo senso l’esigenza della conformità alla Carta (art. 25), ma se non bastasse, e come esplicitamente anche espresso, la rispondenza ai fini e principii delle N. U. : art. 24, 2 co. , in riferimento soprattutto agli artt. 1 e 2 Carta, fra i quali ruolo primario spetta al primo dei principii, la sovrana uguaglianza degli Stati e l’indipendenza politica di questi. Ciò fra l’altro riconduce alla tutela del nucleo duro della sovranità, quale emblematicamente espressa dal più volte ricordato art. 3 del II Protocollo del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949. Per non parlare, rispetto alle decisioni del C. d. s, di ulteriori limiti di carattere strutturale ed obiettivo, come ci ricorda ad esempio Cadin[25]. Il C. d. s. non può esercitare funzioni "legislative", giudiziarie o quasi giudiziarie: e questo tanto sul piano interstatale quanto - secondo prassi recenti a mio parere abnormi - se mirate a situazioni riguardanti individui[26].
 
Ora, anche la dottrina che, sulla scorta della prassi prevalente e dell’apparente generalizzata "passività" a fronte di essa, ne afferma l’acquisita giuridicità, ricerca limiti al potere del C. d. s. nelle nozioni da ultimo evocate: ma come ignorare che la prassi mostra già qualche travalicamento anche a tali riguardi e che pure qui mancano, sempre apparentemente, reazioni generalizzate espresse? A riprova che la valutazione di illegittimità-illiceità di decisioni del C. d. s. e dei comportamenti conseguenti vada prevalentemente ricondotta ad una rigorosa ricognizione dell’autentico sistema della Carta N. U. e dei suoi fini e principii essenziali.
 
Checché di ciò si pensi in generale (i par. 3 e 4 del nostro discorso), va tenuto fermo ed incontestabile che la Carta esprime, e riconosce, situazioni-base incomprimibili. Il primo, assoluto principio delle N. U. è - sottolineiamo ancora - il rispetto dell’uguaglianza sovrana e dell’indipendenza politica degli Stati (art. 2, 1): si torna così al discorso iniziale. È la situazione primordiale degli Stati che si associano nell’Organizzazione e che, ciò facendo, non rinunciano in alcun modo a tale situazione. Qualunque interpretazione della Carta (o di sue asserite integrazioni per prassi) si deve confrontare con quel limite essenziale e, in quanto principio giuridico, invalicabile. Consideriamo, nell’art. 1 Carta, il primo dei fini enunciati, quello del mantenimento o ripristino della pace, con l’indicazione di misure collettive di prevenzione, rimozione, repressione delle attività contrarie alla pace: riflettiamo che a tale previsione segue immediatamente quella della composizione o soluzione delle controversie interstatali pericolose per la pace e che devono avvenire "in conformità ai principii della giustizia e del diritto internazionale", condizione, è pur vero, non richiamata rispetto al primo fine. Ma non richiamata perché le misure relative a quest’ultimo appaiono, e devono restare, come misure puntuali, eccezionali, di emergenza, e fra l’altro non possono, con una loro applicazione ultronea, eliminare o distruggere la possibilità della soluzione secondo giustizia e diritto internazionale: possono quindi, come già detto, venire costituite solo da azioni puntuali di sbarramento, sventamento e respingimento delle minacce, rotture ecc. (in sé anche con incrinatura momentanea del diritto internazionale e intervento all’interno) ma da far cessare appena possibile perché si passi, se necessario e fattibile, alla composizione e soluzione secondo diritto. Sembra evidente che, in un contesto del genere, il principio di uguaglianza sovrana e di indipendenza politica potrà venire momentaneamente incrinato, ma certo non travolto con il colpire il nucleo centrale della sovranità-indipendenza dello Stato preso di mira[27]. Richiamare qui il disegno normativo che si è tentato di illustrare al nostro par. 2 è senz’altro utile con l’occhio particolarmente sul significato pregnante dei principii riconosciuti dalla sentenza C. I. G. sul caso Nicaragua-Stati Uniti. Sottrarre al governo costituito la possibilità di contrastare efficacemente rivolte interne e favorire in tal modo, ad es. , un mutamento di regime urta frontalmente con il primo dei principii della Carta e non può dunque, direttamente o meno, formare il contenuto di una decisione del C. d. s.
 
È almeno a questa stregua, senza che si dimentichino le altre considerazioni svolte, che vanno valutate le azioni intraprese contro la Libia. Qui possono noverarsi anche talune reazioni di Stati, di cui più avanti. Lo stravolgimento del sistema N. U. , si replica, ha portato alla reviviscenza, sulla scena mondiale, della guerra, l’istituto che la Carta N. U. si era riproposto di bandire, fin dall’esordio, con l’enunciazione dell’obiettivo di "salvare le future generazioni dal flagello della guerra". Ché, invece, guerra si è sviluppata in Iraq, guerra è in Afghanistan, guerra è ora in Libia (e in guerra si era fatta debordare la situazione interna jugoslava).
 

[5] I primi degli Stati, i secondi degli individui-organi (con tutti i dubbi e i i limiti di questa seconda categoria, che non trova mai applicazione nei confronti di esponenti degli Stati “forti”).
[6] Non è modello universale, per verità neppure sotto un profilo politico sostanziale ma certamente non per il diritto internazionale, la “democrazia rappresentativa” di stampo occidentale (il paradigma liberal-democratico). Non entriamo nel merito della validità sostanziale di questo modello anche nei nostri ambienti e sulla sua reale idoneità rappresentativa (così alterata poi nei tempi recenti) per gli Stati che comunque l’adottano (proficua la lettura di CANFORA, Critica della retorica democratica, Bari, 2007): certamente il discorso non varrebbe comunque per altri Stati e ambienti. Basta un minimo di sensibilità storica, sociale, culturale, per comprenderlo. Ma comunque non è sul piano giuridico estensibile a tutti neppure a fronte di norme internazionali convenzionali all’apparenza invocabili. L’autodeterminazione della Carta N.U., e delle norme successive, al di là di un originario significato di autocostituzione e di non ingerenza (v. nota seguente), è quella esterna, per i popoli sotto dominio coloniale o assimilabile. Per i regimi interni, si tratta semplicemente della non ingerenza dall’esterno, nonostante qualche ambigua formulazione: la “volontà popolare”, cui sembra farsi riferimento in testi internazionali pertinenti quali risoluzioni dell’Assemblea generale N.U., non è quella, o solo quella, data da processi elettorali, ma quella comunque risultante dalle lotte politiche interne, o delle forze dominanti ed egemoni, anche lotte armate, rivoluzioni e simili comprese. Non esiste quindi l’autodeterminazione interna come figura internazionale normativamente prevista, certo non sul piano generale, ma in principio neppure a livello convenzionale, se non nel senso negativo della non ingerenza. Così, ad es., CONFORTI, Diritto internazionale, Napoli, 2006, p. 21 ss. Possono fare eccezione puntuali obblighi convenzionali in ambiti ristretti, da valutarsi sempre con circospezione.
La visione opposta è energicamente sostenuta da G. ARANGIO-RUIZ, Droits de l’homme et non intervention: Helsinki, Belgrade, Madrid, in La Comunità internazionale, 1960, p. 453 ss.; IDEM, L’autodétermination dans l’Acte final de Helsinki-Droits des puissances et droits des peuples, San Marino, 1983 ; voce Autodeterminazione (diritto dei popoli alla), in Enc. giur., 1988. E si veda anche, in contrasto, BERNARDINI, Autodeterminazione e sovranità: un ragionamento critico, prolusione per l’a.a. 1998-99 (del 19 marzo 1999), Teramo, 1999. Quella visione, pur ampiamente ed acutamente sostenuta, non persuade, in quanto assume un dato modello come universale e ci sembra confliggere con i processi storici reali (oltre che essere espressione di una determinata ideologia e obiettivamente convergente con gli interessi mondiali degli Stati “forti”). Non può certo pensarsi che gli Stati diversi da quelli liberal-democratici, nell’accettare espressioni sull’autodeterminazione come quelle degli artt. 1 dei due Patti sui diritti dell’uomo del 1966 (e le similari di testi successivi), quando si esprimono nel senso che “tutti i popoli hanno il diritto di autodecisione. In forza di tale diritto essi determinano liberamente il loro statuto e assicurano liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale”, abbiano sottoscritto un atto di suicidio dei rispettivi “regimi”, impegnandosi a seguire un modello alieno, quello occidentale (nessuna indulgenza poi, da parte dello scrivente, nel senso che tale modello esprima realmente l’autodeterminazione di un’entità indistinta, il “popolo”, come contrapposto allo “Stato”). Quelle formule, per avere il preteso valore “universalistico”, ed essere quindi accettabili da ogni Stato, non possono non procedere dal concetto che il “popolo” globalmente considerato non si contrappone, sul piano delle norme internazionali, allo Stato: l’autodeterminazione oggetto di quelle disposizioni è dello Stato (quindi, non ingerenza), nel rispetto, e quindi nella neutralità, del diritto internazionale riguardo ai processi storici interni di determinazione dell’autorità politica esercitante la sovranità interna: processi che certo non si esauriscono in quelli del modello occidentale. Un discorso analogo vale per i “diritti dell’uomo” complessivamente considerati, che non sono, o non sono esclusivamente e prevalentemente, quelli del modello occidentale.
[7] Il principio di autodeterminazione, di cui alla Carta N.U. (art. 1, 2), non fu certo concepito quale elemento di contrapposizione fra popolo e Stato (quest’ultimo inteso come ente corrispondente all’apparato statale esercitante “attualmente” i poteri sovrani): si pensi solo all’art. 73 Carta sui territori “non autonomi”. Esso esprime in via primaria il principio di “autocostituzione” dello Stato in riferimento a territori e popolazioni non soggetti a sovranità altrui o invece sottoposti all’autorità di Stati con riguardo a “territori non propri” (ad es., mandati S.d.N., amministrazioni fiduciarie N.U.…), sulla base dunque di un proprio, autoctono circuito di sovranità popolo-Stato; quindi anche, per gli Stati costituiti indipendenti, la non-ingerenza (v. CONFORTI, op. loc. cit.; BERNARDINI, La Jugoslavia assassinata, Napoli, 2005). L’autodeterminazione esterna si sviluppa dove viene meno l’indicato circuito di sovranità popolo-Stato (ad es. dominio coloniale). 
[8] Cioè, definitiva, stabilizzata, essendo cessato in modo integrale il contrasto, militare o politicamente attivo, dello Stato (o governo) costituito, o di forza autoctona surrogante, e la relativa pretesa, attivamente sostenuta, del reintegro dello status quo.
[9] Le autentiche rivoluzioni si realizzano essenzialmente con forze proprie. Ce le immaginiamo la Rivoluzione di Ottobre del 1917, quella cinese, la cubana, quella libica del 1969 e così via, sponsorizzate e sostenute in modo decisivo dall’esterno? Di solito, ciò avviene invece per le controrivoluzioni.
[10] Cfr. VERRI, Diritto per la pace e diritto nella guerra, Ed. speciali della Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, Roma, 1980, rist. 1987, p. 551 s.
[11] C.I.J. Recueil 1986, p. 14 ss.
[12] Solo eccezionalmente da una convenzione soprattutto multilaterale potrà inferirsi la formazione di una norma generale corrispondente, e solo sulla base di un serio riscontro di usus ed opinio iuris. Ma in massima la mancata accettazione di una convenzione da parte di diversi Stati preclude la formazione della norma generale: troppo facile l’espediente di superare quella mancata accettazione con l’affermare la nascita della norma generale. In nessun caso poi l’ipotizzata norma generale potrebbe sostituire il sistema di reazioni ad eventuali violazioni, prefigurato in sede convenzionale, con figure e strumenti di intervento più penetranti ed invasivi (salvo ovviamente l’improbabile dimostrazione di usus ed opinio iuris in quel senso).
[13] QUADRI, Diritto internazionale pubblico, Napoli, 1968, p.353 ss.
[14] QUADRI, op. cit., p.357.
[15] CONFORTI, Dir. int. Cit., pp. 184 ss., 351 s.
[16] Ma che dovrebbe fare uno Stato a fronte di rivolte, sommosse, manifestazioni armate, specie se sollecitate (o peggio) dall’esterno? Non possiamo che riportarci al II Protocollo di Ginevra del 1977 e alle precise distinzioni da esso espresse.
[17] CONFORTI-FOCARELLI, Le Nazioni Unite cit., p. 149.
[18] CONFORTI-FOCARELLI, op. cit, p. 217.
[19] Non mi soffermerò sui c.d. Tribunali penali internazionali, inclusa la Corte dell’Aia, destinati ad asseriti c.d. crimini (individuali) di diritto internazionale, che continuo a ritenere illegittimi se istituiti dal C.d.s. (Tribunale ad hoc per la ex-Jugoslavia o il Ruanda, ad es.), ma anche in caso di origine convenzionale (come la Corte penale internazionale dell’Aja) fonti di probabili contrasti con le Costituzioni statali, nonché di abusi nelle applicazioni a individui-organi di Stati non parti della convenzione istitutiva: in particolare, di gravi abusi come nel caso delle segnalazioni del C.d.s. delle N.U. alla Corte, che non paiono rientrare nelle competenze statutarie del C.d.s. medesimo (art. 13 b della Convenzione di Roma del 17 luglio 1998, istitutiva della Corte). Nonostante che la tematica tocchi la vicenda libica sulla base delle ris. C.d.s 1970 e 1973 del 2011, non affrontiamo il problema, limitandoci qui ad esprimere l’opinione che si tratti di punti delle risoluzioni specificamente illegittimi – nel quadro della ritenuta illegittimità complessiva delle due risoluzioni stesse – per insussistente verifica iniziale della realtà dei fatti “denunciati” e per il carattere ultroneo del riferimento a posizioni individuali (di ciò cenno ancora più avanti). Questa “giustizia penale internazionale” si configura in concreto costantemente come “giustizia dei vincitori” e/o aggressori (Jugoslavia e comunque Libia), mirando nella sostanza a dare copertura alle aggressioni stesse con il criminalizzare i dirigenti degli Stati colpiti: secondo l’ormai noto “abuso dei diritti umani”.
Di quanti abusi grondi la situazione che stiamo denunciando viene posto in luce da LOSURDO, Orwell, la NATO e la guerra contro la Libia, www.resistenze.org, n. 358 del 4 aprile 2011, che si richiama a un articolo di “The Guardian” del 26 febbraio: “Ufficiali britannici stanno contattando personale libico di grado elevato per metterlo alle strette: abbandonare Muammar Gheddafi o essere processati assieme a lui per crimini contro l’umanità”. Commenta Losurdo: “In effetti, su questo punto non si stancano di insistere i governanti di Londra e occidentali in genere. Essi considerano la Corte penale internazionale alla stregua di Cosa nostra, ovvero alla stregua di un “tribunale” mafioso. Ma il punto più importante e più rivoltante è un altro: ad essere minacciati di essere rinchiusi in carcere per il resto della loro vita sono funzionari libici, ai quali non viene rimproverato alcun reato. E cioè, dopo essere intervenuti in una guerra civile e averla probabilmente attizzata e comunque alimentata, dopo aver dato inizio all’intervento militare ben prima della risoluzione dell’ONU, Obama, Cameron, Sarkozy ecc. continuano a violare le norme del diritto internazionale, minacciando di colpire con la loro vendetta e la loro violenza, anche dopo la fine delle ostilità, coloro che non si arrendono immediatamente alla volontà di potenza, di dominio e di saccheggio espressa dal più forte. Sennonché, la neo-lingua oggi in vigore trasforma le vittime in responsabili di «crimini contro l’umanità» e i responsabili di crimini contro l’umanità in artefici della «giustizia internazionale»”. Ancora per una acuminata critica della Corte penale internazionale, cfr. il pezzo non firmato (quindi redazionale) della rivista tedesca Rot-Fuchs, settembre 2011, Quando i rapinatori si vestono da gendarmi – Al suono di quale piffero danza la Corte internazionale penale dell’Aja?, ove fra l’altro leggiamo: a differenza che a Norimberga, ove furono sottoposti a processo gli autori di gravissimi crimini contro la pace e l’umanità, all’Aja non è stato torto un capello ai mandanti delle mostruosità contro l’ex-Jugoslavia, in Iraq, Afghanistan e Libia. Il 16 maggio Luis Moreno Ocampo, procuratore della Corte penale internazionale, ha emanato un mandato di cattura per il leader libico Gheddafi, il più alto rappresentante di uno Stato sovrano membro dell’ONU, per asseriti crimini contro l’umanità. Non v’è dubbio alcuno che gli ordini per la caccia a Gheddafi e altre personalità del paese nordafricano siano provenuti direttamente dal quartier generale della NATO”. Ciò, viene notato, proprio nel giorno in cui Gheddafi offriva ancora una volta un armistizio ai ribelli. E si continua: “Mentre i bombardatori NATO vanno esenti da pena, il capo del paese aggredito viene trattato come un delinquente comune. Un mondo alla rovescia: i predoni si fanno gendarmi. … la sanguinosa aggressione NATO, che non si è saputo impedire nel C.d.s. con il veto, viene spacciata come semplice azione di polizia al fine di catturare un asserito criminale di guerra posto sotto accusa. La presunzione di innocenza …,regola fondamentale di ogni giustizia penale meritevole di tal nome, viene senza scrupolo eliminata dalla Corte penale internazionale”. Non può mancare il richiamo all’incriminazione del presidente jugoslavo Milosevic da parte del procuratore del Tribunale ad hoc nel 1999, proprio quando cominciarono i bombardamenti NATO. Quindi: “La Corte penale internazionale non è nulla di diverso dal Tribunale penale ad hoc per la ex-Jugoslavia che a suo tempo fu creato nel quadro dell’operazione per la liquidazione di una Jugoslavia indipendente. Ambo le istituzioni non sono strumenti di giustizia internazionale e di giudizio imparziale, bensì solo il braccio giuridico per la presa su Stati più deboli aggrediti dalla NATO”. E viene citato il parere di un esperto, il prof. Johan Galtung: “Accusa e giudici della Corte penale internazionale provengono prevalentemente dall’Occidente. Il maggior numero di accusati sono africani. Ma vi sono ben altri candidati che dovrebbero venire invece in questione per un processo penale. Se si prendono in conto i crimini di guerra compiuti dagli invasori in Iraq e Afghanistan, i primi a dover sedere sul banco degli accusati sarebbero l’ex presidente George W. Bush e il suo successore Barack Obama. La guerra in Iraq è costata in definitiva più di un milione di vite umane. Ma il diritto penale internazionale viene applicato nell’interesse dell’Occidente”. E si conclude che, se è pur vero che alcuni Stati NATO, a differenza degli USA, hanno accettato la giurisdizione della Corte dell’Aja, “è difficilmente prevedibile che questa si attivi nei confronti di tali Stati”.
Risulta violata poi l’immunità internazionale dei dirigenti “incriminati”, sussistente quantomeno finché essi sono in carica: così, ma la riteniamo tesi troppo restrittiva, la sentenza C.I.G. del 14 febbraio 2002, Congo c. Belgio (C.I.J. Recueil 2002, par. 56 ss.). Si tratta anche qui di ferite alla sovranità-indipendenza dello Stato, di cui si vuole decapitare la dirigenza, così promuovendo l’illecito “mutamento di regime”. Sull’illegittimità dei tribunali penali internazionali ad hoc (ma con molte considerazioni più ampie che supportano nostre posizioni espresse in questo scritto) cfr. ARANGIO-RUIZ (G.), On the Security Council’s “Law-Making”, in Riv. dir. int., 2000, n. 3, p. 609 ss., in particolare p. 719 ss.; inoltre KöCHLER, The Security Council as Administrator of Justice?, Wien, 2011 (fra l’altro p. 49 ss., sull’illegittimità delle procedure dell’art. 13 b dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale dell’Aja relativo al deferimento alla Corte da parte del C.d.s. agente ex Cap. VII Carta in rapporto a presunti crimini di guerra, crimini contro l’umanità ecc. di individui-organi in date situazioni riguardanti anche Stati non parti dello Statuto: inter alia, perché implicante modifica della Carta N.U.). Si menziona comunque un passo generalmente ignorato di KELSEN, The Law of the United Nations, London, 1950, p. 738 s., per quel che concerne, sulla base della Carta attuale, l’illegittimità di un tribunale internazionale riguardante individui, che si volesse istituire nel quadro delle N.U.
[20] QUADRI, op.cit., p. 361.
[21] Ricordiamo qui il nostro ONU non deviata o NATO (e oltre): diritto o forza, Teramo, 2002.
[22] Oggi abbiamo fra l’altro, per la Libia, la reazione dei paesi latino-americani dell’ ALBA, di cui più avanti.
[23] Si veda inter alia il Rapporto del Comitato speciale della Carta delle N.U. e del rafforzamento del ruolo dell’Organizzazione del 1998 (Supplemento n. 33, A/53/33), il quale ai par. 45 ss. riproduce il documento presentato dalla Russia (A/AC.182/L100, di cui menzioniamo alcuni punti. “I – Les conditions et critères devant régir l’imposition et l’application des sanctions sont les suivants : 1. L’imposition de sanctions est une mesure radicale qui ne doit être prise que lorsque l’on a épuisé tous les moyens pacifiques de règlement du différend ou du conflit, et uniquement lorsque le Conseil de sécurité a constaté l’existence d’une menace contre la paix, d’une rupture de la paix ou d’un acte d’agression ; 2. L’imposition des sanctions n’est admissible que lorsque a été objectivement établie et constatée dans les faits une menace contre la paix internationale ou une rupture de la paix, et qu’il s’agit essentiellement de la paix et non de la paix entre communautés, clans ou groupes ; 3. Les sanctions doivent être imposées en stricte conformité avec les dispositions de la Charte des Nations Unies et les normes du droit international et de la justice, viser des objectifs bien précis, avoir une limite dans le temps, être examinées régulièrement et être assorties de conditions très spécifiques quant à leur levée, celle-ci ne devant pas être liée à la situation existant dans les pays voisins ; … 6. Il convient de mettre en œuvre les moyens d’un règlement pacifique des différends, notamment les négociations et les mesures provisoires à prendre conformément à l’Article 40 de la Charte, jusqu’au moment où le Conseil de sécurité peut avoir à décréter des sanctions ; 7. Il n’est pas admissible d’utiliser des sanctions pour renverser ou changer l’ordre juridique ou l’ordre politique du pays sous la coupe de sanctions (corsivo nostro) ;… II - …7.Il est inadmissible de prendre des mesures pouvant sérieusement aggraver la situation de la population civile et détruire les infrastructures de l’État sous le coup de sanctions”. Fra le osservazioni risultanti dal dibattito, merita menzione la sottolineatura (par. 58) che, in caso di situazione costituente minaccia contro la pace e la sicurezza internazionali, l’esistenza della situazione debba venir constatata nei fatti e stabilita oggettivamente con un grado di certezza sufficiente. Quindi quella (par. 60) che pone l’accento sul fatto che, come reso evidente dall’ultima parte dell’art. 39 della Carta, si debba trattare di pace e sicurezza internazionali: non manca l’osservazione per cui nulla nella Carta giustificherebbe l’estensione del campo di applicazione delle disposizioni del Cap, VII a “situazioni a carattere esclusivamente interno”, riconoscendosi certo che una situazione di origine interna potrebbe trasformarsi in una minaccia contro la pace internazionale, ma appunto acquisendo “dimensioni internazionali” (par. 61). Taluni hanno ritenuto che il C.d.s. debba ascoltare le opinioni dello Stato contro il quale siano dirette le sanzioni (par. 65).
[24] Mi sia permesso rinviare a due miei scritti certamente non ortodossi: BERNARDINI, Ego te baptizo carpam: realtà e mistificazione giuridica nella perdurante guerra di aggressione all’Iraq, in I diritti dell’uomo – cronache e battaglie, 2004, n. 3, p. 5 ss.; IDEM, Il terrorismo, quale terrorismo?, e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in Sanzioni “individuali” del Consiglio di sicurezza e garanzie processuali fondamentali, Atti del Convegno di studi dell’Università di Ferrara, 12 e 13 dicembre 2008, a cura di F. Salerno, Padova, 2010, p. 3 ss.
[25] CADIN, I presupposti dell’azione del Consiglio di sicurezza nell’art. 39 della Carta delle Nazioni Unite, Milano, 2008, specialmente p. 427 ss.
[26] CADIN, op. cit., p 432. E si rimanda anche ad ARANGIO-RUIZ (G.), On the Sec. Council’s cit.; VILLANI (U.), Lezioni su l’ONU e la crisi del Golfo, Bari, 1995. Si pensa alle misure contro individui (soprattutto individui-organi) e alle decisioni relative ai tribunali penali internazionali (di istituzione, di deferimento di situazioni…).
[27] Particolarmente delicata è la situazione di un conflitto interno. Anche ad accettare che da esso possa derivare (pur senza esondazione) una minaccia alla pace internazionale, le misure del C.d.s. devono venir contenute al massimo: nella più “avanzata” ipotesi, una forza di interposizione sotto comando N.U. Più intrusivo e di dubbio fondamento l’accertamento della minaccia alla pace, tanto meno intrusive devono essere le misure del C.d.s. In realtà, l’estensione (ultronea, a mio parere) dell’art. 39 alle questioni “essenzialmente interne” è inevitabile che porti a interventi dall’esterno (pur se sanciti dal C.d.s.) di particolare intensità e facilmente debordanti in violazioni di principii basilari della Carta N.U. e del diritto internazionale. Cfr. CADIN, op. cit., pp. 436 ss., 441: “Se il Consiglio decretasse l’estinzione di uno Stato o comunque adottasse delle misure obiettivamente finalizzate a determinare questo risultato, si dovrebbe concludere per il carattere ultroneo della sua azione, perché in palese violazione del principio di uguaglianza degli Stati”. Naturalmente, lo stesso vale per il “mutamento di regime” indotto dall’esterno. È il caso della Libia. Su questo punto si veda anche il Rapporto citato in nota 23.
 

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