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Leila Khaled e la censura selettiva

Anna Maria Brancato | nena-news.it

05/10/2020

Zoom, Facebook e YouTube hanno bloccato l'evento online su gender e resistenze che vedeva ospite la palestinese Leila Khaled, membro del Pflp. L'atteggiamento remissivo delle istituzioni educative contro le censure sminuisce i tentativi di fare della questione palestinese un punto di partenza verso una narrazione alternativa che sia il più possibile inclusiva, comparativa e intersezionale

Leila-Khaled-webinar

Ha destato parecchia rabbia, almeno tra gli addetti ai lavori, il boicottaggio avvenuto qualche giorno fa da parte dei colossi della comunicazione Zoom, Facebook e YouTube dell'evento online Whose Narratives? Gender, Justice, & Resistance: A conversation with Leila Khaled.

L'evento era stato organizzato da Rabab Abdulhadi, direttrice del programma AMED (Arab and Muslim Ethnicities and Diasporas Studies) dell'Università di San Francisco, insieme alla sua collega Tomomi Kinukaw, docente nel dipartimento di Gender Studies presso la stessa università.

Ospite (non gradito da chi ha mosso la macchina della censura) era appunto Leila Khaled, membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che tra il 1969 e il 1970, quando per attirare l'attenzione internazionale sulla causa palestinese non c'erano i social ma erano necessarie delle azioni vere ed ecclatanti, si rese protagonista del dirottamento di due aerei.

In entrambi i casi le direttive del partito erano chiare: evitare vittime civili, che di fatto non ci furono. La figura di Leila ha, dunque, ancora oggi un duplice significato: è sia l'icona di una lotta legittima contro l'occupante; ma è anche il simbolo della emancipazione della donna nel contesto del mondo arabo e nella più ampia cornice delle lotte anti-coloniali.

L'evento era calendarizzato per mercoledì 23 settembre e pare che solo nella serata di martedì Zoom avesse comunicato all'Università di San Francisco l'impossibilità di utilizzare la propria piattaforma per ospitare il webinar nel giorno successivo. Facebook (da tempo sotto accusa per aver bannato palestinesi e filo-palestinesi per post o immagini che raccontano la brutalità del regime sionista) e YouTube hanno poi seguito a ruota.

Le pressioni su Zoom e gli altri social sono arrivate, non tanto di sorpresa, da gruppi filo-sionisti americani e presenti in tutto il mondo, come nel caso specifico The Lawfare Project, StandWithUs e l'attentissima Anti-Defamation League.

Non è certo il primo caso di boicottaggio nei confronti di Leila e neanche nei confronti degli organizzatori di eventi in cui lei è invitata a prendere parola. Ricordiamo, per esempio, quando nel 2017 in occasione dei cinquantanni del Fronte, venne bloccata all'aeroporto di Roma Fiumicino e rimandata indietro.

Ma gli addetti ai lavori, in genere, sono ben coscienti di queste possibili evenienze e, nella maggior parte dei casi, mettono in piedi piani B (e talvolta C) per non farsi cogliere troppo alla sprovvista.

Eppure, nonostante tutta questa pressione ai piani alti dei colossi della comunicazione, solo qualche giorno dopo la censura dell'evento incriminato è andato in onda senza interruzioni su un canale YouTube un webinar dal titolo Why BDS, organizzato da una associazione irlandese, che prevedeva un intervento di Omar Barghouti, ovvero uno dei forndatori del BDS, il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni tanto odiato quanto temuto da Israele e dalle associazioni filo-israleliane di cui sopra.

Bisogna quindi dedurre che, per la censura, ci sono personalità palestinesi che fanno più paura di altre? Oppure sarebbe il caso puntare il dito soprattutto contro le istituzioni (in questo caso l'università) che dovrebbero garantire la libertà di espressione, di dibattito e un accesso a una conoscenza il più possibile plurale, e metterle di fronte alla loro indifferenza e accondiscendeza alle lobby filo-sioniste? Infatti, l'università di San Francisco pare avere ignorato la richiesta delle organizzatrici di garantire il corretto svolgimento dell'evento, nonostante le minacce di Zoom.

L'atteggiamento remissivo delle istituzioni educative, in cui il dialogo e il dibattito dovrebbero essere la base dell'offerta formativa, di fronte ad attacchi volti prima di tutto a minare la libertà di espressione in maniera così palese non fa altro che sminuire i tentativi di fare della questione palestinese un punto di partenza verso una narrazione alternativa che sia il più possibile inclusiva, comparativa (nel senso che deve essere accostata e deve approfondire legami con altre situazioni simili di lotta coloniale) e intersezionale.

Una censura selettiva, quella dei giorni nostri che, non potendo permettersi di bloccare in toto la circolazione di idee e conoscenza, cerca di sfiancare il pensiero alternativo sperando in una resa di questo per sfinimento.

Ma gli organizzatori sono già all'opera per riproporre nuovamente il dibattito perché chi è impegnato quotidianamente nella lotta per gli ideali in cui crede sa bene che, citando Gramsci, quando tutto sembra perduto bisogna mettersi tranquillamente all'opera e ricominciare dall'inizio.


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