La transizione rovesciata della Russia
Aspetti storici, economici, sociali e politici
di Alexander Höbel
Vorrei tentare di collocare la tematica che analizziamo stasera in una
prospettiva storica: che cosa rappresenta sul piano storico la transizione che
alcuni paesi ex socialisti stanno vivendo verso un’economia di mercato, diciamo
pure, selvaggia.
Si tratta di un processo che è cominciato ancora prima che avvenisse il crollo
dei paesi socialisti nel 1989. La base strutturale di questo fenomeno storico
sta nella necessità del capitale di espandersi a livello mondiale, per superare
le crisi che ciclicamente gli si pongono innanzi e conquistare nuovi mercati,
fino ad arrivare alla situazione attuale, che è quella di un dominio mondiale
del mercato capitalistico, quella che viene appunto definita la
“globalizzazione”. La globalizzazione non c’era prima del 1991; in qualche modo
è un effetto dei fatti del 1989-91. Prima di allora, avevamo un blocco di paesi
che a partire dal 1917 si era “staccato” dal mercato mondiale capitalistico,
aveva costituito una “anomalia”, aveva costruito un sistema sociale ed
economico diverso e un mercato integrato al proprio interno, e dunque
costituiva un’altra cosa rispetto al sistema e al mercato capitalistico. Motivi
politici (la guerra fredda), fattori economici, la necessità connaturata al
capitale di espandersi hanno fatto sì, come ha sottolineato Andrea Catone (La
transizione bloccata, Laboratorio politico, 1998), che nel corso dei decenni
avvenisse un riassorbimento di questi paesi nel mercato mondiale capitalistico.
I primi segnali significativi in questa direzione si possono individuare negli
anni Sessanta, ma in termini più concreti negli anni Settanta, quando alcuni
paesi dell’est europeo, che poi saranno quelli più disastrati proprio per
queste scelte di politica economica, e in particolare la Polonia e l’Ungheria,
per aumentare il livello di consumi e accrescere il loro livello tecnologico
hanno avviato una politica di crescita attraverso le importazioni. Essi non hanno
più dato un peso determinante agli scambi interni alla comunità socialista, ma
hanno cercato questi scambi economici con i paesi capitalistici. Scambi
economici che, non essendo questi paesi dotati di un surplus di capitale,
dovevano operare sulla base di prestiti da parte dei paesi capitalistici,
crediti con i quali poi acquistavano beni di consumo e tecnologie più avanzate.
Questo ha costituito un primo legame e un primo elemento di dipendenza forte di
questi paesi. Essi negli anni Ottanta pagheranno questa politica perché
cominceranno a dover rimborsare il debito ai paesi occidentali e alle strutture
economiche sovranazionali, il Fondo Monetario soprattutto. Tutto questo
provocherà quella crisi sociale ed economica che poi sfocerà nelle
“rivoluzioni” del 1989.
Per cui noi abbiamo il paradosso che i sommovimenti del 1989, che sono letti
comunemente come sommovimenti contro il socialismo, filocapitalistici (e, di
fatto, lo sono), hanno però tra le loro cause strutturali proprio il fatto che
molti di questi paesi avevano accettato le politiche economiche imposte dal
Fondo Monetario Internazionale, e dunque alla loro integrazione subalterna nel mercato mondiale capitalistico, rispetto
al quale partivano da posizioni di inferiorità.
Questo fenomeno inizia dagli anelli esterni del blocco sovietico e arriva poi
alla fine al centro dell’“impero”, nell’URSS di Gorbaciov, con delle leggi
varate in quel periodo, come la legge sull’impresa, la realizzazione di società
miste con capitale occidentale, ecc. Nell’ambito di queste società miste fu poi
consentito ai capitali stranieri di raggiungere il 51% del capitale sociale, e
dunque di ottenerne il controllo. Fu avviato il processo di privatizzazioni e
così via, fino ad arrivare al crollo dell’Unione Sovietica. Questa fine viene
sempre letta come implosione, cioè come se solo le contraddizioni interne di
quei paesi fossero sufficienti a causare il crollo, senza considerare, invece, tutto il contesto del mercato mondiale
capitalistico, in cui quei paesi si inserivano, e la competizione politica,
economica e militare con il blocco occidentale, che ebbe un ruolo notevole nel
determinare la crisi. È un processo che ha avuto una sua durata.
Nel periodo post-sovietico l’aggressione e invasione capitalistica di stampo
neo-coloniale (Catone) si è sviluppata con la massima forza. Si è sviluppata in
alcuni modi particolari. Innanzitutto sono proseguite le terapie shock del
Fondo Monetario Internazionale, che ha richiesto a questi paesi di attuare le
cosiddette politiche “di aggiustamento strutturale”, che già avevano rovinato i
paesi del Terzo mondo, imponendo privatizzazioni selvagge, tagli selvaggi allo
Stato sociale; e ciò ha contribuito, insieme al ricatto del debito estero, che
ha continuato e continua tuttora a strozzare quei paesi, a far sì che quelle
che erano economie in difficoltà ma importanti sul piano mondiale, siano state
trasformate in economie di debito, terzomondizzate.
Accanto a ciò è stato necessario lo smantellamento di buona parte dell’apparato
produttivo. Si è avuto un processo di deindustrializzazione senza precedenti.
Un apparato produttivo, per certi versi da rinnovare, comunque un apparato
produttivo poderoso, è stato smantellato, svenduto a privati interni, oppure
alle grandi multinazionali straniere o a entrambi. L’Economist ha parlato a
questo proposito della “più grande svendita della storia”.
Infine, l’ultimo elemento di questa invasione capitalistica di stampo
neocoloniale è stato quello militare, con l’allargamento della NATO ad Est, che
è proseguito nel corso degli anni fino ad assorbire molti di quei paesi.
All’interno, la Russia di Eltsin e del capitalismo selvaggio si è
caratterizzata per le cose che già accennava Cristina Carpinelli. Innanzitutto,
per l’impressionante riduzione degli indici e delle aspettative di vita, frutto
a sua volta di un processo di degradazione economica, che ha riportato la
Russia a livelli di primitivismo economico, con la diffusione di
autoproduzione, autoconsumo, baratto, e con un ampio regresso ad un’economia naturale:
altro che “modernizzazione”!
Sul piano politico, il periodo eltsiniano si caratterizzò per una sostanziale
assenza dello Stato, e per quella che Moshe Lewin definì la “privatizzazione
del governo”. Questo intreccio sempre più stretto tra potere economico e potere
politico è un fenomeno che si sta sviluppando su scala mondiale; tuttavia in
Russia raggiunse proporzioni spaventose. Basti pensare che le stesse risorse
valutarie dello Stato, durante l’era Eltsin, erano affidate in gestione a una
finanziaria americana, la FIMACO. Dunque lo Stato russo non aveva neanche il
controllo e la gestione delle proprie risorse valutarie! Accanto a ciò, si era
sviluppata una forte economia criminale, un regime che veniva definito
cleptocratico, di potere dei ladri, con clientele e corruzione portate al
massimo livello, e col clan di Eltsin che gestiva tutte le leve fondamentali
del potere politico, economico e mediatico.
Il potere economico era diviso in sette o otto monopoli legati a loro volta al
potere politico. Infine, a questo degrado della vita economica si accompagnava
una forte tendenza al separatismo, a localismi di natura autarchica. Dunque un
regresso da tutti i punti di vista, tanto che Giulietto Chiesa, in un suo libro
molto interessante, Russia Addio. Come si colonizza un impero (Editori Riuniti,
1997), parla di “un regresso di civiltà che non ha paragoni nel mondo
contemporaneo”.
E in effetti il regresso ha riguardato ogni aspetto della vita politica,
economica e sociale. Si dirà: c’è stato questo regresso economico e sociale
però almeno c’è la democrazia. Della democrazia in Russia si è visto ben poco.
Il regime che si è instaurato con Eltsin è stato un regime di presidenzialismo
forte, con poteri molto accentrati nelle mani del Presidente e del suo staff.
Nel 1993 si ebbe poi un fatto gravissimo e clamoroso: il cannoneggiamento di un
Parlamento indocile, in cui alcune riforme del Presidente non venivano accolte.
La cosa non fece molto scandalo. Immaginiamoci che cosa sarebbe successo se una
cosa del genere fosse accaduta nel periodo sovietico. Ma lo fece Eltsin che era
democratico e la cosa fu normale. Dunque, nella Russia post-sovietica non c’è
stato un progresso nemmeno sul piano democratico, ma anzi si è visto un
sostanziale regresso.
Sul piano sociale si è assistito a una diffusione della povertà notevole, una
pauperizzazione diffusa, una assenza quasi totale di quella classe media, che
nei paesi di antico capitalismo è abbastanza consistente. Nel 1995 l’Accademia
del management di Mosca calcolava che in Russia esisteva un 15% di ricchi, la
classe media era composta da un misero 2%,
poi c’era un 58% di poveri e un rimanente 25% al di sotto della soglia
di povertà. Un altro studio del 1997 (di Bobkov) parla di un 8% di ricchi, di
un 6% di classe media, di un 50% di popolazione molto vicina alla soglia di
povertà, di un 25% di poveri e, anche qui, di un 11% al di sotto della soglia
di povertà. Infine, secondo un altro studio degli stessi anni (di Tatjana
Zaslavskaja) il 6-7% della popolazione russa deteneva il 50% dei redditi e il
70-80% delle risorse: una ripartizione dei redditi e delle risorse tra le più
inegualitarie del mondo.
Accanto a questo, la crisi produttiva. Nei primi tre anni successivi al crollo dell’URSS, nel solo
periodo 1991-94, la produzione industriale fu dimezzata e 1/3 delle fabbriche
smise sostanzialmente di produrre. La disoccupazione, che era un fenomeno
pressoché sconosciuto, arrivò a toccare il 10-15% della popolazione, dieci
milioni di persone nella sola Russia. Poi ci sono le questioni inerenti al
costo della vita. Prima venivano ricordati i salari bassissimi. Bisogna tenere
conto che, a fronte di questi salari bassissimi, il costo della vita non ha
seguito lo stesso andamento. Secondo una ricerca compiuta durante il periodo
eltsiniano, il paniere di 19 generi vitali nel 1996 aveva raggiunto il 45% del
prezzo che questi stessi beni avevano negli USA, ma i salari erano soltanto il
5% di quelli USA. Nel 1997 i salari, che durante il periodo sovietico
rappresentavano una percentuale altissima del prodotto interno lordo, si erano
ridotti a costituirne l’11%.
La crisi sociale è stata notevolissima, è passata per quella distruzione del
sistema di garanzie e tutele che vigeva in periodo sovietico e nel taglio senza
limiti alle spese sociali, che nel 1995 toccarono la cifra minima del 5.6% del
bilancio statale. I testi scolastici erano garantiti solo al 20% degli alunni,
i tagli alle pensioni fanno sì che
oggi buona parte di coloro che in
Russia vogliono avere una pensione degna di questo nome devono ricorrere ad assicurazioni private. Anche i
dati sulle speranze di vita sono molto allarmanti. Nel 1971, in tutta l'Unione
Sovietica, comprese le zone più arretrate, la speranza di vita era di 64 anni
per gli uomini e 74 per le donne; nel 1998, quella degli uomini era scesa a
60.6 e quella delle donne 71.9. C’è stato poi un calo notevole del tasso di
natalità.
Si accennava al dominio all’interno dei paesi ex sovietici dell’economia
criminale. In realtà i boss di quell’economia parallela, che fu un altro dei
fattori di crisi e di disgregazione dell’URSS, furono già tra i
protagonisti delle privatizzazioni.
Secondo Claudio Fracassi, che ha pubblicato un altro libro molto interessante
sulla situazione russa nel periodo eltsiniano (Russia. Che succede nel Paese
più grande del mondo, I libri dell’Altritalia, 1995), in quegli anni l’81% dei
voti all’interno dei Consigli di amministrazione delle principali società era
gestito dal potere criminale. Questo potere criminale copre il livello microeconomico
e macroeconomico, va dal racket verso
le imprese e i negozi, una specie di camorra, fino a cose molto più serie e importanti, come l’esportazione di materie
strategiche e risorse energetiche. Queste grandi organizzazioni criminali
spesso hanno dei veri e propri piccoli eserciti al loro servizio, rivendono sul
mercato mondiale al di sotto dei prezzi internazionali e compiono speculazioni notevolissime. Per inciso va ricordato che
la Russia produce oltre il 25% del gas naturale sul mercato mondiale.
Regresso nella società, nell’economia, nella politica e nella cultura. Come ha
scritto Cristina Carpinelli, in questo decennio si è “rovinato il tessuto
sociale” precedente “senza costruire granché di nuovo”. Realmente quello che è
avvenuto in Russia costituisce un laboratorio, una forma estrema di processi
peraltro che vanno avanti su scala internazionale e quindi riguardano anche
noi: il farsi avanti di un capitalismo selvaggio, senza più contrappesi e
quindi senza più regole.
Nel 1998 c’è un punto di svolta all’interno della vicenda russa. La crisi
economica e sociale diventa anche crisi finanziaria. C’è una forte svalutazione
del rublo, gli stipendi non vengono pagati per mesi a intere categorie di
lavoratori, questo suscita forti proteste popolari e il sistema affronta una
fase di vera e propria crisi. In questi mesi scesero in lotta le stesse
categorie di lavoratori che avevano in qualche modo spalleggiato Eltsin negli
ultimi mesi di vita dell’URSS, i minatori innanzitutto. Un Comitato di questi lavoratori
scrisse allora: “Stiamo pagando il prezzo della nostra credulità”. Ci furono
cento giorni di protesta davanti alla sede del governo di Mosca. Queste
proteste furono molto ben documentate perché questi lavoratori ebbero
l’intelligenza di costruire un sito internet e di organizzare una campagna
telematica, per cui le notizie sugli scioperi, sulle mobilitazioni sono
arrivate anche in Occidente. La mobilitazione si concluse con uno sciopero
generale, il 7 ottobre del 1998, che vide scendere in piazza in tutte le zone
della Russia 10 milioni di lavoratori.
Questa crisi del 1998 è stata un momento di svolta. In qualche modo si è avuto
un risveglio da una ubriacatura filocapitalistica e gli spostamenti
dell’opinione pubblica, ricavati da una serie di sondaggi, testimoniano che la
stessa idea socialista, che aveva toccato il fondo del gradimento dell’opinione
pubblica durante gli ultimi anni di Gorbaciov, riprende gradualmente quota. A
quella crisi seguì la gestione di Primakov, che fu una gestione diversa: realizzò misure che in qualche modo si
richiamavano a un timido statalismo e ci fu contemporaneamente (e non a caso)
anche un raffreddamento del rapporto
con gli USA. Va ricordato che durante tutto il periodo eltsiniano,
l’allineamento della Russia agli USA era stato pressoché totale, mentre invece
dal 1998 è cominciato un processo ben diverso che dura anche ora.
Entrambi questi aspetti, lo statalismo e il raffreddamento verso gli USA, segnalano la ripresa di una certa autonomia
della Russia all’interno e all’esterno, di una ricostruzione dello Stato russo
e della sua sovranità. Anche quella fase si è chiusa, e ci troviamo oggi
nell’era Putin. Parafrasando un autore che parlò di un “enigma Gobarciov”, io
dirò che c’è oggi un enigma Putin. È una figura molto contraddittoria.
Certamente la fase Eltsin è terminata. Oggi la nuova leadership russa cerca di
ricostituire uno Stato forte, insiste sull’autonomia e sulla sovranità nella
Russia. C’è una lotta abbastanza accesa di Putin ai cosiddetti oligarchi e dunque
a pezzi del potere economico privato. C’è anche una politica estera più
autonoma in direzione di quel multilateralismo che viene sostenuto non solo
dalla Russia, ma anche da Stati come la Germania, la Francia, la Cina.
E tuttavia sul piano sociale non ci sono state svolte, ma c’è una continuità
con la politica precedente. Il ricatto del debito estero, che aveva pesato
molto negli anni precedenti, continua a pesare e far sì che anche questa
maggiore autonomia in politica estera sia una autonomia comunque limitata. Su
questioni fondamentali, come il protocollo di Kyoto o altre questione di
politica estera, vediamo la Russia ondeggiare tra le posizioni che vorrebbe
prendere e quelle che poi di fatto riesce a prendere.
C‘è poi la questione della Cecenia. Qui si combatte una guerra sporca. In
qualche modo Putin porta avanti una lotta risoluta a quei separatismi e a
quelle guerriglie sostenute dall’esterno che furono uno degli elementi
disgreganti l’URSS. Sappiamo che la guerriglia cecena è un fatto interno ma è
anche un fenomeno foraggiato dall’esterno. Dunque, in questa che rimane una
guerra sporca c’è un elemento di politica internazionale che va considerato.
Quali soluzioni di fronte a questa situazione? Non credo spetti all’Europa
cercare soluzioni per la Russia, anche perché alcuni Stati europei, come la
Germania, sono tra i responsabili della
situazione attuale, avendo favorito la disgregazione dell’URSS. Non ho molto
fiducia nel commercio equo e solidale o in una “società civile” che si
“autorganizza”. A me pare che l’unica strada praticabile possa essere solo
quella di un mutamento dei rapporti di forza tra le classi all’interno della
società russa, e della crescita di una presenza pubblica nell’economia che vada
a ri-socializzare almeno i settori strategici dell’economia.
Sul piano internazionale penso che qualcosa da parte dei paesi europei si
potrebbe fare: innanzitutto una minore invadenza di prodotti occidentali che
hanno invaso quei mercati, anche avvalendosi dei sostegni che i governi occidentali
danno alle loro agricolture per invadere i mercati stranieri ai quali poi
propagandano il liberismo e tutto ciò che è contrario al protezionismo. Bisogna
diminuire questa invasione di prodotti occidentali, che ha messo in ginocchio
in particolare l’agricoltura russa, attenuare il ricatto del debito estero e
non ostacolare quei processi di riaggregazione territoriale che timidamente
sono andati avanti nel corso degli
ultimi anni.
Ci sono dei progetti, da parte della leadership russa e bielorussa in particolare,
di aggregare un nucleo territoriale di quella che era l’ex URSS, dunque almeno
Russia, Bielorussia e Ucraina. Questo processo di riaggregazione, che sta
andando avanti in modo molto timido e a
rilento, viene visto come il fumo negli occhi dagli USA e ostacolato in tutti i
modi. Se una cosa può fare l’Europa è non ostacolare questo processo. Tutto
questo perché la Russia è un paese strategico per tutti coloro i quali credono
in una prospettiva multilaterale dei rapporti
di forza all’interno del pianeta. La Russia è stata nei mesi scorsi –
parlo in particolare della fase dell’aggressione statunitense all’Iraq – uno
dei contrappesi allo strapotere degli USA e in parte può esprimere anche un
modello diverso di società.
Infine, la Russia è un paese strategico anche per affrontare quelle emergenze
globali, realmente preoccupanti e pericolose, come la crisi ecologica e
climatica. Un paese insomma da seguire con grande attenzione e rispetto, e per il quale auspicare una evoluzione
che parta dal recupero di quanto di meglio ha espresso la sua storia nei
decenni precedenti, prima della reintegrazione neo-coloniale nel mercato
mondiale capitalistico.