tratto da Slow News
Il Kosovo tra mafia e
terrorismo
di Franca Giansoldati (Apcom)
Il Kosovo: paradigma dell'ennesimo flop del Palazzo di Vetro. A cinque anni
tondi tondi dalla fine della guerra Nato e dall'inizio del protettorato Unmik,
la comunità internazionale è di nuovo costretta a fare i conti coi guasti
causati dalla mancanza di una politica concordata e unitaria. E basta poco per
vedere quali risultati disastrosi abbia prodotto in una regione grande quanto
il Molise.
Benché vi sia la più alta concentrazione al mondo di truppe straniere per
chilometro quadrato (25 mila), il crimine organizzato è proliferato
indisturbato, con volumi d'affari da capogiro (secondo fonti della Kfor l'80 pc
del Pil è frutto di traffici: prostituzione, droga, sigarette); poi c'è lo
spettro del terrorismo che si aggira minaccioso sebbene la penetrazione
dell'Islam radicale non sia riuscita ancora a far breccia nella popolazione. E
ancora: il tasso di disoccupazione è al 70 per cento; il comparto economico
tira avanti grazie agli aiuti internazionali e la convivenza tra la minoranza
serba cristiano-ortodossa (circa 200 mila persone) e l'etnia kosovaro-albanese,
musulmana (circa 2 milioni) al momento è solo un pio intendimento senza appigli
nel concreto.
A questo poco rassicurante quadro va aggiunta - per completezza di cronaca - la
debacle di quella 'road map' studiata per dotare il Kosovo di standard europei.
Il Ksip (Kosovo Standard
Implementation Plan) di fatto resta lettera morta per la quasi totalità
degli obiettivi prefissati. Così l'Onu -dopo i disordini del 18 marzo- ha
deciso di far slittare 'sine die' ogni decisione sullo status finale da
assegnare alla regione. In ballo c'è il tema dell'indipendenza da Belgrado
richiesto a gran voce dall'etnia albanese. Inizialmente era stata fissata una
data: il 2005, ma è chiaro che in queste circostanze sembra irrealistico
affrontare un nodo istituzionale così complesso e in un contesto così
instabile. Inoltre il Parlamento di Pristina non sarebbe in grado di
controllare politicamente del forze dell'Uck.
Dopo i fatti di marzo - 31 morti, 286 case bruciate, 30 monasteri ortodossi
incendiati, 600 civili feriti e 3 mila serbi costretti a lasciare le proprie
case - il capo dell'Unmik, Harri Holkeri si è dimesso. A riprova del fallimento
dell'Onu. Oggi come oggi in Kosovo sono in pochi coloro disposti a difenderne
l'operato. Persino il partito di governo del Presidente Rugova, Ldk, dice:
"non possiamo più ingannare il nostro elettorato, poiché non ci sono più
argomenti a difesa dell'Unmik". Parole impensabili che fino a qualche
tempo fa il segretario del partito, l'autorevole Kol Berisha, non si sarebbe
mai sognato di pronunciare.
Paradossalmente, invece, arrivano nel giorno del quinto anniversario della
"liberazione di Pristina da parte della Nato". Nel suo studio, tra la
bandiera albanese, campeggiano due enormi fotografie, una in compagnia di
Magdalene Albright e l'altra di Bill Clinton. "Se non arriverà
l'indipendenza è chiaro che ci sarà un'altra guerra. Perché il Kosovo indipendente,
per noi albanesi, è tutta la nostra vita". Fino a quanto siete disposti a
pazientare? "Di sicuro non fino al 2020, né tanto meno fino al 2010. Serve
una decisione subito".
L'OMBRA DEL TERRORISMO - Sullo sfondo della regione si staglia torva anche
l'ombra del terrorismo. Finora la matrice dei disordini era riconducibile
all'eccessivo nazionalismo. Ma a molti questa versione non convince più e
solleva qualche dubbio. Fonti diplomatiche non nascondono timori per la
presenza sul territorio di importanti flussi di denaro provenienti da
fondazioni caritative arabe. Assai esplicito uno dei più autorevoli islamismi
dell'università di Belgrado, Dragan Vimeunovic: "Attualmente non si può
parlare di penetrazione vera e propria dell'Islam radicale. Tuttavia esisterebbero
altre connessioni, di tipo logistico, tra il crimine kosovaro e possibili
transiti di cellule terroristiche islamiche". Una tesi che condivide anche
padre Janijc Sava del monastero di Dracanica: "Sono in molti a supporre
che l'Uck abbia avuto contatti con cellule di al Qaeda". E rincarando la
dose aggiunge: "in passato in Kosovo era presente la al Haramein
Foundation, associazione benefica saudita poi messa al bando. E anche una
fondazione chiamata Abu Bakr al Sadik che si dice operasse nella zona di
Mitrovica". Infine, Sava aggiunge un altro inquietante tassello: "Non
dimentichiamo che nel 1994 in Albania si è registrata la presenza di bin
Laden".
"Non più nazionalismo. Ora è anche un conflitto religioso". Padre
Sava ha idee ben chiare anche sui disordini che nel marzo scorso hanno messo
ferro e fuoco il Kosovo causando la morte di 31 persone, bruciato 286 case e
distrutto 30 monasteri ortodossi. "Gli estremisti kosovari-albanesi (di
religione musulmana) hanno deliberatamente cancellato simboli cristiani, rotto
croci, dissacrato cimiteri, bruciato icone, senza pensare che spesso erano
opere d'arte. È stata una azione deliberata che non può essere interpretata
come un'azione contro la minoranza serba solo perché serba. Ormai è chiaro. Era
contro la cultura cristiana" afferma il religioso in una intervista ad
Apcom. Poi, rivolgendo un appello all'Europa e a Prodi, aggiunge:
"distruggere le chiese è antieuropeo".
Cosa la induce a pensare di trovarsi di fronte ad uno scontro religioso?
"Fatti. Per esempio -replica padre Sava- la presenza davanti alle moschee
nuove, appena costruite, dell'insegna di una ong proveniente dall'Arabia
Saudita. Solo a Decani in questi due anni sono sorte cinque nuove moschee. Su
una di queste insegne si leggeva la scritta Al Haramein, che se non ricordo
male è una fondazione saudita fantasma messa al bando poiché indirettamente
collegata con al Qaeda. Credo che questa fondazione sia stata espulsa
successivamente anche dalla Bosnia. Ma sappiamo che ci sono altre fondazioni
che operano sul territorio kosovaro. Non saprei dire quali sono. Una cosa mi
pare però certa: i finanziamenti arrivano".
Padre Sava racconta anche che alcuni militari gli hanno riferito del
ritrovamento di casse di armi e, tra le armi, libri del Corano. "Un giorno
fermarono un camion per un accertamento e dietro trovarono quella merce. La
fotografarono". Un altro episodio significativo è un video girato durante
i disordini del 17 marzo. "All'interno di una chiesa, mentre si stava
compiendo la devastazione, si intravede un uomo che fa scempio di cose sacre
con la barba lunga. È un particolare che mi ha colpito. La barba lunga è un
elemento della tradizione serba ortodossa, ma mai di quella kosovara. Non si
sono mai incontrati albanesi con la barba lunga in passato. Perché ora?".
Cosa vede nel futuro dei cristiani di quella regione? "La mia previsione è
che i kosovari puntano ad un Kosovo indipendente e totalmente dominato dai
musulmani. A questo punto la presenza dei cristiani non avrà più futuro".
L'ISLAM ALLA 'KOSOVARA' - Benché il 90 per cento della popolazione sia
musulmana, quello che c'è in Kosovo è un Islam assai blando, niente a che fare
con il rigido orientamento wahabita. Il capo dei 560 imam della regione,
Bajgora Sabri, 45 anni e una sola moglie ("qui nessuno può aver più di una
moglie, sarebbe impensabile") mette subito in chiaro: "La religione è
libera e non si può imporre. E noi siamo i primi a vigilare affinché non si
affermi un Islam che non ci appartiene. [...] L'unica cosa che chiedo a tutti
in moschea è di rispettare le cinque preghiere quotidiane, il ramadan,
l'elemosina, l'unicità di Dio e di recarsi alla Mecca almeno una volta prima di
morire. Sul resto sono di manica larga...". Sabri racconta che vengono
fatti periodici controlli sulle associazioni benefiche saudite e sugli studenti
kosovari che si recano ogni anno a studiare nelle madrasse arabe (circa 200
all'anno).
"Stiamo ben attenti a verificare che a questi ragazzi non venga inculcata
una predicazione troppo radicale". Intanto l'Islam cresce. Nel 1999 in
Kosovo si contavano 560 moschee, oggi ce ne sono 590. Tenendo conto che con la
guerra sono stati distrutti 218 edifici, significa che nell'arco di cinque anni
su un territorio vasto come il Molise sono state costruite o ricostruite ben
248 moschee. "I finanziamenti -aggiunge l'imam- arrivano da molti Paesi,
anche l'Italia ha contribuito a costruire l'antica moschea di Pec. A Iablanica
la moschea è stata rimessa a posto grazie all'aiuto della comunità ebraica
americana e della chiesa cattolica".
GENOCIDIO CULTURALE? - La distruzione di chiese e monasteri ortodossi è stata
definita da alcuni un 'genocidio culturale' perpetrato dagli albanesi-kosovari
per distruggere l'identità della minoranza serba radicata nel cristianesimo. Ma
anche un modo, assai sbrigativo, per evitare il rientro dei profughi. Secondo
alcuni diplomatici l'obiettivo degli albanesi-kosovari è quello di gettare le
basi per uno Stato omogeneo dal punto di vista etnico e religioso. Si sta
cercando poco per volta di svuotare il Kosovo di serbi e di cancellare i loro
luoghi simbolici.. Come è accaduto per la chiesa di S.Giovanni Battista a
Samodreza, andata distrutta durante la guerra. Lì venivano benedetti i
cavalieri cristiani che nel XIV secolo andavano a combattere contro i turchi.
Di quella chiesa oggi non esiste più nulla, nemmeno una pietra, solo un prato
sul quale si divertono a giocare i bambini. Di 300 mila profughi di guerra
hanno fatto ritorno poche migliaia. Anche se rimane obiettivo primario
dell'Unmik riportarli a casa, purtroppo le condizioni sono tali che nessuno
pensa al rientro. La minoranza serba (poco meno di 20 mila persone) da cinque
anni vive reclusa in enclave, senza poter uscire, controllata dai militari
della Kfor che hanno il compito di assicurare protezione. Non esiste il
concetto di sicurezza, non hanno accesso ai servizi più elementari.
Molte enclave in questi anni hanno cercato di rendersi autonome, arrangiandosi.
Lazic Dragisha, 45 anni, insegnante ed ex dirigente in una azienda statale
elettrica, vive nell'enclave di Priluzie, in tutto 3500 anime. Priluzje si
trova a qualche chilometro da Obilic dove c'è una centrale elettrica a carbone.
Il fumo nero che esce dalle bocche delle ciminiere si vede a chilometri di
distanza. Da lì parte una strada piccola, piena di buche, rettilinea che sembra
finire nel nulla. Ogni tanto si vede una mucca che l'attraversa. "Chi può
se ne va e non fa più ritorno - dice Draghisha. Gli altri campano come possono.
Cerchiamo di arrangiarci".
L'Unmik, al quale è stato affidato il protettorato del Kosovo, si era posta il
rientro entro il 2005 dei 300 mila profughi fuggiti durante la guerra. Ad oggi
ne sono rientrati solo poche migliaia anche se sono state ricostruite per loro
58 mila case. "Possono pure costruite tutte le case che vogliono, ma se
non ci sono condizioni di vita normali, come fanno rientrare -si chiede
Draghisha- In questo villaggio viviamo in segregazione, da cinque lunghi anni.
Ho pensato più volte di prendere la mia famiglia e andarmene.Ma dove vado? Io
ho casa qui, qui accanto ci abita il mio anziano padre, dunque: perché me ne
devo andare? Eppoi -aggiunge con sarcasmo- non avremmo nemmeno di documenti in
regola per farlo. L'Unmik, infatti, può solo rilasciarci dei 'travel document'
che molti paesi, tra cui l'Italia, non riconoscono".
La speranza di quest'uomo è riposta in un miracolo: poter assistere un giorno
alla coesistenza tra serbi e kosovari-albanesi, in uno stato multietnico, con
condizioni di vita migliori. "Ma se ci sarà l'indipendenza del Kosovo,
come vogliono gli albanesi, per noi serbi non ci sarà futuro. Ormai è chiaro a
tutti". Lazan Draghisha confessa di sentirsi abbandonato: "l'Unmik ci
doveva aiutare ma non vediamo cambiamenti. Così come dovevano aiutarci la Kfor
e il governo locale di Pristina. L'Europa, invece, allarga il portafoglio ma fa
finta di non vedere e così idem per gli Stati Uniti. Credo che se non
accadranno altre cose a noi serbi non rimane che sperare in Belgrado. Ci rimane
solo quello".
LE ELEZIONI A OTTOBRE - Ad appesantire il clima ci sono le elezioni fissate per
il prossimo 23 ottobre. Per la seconda volta l'elettorato sarà chiamato a
rinnovare l'Assemblea. A dare del filo da torcere al partito di maggioranza
presieduto da Rugova, Ldk, che ora ha 47 seggi, si sta imponendo all'attenzione
della gente una nuova lista che si chiama Aak, Alleanza Democratica che punta
ad avere un esercito nazionale e che si prepara ad una campagna elettorale di
fortissima critica contro l'Unmik. Nonostante il quadro complicato la
situazione almeno in superficie pare calma. Ma sono in molti a chiedersi se
reggerà fino al 2005.
ITALIANO IL PROSSIMO CAPO DELL'UNMIK? - Holkeri se n'è andato, adducendo motivi
di salute: di fatto spinto dal fallimento dell'Unmik. Ora fervono in contatti
tra i Paesi che formano il 'gruppo di contatto' per individuare un sostituto.
La scelta spetterà a Kofi Annan ma per questo ruolo si ritorna a parlare di un
italiano. E in questi giorni si è fatto il nome anche di Stefano Sannino,
diplomatico vicino a Prodi e Staffan de Mistura. Accanto a loro il norvegese
Kai Eide, il francese, Alain le Roi, e il danese Pietre Feith. Fonti
diplomatiche fanno sapere che potrebbe spuntarla anche un italiano, ma dipende
da quanto il governo si impegnerà per sostenere una delle due candidature.
IL FUTURO - "La pacificazione arriverà, ma bisogna aspettare che passino
almeno due generazioni. Nel frattempo occorre agire su tre direttrici: la
politica di prossimità con la quale l'Ue disegna i rapporti coi suoi futuri
vicini; l'educazione dei kosovari e le condizioni di sviluppo economico
dell'area". Margherita Saulle, docente di diritto internazionale alla
Sapienza di Roma, non vede altre scappatoie per uscire dal vicolo cieco del
Kosovo. "Al momento lo status finale resta irrisolto e non può essere
diversamente".
Questa giurista è tra coloro che meglio conoscono la realtà balcanica e le
dinamiche del dopoguerra per avere vissuto 7 anni in Bosnia quale presidente
della Commissione internazionale istituita per studiare il problema della
restituzione dei beni immobili ai profughi ("finora siamo riusciti a
restituire 240 mila tra case e poderi, secondo lo spirito degli accordi di
Dayton").
"La società multietnica -aggiunge Saulle- è un concetto che abbiamo noi ed
ciò che immaginiamo per il presente e per il futuro del mondo. Anche in Kosovo
si arriverà a questo, ne sono certa, ma ci vorranno almeno 20 anni. Non è solo
per il fatto che lì c'è stata una guerra civile interetnica. È anche per la
mentalità, la gente è molto chiusa e cruenta, di per sé poco portata a
rapportarsi con l'esterno, poiché vive da sempre in una dinamica di clan. In
più c'è una specie di coefficiente genetico che li porta ad attualizzare i
torti subiti dal proprio popolo anche sette secoli addietro. Sin da bambini
pensano al male che fu fatto ai loro avi nel medio evo. Va da sé che con una
dinamica di questo genere da questa spirale è difficile uscire".
Quanto al ritorno dei profughi, la giurista sottolinea che va avanti con
lentezza ma che "non può essere altrimenti. Durante la guerra, infatti,
sono stati bruciate tutte le mappe catastali, persino quelle che risalivano a
Maria Teresa D'Austria. È difficile ricostruire le proprietà".
18 giugno 2004
Franca Giansoldati (Apcom