www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 26-06-04

tratto da Slow News

Il Kosovo tra mafia e terrorismo


di Franca Giansoldati (Apcom)

Il Kosovo: paradigma dell'ennesimo flop del Palazzo di Vetro. A cinque anni tondi tondi dalla fine della guerra Nato e dall'inizio del protettorato Unmik, la comunità internazionale è di nuovo costretta a fare i conti coi guasti causati dalla mancanza di una politica concordata e unitaria. E basta poco per vedere quali risultati disastrosi abbia prodotto in una regione grande quanto il Molise.

Benché vi sia la più alta concentrazione al mondo di truppe straniere per chilometro quadrato (25 mila), il crimine organizzato è proliferato indisturbato, con volumi d'affari da capogiro (secondo fonti della Kfor l'80 pc del Pil è frutto di traffici: prostituzione, droga, sigarette); poi c'è lo spettro del terrorismo che si aggira minaccioso sebbene la penetrazione dell'Islam radicale non sia riuscita ancora a far breccia nella popolazione. E ancora: il tasso di disoccupazione è al 70 per cento; il comparto economico tira avanti grazie agli aiuti internazionali e la convivenza tra la minoranza serba cristiano-ortodossa (circa 200 mila persone) e l'etnia kosovaro-albanese, musulmana (circa 2 milioni) al momento è solo un pio intendimento senza appigli nel concreto.

A questo poco rassicurante quadro va aggiunta - per completezza di cronaca - la debacle di quella 'road map' studiata per dotare il Kosovo di standard europei. Il Ksip (Kosovo Standard Implementation Plan) di fatto resta lettera morta per la quasi totalità degli obiettivi prefissati. Così l'Onu -dopo i disordini del 18 marzo- ha deciso di far slittare 'sine die' ogni decisione sullo status finale da assegnare alla regione. In ballo c'è il tema dell'indipendenza da Belgrado richiesto a gran voce dall'etnia albanese. Inizialmente era stata fissata una data: il 2005, ma è chiaro che in queste circostanze sembra irrealistico affrontare un nodo istituzionale così complesso e in un contesto così instabile. Inoltre il Parlamento di Pristina non sarebbe in grado di controllare politicamente del forze dell'Uck.

Dopo i fatti di marzo - 31 morti, 286 case bruciate, 30 monasteri ortodossi incendiati, 600 civili feriti e 3 mila serbi costretti a lasciare le proprie case - il capo dell'Unmik, Harri Holkeri si è dimesso. A riprova del fallimento dell'Onu. Oggi come oggi in Kosovo sono in pochi coloro disposti a difenderne l'operato. Persino il partito di governo del Presidente Rugova, Ldk, dice: "non possiamo più ingannare il nostro elettorato, poiché non ci sono più argomenti a difesa dell'Unmik". Parole impensabili che fino a qualche tempo fa il segretario del partito, l'autorevole Kol Berisha, non si sarebbe mai sognato di pronunciare.

Paradossalmente, invece, arrivano nel giorno del quinto anniversario della "liberazione di Pristina da parte della Nato". Nel suo studio, tra la bandiera albanese, campeggiano due enormi fotografie, una in compagnia di Magdalene Albright e l'altra di Bill Clinton. "Se non arriverà l'indipendenza è chiaro che ci sarà un'altra guerra. Perché il Kosovo indipendente, per noi albanesi, è tutta la nostra vita". Fino a quanto siete disposti a pazientare? "Di sicuro non fino al 2020, né tanto meno fino al 2010. Serve una decisione subito".

L'OMBRA DEL TERRORISMO - Sullo sfondo della regione si staglia torva anche l'ombra del terrorismo. Finora la matrice dei disordini era riconducibile all'eccessivo nazionalismo. Ma a molti questa versione non convince più e solleva qualche dubbio. Fonti diplomatiche non nascondono timori per la presenza sul territorio di importanti flussi di denaro provenienti da fondazioni caritative arabe. Assai esplicito uno dei più autorevoli islamismi dell'università di Belgrado, Dragan Vimeunovic: "Attualmente non si può parlare di penetrazione vera e propria dell'Islam radicale. Tuttavia esisterebbero altre connessioni, di tipo logistico, tra il crimine kosovaro e possibili transiti di cellule terroristiche islamiche". Una tesi che condivide anche padre Janijc Sava del monastero di Dracanica: "Sono in molti a supporre che l'Uck abbia avuto contatti con cellule di al Qaeda". E rincarando la dose aggiunge: "in passato in Kosovo era presente la al Haramein Foundation, associazione benefica saudita poi messa al bando. E anche una fondazione chiamata Abu Bakr al Sadik che si dice operasse nella zona di Mitrovica". Infine, Sava aggiunge un altro inquietante tassello: "Non dimentichiamo che nel 1994 in Albania si è registrata la presenza di bin Laden".

"Non più nazionalismo. Ora è anche un conflitto religioso". Padre Sava ha idee ben chiare anche sui disordini che nel marzo scorso hanno messo ferro e fuoco il Kosovo causando la morte di 31 persone, bruciato 286 case e distrutto 30 monasteri ortodossi. "Gli estremisti kosovari-albanesi (di religione musulmana) hanno deliberatamente cancellato simboli cristiani, rotto croci, dissacrato cimiteri, bruciato icone, senza pensare che spesso erano opere d'arte. È stata una azione deliberata che non può essere interpretata come un'azione contro la minoranza serba solo perché serba. Ormai è chiaro. Era contro la cultura cristiana" afferma il religioso in una intervista ad Apcom. Poi, rivolgendo un appello all'Europa e a Prodi, aggiunge: "distruggere le chiese è antieuropeo".

Cosa la induce a pensare di trovarsi di fronte ad uno scontro religioso? "Fatti. Per esempio -replica padre Sava- la presenza davanti alle moschee nuove, appena costruite, dell'insegna di una ong proveniente dall'Arabia Saudita. Solo a Decani in questi due anni sono sorte cinque nuove moschee. Su una di queste insegne si leggeva la scritta Al Haramein, che se non ricordo male è una fondazione saudita fantasma messa al bando poiché indirettamente collegata con al Qaeda. Credo che questa fondazione sia stata espulsa successivamente anche dalla Bosnia. Ma sappiamo che ci sono altre fondazioni che operano sul territorio kosovaro. Non saprei dire quali sono. Una cosa mi pare però certa: i finanziamenti arrivano".

Padre Sava racconta anche che alcuni militari gli hanno riferito del ritrovamento di casse di armi e, tra le armi, libri del Corano. "Un giorno fermarono un camion per un accertamento e dietro trovarono quella merce. La fotografarono". Un altro episodio significativo è un video girato durante i disordini del 17 marzo. "All'interno di una chiesa, mentre si stava compiendo la devastazione, si intravede un uomo che fa scempio di cose sacre con la barba lunga. È un particolare che mi ha colpito. La barba lunga è un elemento della tradizione serba ortodossa, ma mai di quella kosovara. Non si sono mai incontrati albanesi con la barba lunga in passato. Perché ora?".

Cosa vede nel futuro dei cristiani di quella regione? "La mia previsione è che i kosovari puntano ad un Kosovo indipendente e totalmente dominato dai musulmani. A questo punto la presenza dei cristiani non avrà più futuro".

L'ISLAM ALLA 'KOSOVARA' - Benché il 90 per cento della popolazione sia musulmana, quello che c'è in Kosovo è un Islam assai blando, niente a che fare con il rigido orientamento wahabita. Il capo dei 560 imam della regione, Bajgora Sabri, 45 anni e una sola moglie ("qui nessuno può aver più di una moglie, sarebbe impensabile") mette subito in chiaro: "La religione è libera e non si può imporre. E noi siamo i primi a vigilare affinché non si affermi un Islam che non ci appartiene. [...] L'unica cosa che chiedo a tutti in moschea è di rispettare le cinque preghiere quotidiane, il ramadan, l'elemosina, l'unicità di Dio e di recarsi alla Mecca almeno una volta prima di morire. Sul resto sono di manica larga...". Sabri racconta che vengono fatti periodici controlli sulle associazioni benefiche saudite e sugli studenti kosovari che si recano ogni anno a studiare nelle madrasse arabe (circa 200 all'anno).

"Stiamo ben attenti a verificare che a questi ragazzi non venga inculcata una predicazione troppo radicale". Intanto l'Islam cresce. Nel 1999 in Kosovo si contavano 560 moschee, oggi ce ne sono 590. Tenendo conto che con la guerra sono stati distrutti 218 edifici, significa che nell'arco di cinque anni su un territorio vasto come il Molise sono state costruite o ricostruite ben 248 moschee. "I finanziamenti -aggiunge l'imam- arrivano da molti Paesi, anche l'Italia ha contribuito a costruire l'antica moschea di Pec. A Iablanica la moschea è stata rimessa a posto grazie all'aiuto della comunità ebraica americana e della chiesa cattolica".

GENOCIDIO CULTURALE? - La distruzione di chiese e monasteri ortodossi è stata definita da alcuni un 'genocidio culturale' perpetrato dagli albanesi-kosovari per distruggere l'identità della minoranza serba radicata nel cristianesimo. Ma anche un modo, assai sbrigativo, per evitare il rientro dei profughi. Secondo alcuni diplomatici l'obiettivo degli albanesi-kosovari è quello di gettare le basi per uno Stato omogeneo dal punto di vista etnico e religioso. Si sta cercando poco per volta di svuotare il Kosovo di serbi e di cancellare i loro luoghi simbolici.. Come è accaduto per la chiesa di S.Giovanni Battista a Samodreza, andata distrutta durante la guerra. Lì venivano benedetti i cavalieri cristiani che nel XIV secolo andavano a combattere contro i turchi. Di quella chiesa oggi non esiste più nulla, nemmeno una pietra, solo un prato sul quale si divertono a giocare i bambini. Di 300 mila profughi di guerra hanno fatto ritorno poche migliaia. Anche se rimane obiettivo primario dell'Unmik riportarli a casa, purtroppo le condizioni sono tali che nessuno pensa al rientro. La minoranza serba (poco meno di 20 mila persone) da cinque anni vive reclusa in enclave, senza poter uscire, controllata dai militari della Kfor che hanno il compito di assicurare protezione. Non esiste il concetto di sicurezza, non hanno accesso ai servizi più elementari.

Molte enclave in questi anni hanno cercato di rendersi autonome, arrangiandosi. Lazic Dragisha, 45 anni, insegnante ed ex dirigente in una azienda statale elettrica, vive nell'enclave di Priluzie, in tutto 3500 anime. Priluzje si trova a qualche chilometro da Obilic dove c'è una centrale elettrica a carbone. Il fumo nero che esce dalle bocche delle ciminiere si vede a chilometri di distanza. Da lì parte una strada piccola, piena di buche, rettilinea che sembra finire nel nulla. Ogni tanto si vede una mucca che l'attraversa. "Chi può se ne va e non fa più ritorno - dice Draghisha. Gli altri campano come possono. Cerchiamo di arrangiarci".

L'Unmik, al quale è stato affidato il protettorato del Kosovo, si era posta il rientro entro il 2005 dei 300 mila profughi fuggiti durante la guerra. Ad oggi ne sono rientrati solo poche migliaia anche se sono state ricostruite per loro 58 mila case. "Possono pure costruite tutte le case che vogliono, ma se non ci sono condizioni di vita normali, come fanno rientrare -si chiede Draghisha- In questo villaggio viviamo in segregazione, da cinque lunghi anni. Ho pensato più volte di prendere la mia famiglia e andarmene.Ma dove vado? Io ho casa qui, qui accanto ci abita il mio anziano padre, dunque: perché me ne devo andare? Eppoi -aggiunge con sarcasmo- non avremmo nemmeno di documenti in regola per farlo. L'Unmik, infatti, può solo rilasciarci dei 'travel document' che molti paesi, tra cui l'Italia, non riconoscono".

La speranza di quest'uomo è riposta in un miracolo: poter assistere un giorno alla coesistenza tra serbi e kosovari-albanesi, in uno stato multietnico, con condizioni di vita migliori. "Ma se ci sarà l'indipendenza del Kosovo, come vogliono gli albanesi, per noi serbi non ci sarà futuro. Ormai è chiaro a tutti". Lazan Draghisha confessa di sentirsi abbandonato: "l'Unmik ci doveva aiutare ma non vediamo cambiamenti. Così come dovevano aiutarci la Kfor e il governo locale di Pristina. L'Europa, invece, allarga il portafoglio ma fa finta di non vedere e così idem per gli Stati Uniti. Credo che se non accadranno altre cose a noi serbi non rimane che sperare in Belgrado. Ci rimane solo quello".

LE ELEZIONI A OTTOBRE - Ad appesantire il clima ci sono le elezioni fissate per il prossimo 23 ottobre. Per la seconda volta l'elettorato sarà chiamato a rinnovare l'Assemblea. A dare del filo da torcere al partito di maggioranza presieduto da Rugova, Ldk, che ora ha 47 seggi, si sta imponendo all'attenzione della gente una nuova lista che si chiama Aak, Alleanza Democratica che punta ad avere un esercito nazionale e che si prepara ad una campagna elettorale di fortissima critica contro l'Unmik. Nonostante il quadro complicato la situazione almeno in superficie pare calma. Ma sono in molti a chiedersi se reggerà fino al 2005.

ITALIANO IL PROSSIMO CAPO DELL'UNMIK? - Holkeri se n'è andato, adducendo motivi di salute: di fatto spinto dal fallimento dell'Unmik. Ora fervono in contatti tra i Paesi che formano il 'gruppo di contatto' per individuare un sostituto. La scelta spetterà a Kofi Annan ma per questo ruolo si ritorna a parlare di un italiano. E in questi giorni si è fatto il nome anche di Stefano Sannino, diplomatico vicino a Prodi e Staffan de Mistura. Accanto a loro il norvegese Kai Eide, il francese, Alain le Roi, e il danese Pietre Feith. Fonti diplomatiche fanno sapere che potrebbe spuntarla anche un italiano, ma dipende da quanto il governo si impegnerà per sostenere una delle due candidature.

IL FUTURO - "La pacificazione arriverà, ma bisogna aspettare che passino almeno due generazioni. Nel frattempo occorre agire su tre direttrici: la politica di prossimità con la quale l'Ue disegna i rapporti coi suoi futuri vicini; l'educazione dei kosovari e le condizioni di sviluppo economico dell'area". Margherita Saulle, docente di diritto internazionale alla Sapienza di Roma, non vede altre scappatoie per uscire dal vicolo cieco del Kosovo. "Al momento lo status finale resta irrisolto e non può essere diversamente".

Questa giurista è tra coloro che meglio conoscono la realtà balcanica e le dinamiche del dopoguerra per avere vissuto 7 anni in Bosnia quale presidente della Commissione internazionale istituita per studiare il problema della restituzione dei beni immobili ai profughi ("finora siamo riusciti a restituire 240 mila tra case e poderi, secondo lo spirito degli accordi di Dayton").

"La società multietnica -aggiunge Saulle- è un concetto che abbiamo noi ed ciò che immaginiamo per il presente e per il futuro del mondo. Anche in Kosovo si arriverà a questo, ne sono certa, ma ci vorranno almeno 20 anni. Non è solo per il fatto che lì c'è stata una guerra civile interetnica. È anche per la mentalità, la gente è molto chiusa e cruenta, di per sé poco portata a rapportarsi con l'esterno, poiché vive da sempre in una dinamica di clan. In più c'è una specie di coefficiente genetico che li porta ad attualizzare i torti subiti dal proprio popolo anche sette secoli addietro. Sin da bambini pensano al male che fu fatto ai loro avi nel medio evo. Va da sé che con una dinamica di questo genere da questa spirale è difficile uscire".

Quanto al ritorno dei profughi, la giurista sottolinea che va avanti con lentezza ma che "non può essere altrimenti. Durante la guerra, infatti, sono stati bruciate tutte le mappe catastali, persino quelle che risalivano a Maria Teresa D'Austria. È difficile ricostruire le proprietà".

18 giugno 2004
Franca Giansoldati (Apcom