www.resistenze.org - popoli resistenti - serbia - 27-04-09 - n. 271

da Radio Città Aperta – www.radiocittaperta.it
 
Kosovo. Viaggio nel paese che non c’è: “Gorazdevac” (Capitolo 1)
 
di Marco Santopadre
 
Gorazdevac 12 aprile 2009 --- Solo alcune settimane fa, il 17 febbraio, i nostri tg mostravano distrattamente poche immagini dei caroselli di macchine addobbate con le bandiere albanesi e kosovare che percorrevano le strade di Pristina. Era passato un anno esatto dalla dichiarazione di indipendenza che il parlamento kosovaro aveva pronunciato sotto l’occhio vigile di migliaia di soldati europei e statunitensi, ma anche russi e turchi, argentini e indiani. Poi niente più approfondimenti, niente immagini, niente notizie su un territorio che è ritornato nell’oblio per una opinione pubblica che si è velocemente dimenticata di quando i bombardieri italiani, insieme a quelli degli altri paesi della Nato, sganciavano tonnellate di bombe sulle città della Serbia e anche di quella provincia ribelle: era per salvare la popolazione kosovara che i nostri caccia si levavano in volo dalle base di Aviano, per evitare il “genocidio” e la “pulizia etnica” si disse allora.
 
Il 23 marzo del 1999, Javier Solana, allora segretario generale della Nato, autorizzò l’operazione Allied Force che dava il via all’aggressione militare contro la Federazione Jugoslava: si riteneva che, in due o tre giorni di raid, il Governo di Belgrado avrebbe ceduto alle richieste capestro della ‘comunità internazionale’. Gli attacchi cominciarono la sera del 24 marzo, e colpirono bersagli strategici, sia civili che militari: stazioni radiotelevisive, impianti industriali, ponti… mano a mano che l’offensiva andava avanti, il numero dei morti e dei feriti cresceva. Ma i giorni passavano e la posizione dei governi aderenti alla Nato si faceva sempre più difficile: ma in assenza di un forte movimento di massa contro la guerra – in Italia il centrosinistra al governo giustificava l’operazione militare come inevitabile portandosi dietro sindacati e associazioni cosiddette pacifiste - l’intensificarsi delle azioni militari e l’aumento dei bersagli possibili fecero sì che gli aerei dell’alleanza non utilizzassero più soltanto le cosiddette "bombe intelligenti" a guida laser o satellitare, che poi tanto intelligenti non erano, ma anche carichi convenzionali, assai meno chirurgici nell’uso, con un pesante tributo di sangue innocente. Il 6 aprile, un missile uccise 17 civili ad Aleksinac; il 12 fu colpito un treno passeggeri, causando 55 morti; il 14 a Decani una colonna di profughi albanesi fu scambiata per truppe jugoslave (75 morti), nella stazione televisiva di Belgrado morirono, il 23 aprile, 16 persone che stavano lavorando ai notiziari, il 1 maggio fu centrato un autobus di linea vicino a Pristina (23 morti) e due giorni dopo avvenne lo stesso a Pec (20 morti), il 14 maggio furono uccise da una bomba altre 87 persone: alla fine, i danni ‘collaterali’ si sarebbero quantificati in almeno altre 500 nuove tombe! Il 27 maggio, gli aerei Nato fecero il record: 741 incursioni... A sorpresa, il 2 giugno, Milosevic accettava l’ennesimo ultimatum di Washington. Ormai, la Nato copriva militarmente dall’alto le milizie dell’Uck che, invece di sciogliersi come concordato, cominciarono una lunga serie di assalti contro le comunità serbe della provincia. In uno degli ultimi episodi dell’aggressione, il 7 giugno, sul monte Pastnik, truppe di Belgrado che si stavano scontrando coi guerriglieri furono letteralmente "polverizzate" dai B52 statunitensi; sparirono sotto le bombe 225 soldati di Belgrado. Il 10 giugno, dopo 79 giorni d’inferno, i bombardamenti Nato furono sospesi: sulla Serbia erano state lanciate 23.164 bombe. Due giorni dopo, cominciavano ad affluire il Kosovo 14.000 soldati del Kfor; ma, nonostante ciò, l’Uck continuò ad occupare città e territori e a perpetrare ogni sorta di angheria verso le minoranze non albanesi (Rom e serbi, soprattutto) passando poi alle rappresaglie contro quei movimenti albanesi che rifiutavano di sottomettersi ai comandanti delle milizie.
 
Sono passati esattamente dieci anni, una delle tante guerre giuste e umanitarie da appuntare come una medaglia al petto di premier e ministri. Ma una volta salvati, i kosovari non interessano più. Non fanno più notizia.
 
E men che meno interessa la minoranza serba del Kosovo, 100 mila persone che da dieci anni – e anche da prima che iniziasse la guerra, quando già dal maggio del 1996 le bande dell’UCK uccidevano militari e poliziotti, ma anche giornalisti, sindaci e giovani serbi nei caffè - hanno dovuto fare i conti con quella che in molti chiamano ‘contropulizia etnica’. Dando così per buona la versione degli eccessi di una pulizia etnica precedente ai danni degli albanesi da parte delle autorità serbe che avrebbe scatenato la reazione – per alcuni eccessiva e inaccettabile, per altri giustificabile o quanto meno comprensibile – contro gente che in Kosovo ci vive da secoli e che però viene considerata un corpo estraneo da eliminare in una nuova nazione che si fonda sul mito della Grande Albania e su una identità di tipo etnico che non lascia spazio alla diversità.
 
A migliaia hanno dovuto lasciare le loro case bruciate e distrutte dai ribelli dell’UCK, tornati dall’Albania e dalla Macedonia dove si erano rifugiati per sfuggire agli attacchi e ai rastrellamenti dei paramilitari e dell’esercito di Belgrado – ma soprattutto agli intensi bombardamenti della NATO che non facevano differenze di etnia. A decine di migliaia i serbi si sono rifugiati nei territori vicini, in Serbia, ma anche in Montenegro, mentre decine tra chiese e monasteri vecchi di secoli saltavano in aria, le loro case bruciavano, campi coltivati venivano distrutti e animali di allevamento uccisi. I nuovi vincitori, spalleggiati dagli eserciti dei paesi tra i più potenti al mondo, mettevano in atto la loro vendetta: l’obiettivo era ripulire il nuovo stato dai serbi, ma anche dalle altre minoranze che per secoli hanno convissuto in uno dei territori più multietnici dei Balcani: i rom, i gorani, i turchi, i bosniaci, gli egiziani, gli ashkalia, i montenegrini...
 
Chi non è scappato altrove ha comunque abbandonato le proprie case a Pristina, a Peia, a Prizren, e ha cercato riparo nella maggiore città a maggioranza serba dell’ex provincia poi diventata indipendente: a Mitrovica un ponte segna il confine virtuale tra la parte albanese e quella serba. Di qua un nuovo paese che si considera un pezzo ancora troppo piccolo della grande Albania, di là un irriducibile comunità governata da Belgrado, che al posto dell’euro usa il dinaro, che parla e vive in serbo e vede la tv di Belgrado, che beve una birra diversa e che usa una compagnia telefonica diversa da quelle che usano gli albanesi poche centinaia di metri, pochi km più a sud. Una comunità che si sente, ed è, assediata, accerchiata, ferita nell’orgoglio e che cova una rabbia e una disperazione che è impossibile descrivere a parole.
 
Ma alcuni hanno deciso di restare nelle loro case anche nel resto del Kosovo, di non scappare. Come a Gorazdevac, un piccolo villaggio in cui vivono assediati meno di mille serbi. Altrettanti se ne sono andati altrove, sono emigrati. A proteggere e a controllare chi è rimasto, ci sono i militari della KFOR. Oggi sono romeni, fino a poco tempo fa erano italiani. È un paradosso, essere protetti oggi da chi nel ’99 li ha bombardati e bersagliati. Le poche case, per lo più ricostruite o rattoppate, visto che molte sono state distrutte o danneggiate dagli attacchi dei miliziani albanesi, sono circondate da una specie di perimetro, chiuso a valle e a monte da due checkpoint sorvegliati dai militari della NATO. ‘Fino a poco tempo fa erano presidiati 24 ore su 24, ora invece i militari romeni percorrono il perimetro di tanto in tanto, la situazione è più tranquilla’, ci spiega Domenico di “Operazione Colomba”, che da parecchi mesi vive in una casa di Gorazdevac assieme ad altri italiani che lavorano ad un progetto dell’associazione che mira alla riconciliazione tra serbi e albanesi, al mutuo riconoscimento di comunità che continuano a odiarsi e a sognare un futuro diverso, opposto, inconciliabile.
 
Vivere assediati dai soldati senza poter uscire liberamente dal recinto è come vivere in un tempo sospeso. Ad vicino villaggio di Belo Polje, poco distante da ‘Villaggio Italia’, la principale base militare del contingente italiano in Kosovo, è andata molto peggio. Qui le bande dell’UCK arrivarono nel 1999, distrussero le case, la chiesa, la scuola. Gli abitanti tornarono presto, e ricostruirono, fidandosi degli inviti rivolti pressantemente dall’ONU a rientrare nei territori abbandonati durante il conflitto. Ma nel 2004 i paramilitari albanesi tornarono, e distrussero tutto di nuovo, compresa un’antica chiesa ortodossa dove si erano rifugiati alcuni preti, donne e bambini.
 
“I 7 soldati italiani del contingente della NATO che dovevano difendere il villaggio quando videro avvicinarsi gli aggressori fuggirono lasciando ai poliziotti albanesi l’arduo compito. Questi provarono anche a resistere, spararono anche sulla folla inferocita aizzata dall’UCK che aveva già iniziato la distruzione delle case, ma poi anche loro scapparono” ci racconta ancora Domenico mentre in automobile passiamo vicino alle case sventrate e annerite dal fumo per andare a vedere, da fuori, la base militare italiana. Oggi a Belo Polje della maggior parte dei mille abitanti di un tempo ne rimangono poche decine. E’ un paese fantasma, un simbolo di un Kosovo serbo che non c’è più, rimosso a forza dalla mappa geografica.
 
A prima vista, quindi, alla piccola e vicina comunità di Gorazdevac è andata meglio. C’è una atmosfera apparentemente tranquilla, rilassata. Anzi, quando entriamo in paese accompagnati dai ragazzi di Operazione Colomba vicino alla chiesa e alle piccole giostre c’è animazione: nel campetto locale è appena finita una partita di calcio – valida per il campionato nazionale, serbo naturalmente - e parecchia gente, per lo più giovani, stanno sciamando fuori dal campo di gioco mentre altri salgono sul vecchio autobus che li ha portati qui da un paese vicino.
 
L’allegria però cessa immediatamente quando a piedi cominciamo ad esplorare il paese accompagnati da Sanya, una ragazza che ci ospita a casa sua insieme ai genitori e ai piccoli e biondissimi Milos e Philip. Poco lontano dalla loro bella e accogliente casa, accanto a una fontana in un piccolo recinto adornato da fiori, c’è una lapide: sopra c’è scolpito un lungo elenco dei nomi degli abitanti del villaggio morti negli attacchi dal ’99 in poi, e ai lati della stele due foto. Sono quelle di Ivan e Pantelja, uccisi nel 2003 dai colpi di kalashnikov sparati dalla boscaglia. Erano due ragazzi, assassinati mentre con alcuni loro coetanei facevano il bagno nella Bistrica, un torrente che scorre ai margini di Gorazdevac. Era agosto e faceva caldo, e anche se gli abitanti del villaggio evitavano accuratamente di andare a Pec-Peia (ormai solo Peia...) o di fermarsi troppo a lungo nei vicini villaggi albanesi dei dintorni nessuno avrebbe mai pensato che qualcuno potesse prendere di mira, a freddo, due ragazzini.
 
Ai funerali di Ivan Jovović, di 19 anni, e di Panteljia Dakić, di 11 anni, il 13 agosto del 2003 parteciparono tutti gli abitanti del villaggio e molti altri, compresi centinaia di soldati della Nato e dell’ONU: quegli stessi che non hanno saputo e voluto proteggerli, quegli stessi che non hanno saputo e voluto trovare e punire i responsabili di quell’orrendo crimine.
 
Da quel giorno i pochi serbi che grazie al lavoro di Operazione Colomba e di Intersos avevano ricominciato ad uscire dall’enclave sono stati costretti nuovamente a rinchiudersi in quella loro piccola prigione. Qua non c’è lavoro, non c’è niente da fare. E molti continuano ad andarsene, nonostante gli incentivi economici di Belgrado ai serbi del Kosovo; i genitori di Sanya, con cui tentiamo di praticare qualche parola di serbo che abbiamo imparato durante i precedenti viaggi nei Balcani, è da tanti anni che non lavorano, che se ne stanno in casa, frustrati. Lui lavorava nello stabilimento di Pec della Zastava, quello che sfornava automobili per conto della Fiat. Ora nello stabilimento non ci lavora più nessuno degli 800 serbi che vi erano impiegati fino al ’99. Magra consolazione deve essere stata per quelle centinaia di operai albanesi che sono stati cacciati nel corso del processo di privatizzazione di quella che adesso si chiama ‘Kosova Steel’. Operai albanesi cacciati dai nuovi padroni altrettanto albanesi. Contraddizioni del nazionalismo.
 
Cerchiamo di spiegare all’ex operaio della Zastava che ci ospita in casa che i comitati dei lavoratori dell’altro stabilimento dell’ex azienda automobilistica jugoslava, quello di Kragujevac, a sud di Belgrado, qualche giorno prima che arrivassimo a Pristina avevano offerto il loro aiuto alla popolazione del terremoto, organizzando una donazione di sangue per gli abruzzesi. Qualche anno fa, mentre i bombardieri anche italiani sganciavano sulla loro fabbrica bombe da mezza tonnellata che facevano scempio delle macchine e delle infrastrutture, alcune organizzazioni di lavoratori italiani avevano organizzato una raccolta di fondi per i loro compagni della Zastava. Non sappiamo quanto di quello che abbiamo detto sia stato compreso dal padrone di casa, che comunque esprime il suo dolore e la sua solidarietà per chi ha perso la vita o la casa all’Aquila. Poi ci offre un bicchierino di Rakja, la grappa che hanno fatto in casa durante l’inverno con le prugne dell’albero nel giardino. Lui non beve, mancano pochi giorni alla Pasqua ortodossa e per una settimana si mangiano solo verdure, non si usa l’olio e non si bevono alcolici. La sera della vigilia c’è la cerimonia più importante per tutta la comunità... Decani è a pochi chilometri di distanza, chi sa se gli abitanti di Gorazdevac riusciranno a raggiungere il Monastero per la messa.
 
Mentre cerchiamo di spiegarci e di comprenderci, se ne va la corrente… Jagoda accende le candele, che sono a portata di mano. I blackout sono normali, qui la luce da anni se ne va due, tre, quattro volte al giorno. Certe volte per pochi minuti, certe volte parecchie ore. ‘Niente lavorare, niente pagare’ recita Jagoda nel suo italiano incerto. Suona come una sentenza. I serbi non pagano le bollette della luce che gli arrivano dalla nuova compagnia elettrica kosovara, la KEK. E quindi la compagnia gli stacca la corrente, raccontano, per ritorsione. All’inizio di marzo a Silovo, in un villaggio serbo nel centro del Kosovo, la popolazione è scesa in piazza per protestare contro i distacchi di elettricità da parte della compagnia KEK: ci sono stati scontri violenti durante i quali sono rimasti feriti una cinquantina di serbi e cinque poliziotti. Anche gli albanesi non pagano le bollette... il caos postconflitto per certe cose dura ancora. Ma a loro la luce non la staccano, se non quando la vetusta e puzzolente centrale a carbone di Obilic non ha qualche problema.“Tako”, “è così”, commenta scuotendo la testa Jogoda mentre infila altri ciocchi di legna nella stufa che riscalda la stanza. Sanya mette a letto Milos e Philip, è tardi e domani mattina presto devono andare a scuola. Non dovranno fare molta strada, in effetti: l’edificio bianco che ospita i bambini dai 6 ai 18 anni è a poche centinaia di metri da casa. I libri sono gli stessi che si studiano a Belgrado, si studia la storia della Serbia e della Jugoslavia. Sui testi scolastici si raccontano gli albori della cultura serba, quando gli antenati di Milos e Philip costruirono i monasteri di Decani, quello di Pec, quello di Gracanica, e poi difesero i loro villaggi contro l’invasione turca nella battaglia di Kosovo Polje. Una battaglia persa, ma per i serbi una sorta di atto di fondazione di una civiltà che sentono viva e minacciata dall’espansione nei Balcani dell’Islam e degli Albanesi che li hanno accerchiati, messi all’angolo. I partiti di Belgrado continuano a fare promesse che non potranno e forse presto non vorranno più mantenere: continuano a dire che presto la situazione migliorerà, che i serbi del Kosovo riavranno presto la libertà di movimento, che potranno tornare a lavorare, e a vivere normalmente. Anche i partiti albanesi di Pristina stanno al gioco: la nuova costituzione kosovara concede ai serbi una delle sei stelle che campeggiano sulla bandiera ufficiale della nuova repubblica, in nome di una società multietnica che non esiste più e che nessuno vuole.
 
Ognuno vive nel suo mondo separato, nella sua realtà, non c’è collaborazione o contatto tra albanesi e serbi. E quando qualcuno sconfina è facile che diventi un target: i leader e gli attivisti politici kosovari che abbiamo incontrato, e i giornalisti, negano risolutamente che i serbi vengano discriminati o addirittura minacciati. “sono loro che si isolano, che si appartano, che non vogliono riconoscere la nuova realtà” è la spiegazione che ci sentiamo ripetere. Ma noi prima di partire abbiamo fatto una ricerca sulle agenzie di stampa, e abbiamo trovato almeno quattro aggressioni gravi contro cittadini serbi solo nell’ultimo mese e mezzo. D’altronde i kosovari si sentono albanesi, e considerano la nuova bandiera blu appena sfornata dopo un concorso pubblico qualcosa di imposto, di improprio. Infatti tutti usano quella rossa con l’aquila nera bicipite, e quelle sei stelle messe accanto alla mappa del Kosovo a rappresentare le sei etnie che popolano il territorio sono solo una concessione fatta agli amici della Nato. Se non fosse per i militari italiani o svedesi in assetto da guerra che proteggono Decani o il Patriarcato serbo di Pec da dietro le loro postazioni blindate, questi gioielli della cultura medievale sarebbero cancellati, bruciati, distrutti, come è capitato a più di 100 monumenti serbi in tutta la ex provincia Jugoslava. La stessa memoria della loro presenza storica deve essere rimossa. Ed è a quella memoria, ingigantita e amplificata, che si attaccano i serbi per resistere in un territorio ostile. Nel pomeriggio Sanya ci aveva mostrato orgogliosa una piccola chiesa di legno che è sopravvissuta dal 1200, salvata dalle invasioni dei turchi e dalle razzie dei soldati delle diverse nazioni che hanno attraversato nei secoli questo territorio, smontata e spostata di volta in volta per evitarne la distruzione. Siamo in una regione che i serbi chiamano Metohija, ‘la terra dei monasteri’. Belgrado la considera la culla della civiltà serba, e afferma che mai e poi mai cederà la sovranità sui luoghi sacri e sul patrimonio culturale disseminato sui monti e nelle valli intorno a Pec. Ma la real politik e la necessità di una integrazione economica e politica delle elite di Belgrado nell’Unione Europea e nella Nato potrebbe consigliare una soluzione di compromesso: creare un cantone serbo a Mitrovica dove concentrare tutti i serbi del Kosovo, una sorta di repubblica Serpska come in Bosnia. Per ora tutti lo negano, a Belgrado perché ai serbi suonerebbe come un tradimento e a Pristina perché agli albanesi suonerebbe come una indebita pretesa territoriale all’interno della nuova repubblica indipendente. Ma qualche analista giura che è la proposta con più probabilità di essere attuata nel prossimo futuro. Che fine farebbero, a quel punto, i serbi di Gorazdevac? Passeggiando arriviamo al check point e ci fermiamo: più in là non si può andare, c’è un altro villaggio. E’ albanese: con la sua lingua, la sua religione, la sua cucina, la sua musica, i suoi simboli. I suoi martiri e i suoi lutti.