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Da: Il Manifesto
 
Il fronte somalo dell'Etiopia di Meles
 
Giampaolo Calchi Novati
 
29/12/2006
 
I piccoli mostri crescono. Non bastava l'estremismo fatto in casa. Volendo agire alla grande, come si conviene a un ex impero, l'Etiopia ha mosso i carri armati e l'aviazione. Noblesse oblige. Dietro all'offensiva dell'esercito etiopico in territorio somalo, a sostegno del governo di transizione e contro il governo delle corti islamiche, ci sono la geopolitica e il retaggio della storia. Per non discriminare nessuno, anche i popoli e gli stati della periferia hanno diritto a veder riconosciuti i loro interessi «nazionali». Ma non è certo per caso che l'azione locale o regionale si iscriva così bene nella fattispecie globale che la contiene e la copre. Il capo del governo di Addis Abeba dice che appena finito il lavoro, quando i terroristi saranno stati sgominati e la minaccia contro la sicurezza sarà svanita, l'Etiopia non avrà altre rivendicazioni da soddisfare. Senza paura di essere sgradevole fino in fondo, Meles Zenawi sceglie le parole giuste per far capire a chi si ispira e intanto ricorda a Bush che si aspetta di essere ricompensato in forma debita.

Per tutto il periodo del bipolarismo, nelle vicende del Corno d'Africa, gli attori in loco si sono sempre imposti sulla grande politica. Le superpotenze sono state sfruttate per il servizio che potevano rendere alle cause nazionali. Da tempo l'Etiopia di Meles fremeva e il «buon esempio» delle aggressioni perpetrate qua e là per il mondo dagli Stati uniti senza suscitare vere reazioni all'Onu lo hanno incoraggiato a passare il Rubicone. L'Etiopia stava perdendo la battaglia di Mogadiscio. Il presidente Abdullahi Yusuf, che da capo semi-separatista della Migiurtinia, ribattezzata classicamente Puntland, era stato promosso nel 2004 a capo dello stato dopo un'estenuante trattativa interclanica, era fermo alla casella zero. Il suo governo, nato su pressione della comunità internazionale e dell'Igad, l'organizzazione regionale, non era in grado di farsi valere da solo ed era confinato a Baidoa, al confine con la stessa Etiopia. L'avanzata del fondamentalismo si è presentata come il casus belli tanto atteso. Alcuni ministri del governo teoricamente in carica avevano disertato collaborando con l'Unione delle corti islamiche, per convinzione o per convenienza, ma a questo punto era meglio che nessun tentativo di mediazione o di conciliazione, per quanto impervio, riuscisse. Il bravo Mario Raffaelli ha impiegato le arti di «facilitatore» per conto dell'Italia e dell'Europa ma era destinato a fallire. La stessa Europa non è neppure concorde. Una volta di più, l'Inghilterra si distingue perché invece di perseguire la mitica unità della Somalia, porta avanti la pratica che dovrà legittimare l'indipendenza del Somaliland, un ex protettorato stabilito a suo tempo per alimentare la base di Aden.
 
L'Etiopia sta combattendo tre partite in una.
L'obiettivo principale è ovviamente assicurare una Somalia stabile e amica: il governo non deve essere troppo sbilanciato dalla parte dell'islamismo perché questa caratterizzazione può galvanizzare i somali che vivono nell'Ogaden, che è pur sempre una provincia dell'Etiopia, e più in generale i musulmani dell'Etiopia, che si sentono un po' sacrificati da un governo che rappresenta l'élite cristiana del piccolo Tigrai. È su questo tema che la politica dell'Etiopia si incontra con le ossessioni della war on terror cara al presidente delle Torri Gemelle. L'amministrazione americana si è convinta che la guerra globale non si vince senza creare un solido frangiflutti sulle rive meridionali del Sahara. Il Sudan e la Somalia sono i due fronti caldi e tutti gli alleati sono benvenuti, siano essi i governativi in Etiopia o i ribelli in Sudan. 

Un obiettivo secondario di Meles è di ritagliarsi una via al mare attraverso il Somaliland. Oltre che a Londra la parte settentrionale dell'ex Repubblica di Somalia ha validi padrini anche a Addis Abeba. Sullo sfondo, e questo è il terzo teatro, l'Etiopia è in guerra con l'Eritrea. Il presidente eritreo Isaias Afeworki ha commesso l'imperdonabile errore di sollevare un problema di frontiera, e forse di egemonia, con la guerra che è durata dal 1998 al 2000.

Le armate etiopiche alla fine hanno soverchiato la piccola Eritrea, ma il responso della Commissione internazionale a cui era stato affidato il compito di pronunciarsi sul tracciato del confine ha dato ragione all'Eritrea sulla zona di Badme, che nel frattempo, assurdamente per la verità, è diventata una specie di simbolo dell'integrità nazionale etiopica. Se è possibile umiliare l'Eritrea, fiaccata per suo conto da un governo in piena deriva verso un dispotismo irresponsabile, la guerra vinta sul campo ma non al tavolo della diplomazia potrebbe avere una conclusione diversa. Si può capire perché con i miliziani delle corti islamiche potrebbero esserci soldati eritrei. Ormai il governo di Asmara - a costo di allearsi con gli islamici e di scontrarsi con Stati Uniti e Israele - combatte tutte le guerre che possono indebolire l'Etiopia e destabilizzare il Corno.

Le poste e i relativi schieramenti ammettono qualche contraddizione: è il prezzo pagato alla complessità dell'intero contesto. C'è un punto nero però che fa temere il peggio. Malgrado le possibili convergenze suggerite dalla tattica, l'Etiopia è considerata il «nemico» per eccellenza della Somalia. Un'occupazione etiopica della Somalia, anche se per interposta persona, può portare tutta la regione sull'orlo dell'abisso. Ma la globalizzazione, come noto, si cura dell'«ordine» non delle vittime. Per gli effetti collaterali, al più, ci sono le Ong e l'Onu.