www.resistenze.org - popoli resistenti - svizzera - 17-01-12 - n. 392

I comunisti ticinesi a congresso
 
Tesi politiche approvate dal XXI Congresso del Partito Comunista del Canton Ticino (Svizzera)
 
Per un partito marxista flessibile e al passo coi tempi
 
a Emilio Küng (1924-2007)
 
A. Adattare il partito alla nuova fase capitalista
 
1 - L’esigenza di una trasformazione sociale non produce automaticamente coscienza e organizzazione politica. Lo vediamo in modo evidente nella nostra quotidiana attività: il deterioramento delle condizioni di vita, l’aumento del precariato e l’insicurezza sociale non stanno determinando cambiamenti in senso progressista da parte delle fasce popolari e della classe lavoratrice, è vero semmai il contrario. Invero la vittoria in Ticino del fenomeno leghista, che ha sbaragliato la medesima borghesia storica di ispirazione liberale e che ha prodotto una grave sconfitta della socialdemocrazia, va a dimostrare questa realtà.
 
2 - Come marxisti sappiamo però molto bene che non possiamo limitare la nostra analisi al mero dato elettorale o, in generale, sovrastrutturale, senza indagare su quelle che sono state le contraddizioni sviluppatesi nell’ambito della struttura economica della società. Occorre pertanto che vi sia, da parte di un partito che si pone in ottica rivoluzionaria, una costante analisi dei processi di trasformazione della classe sociale di riferimento a livello globale e le forme che essa assume in relazione ai mutamenti del sistema produttivo. Sarebbe assurdo pensare, infatti, che il movimento operaio possa agire con le stesse modalità organizzative e con le stesse tattiche politiche che andavano bene anche solo quindici anni fa.
 
3 - Anzitutto dobbiamo contestualizzare la fase nella quale ci troviamo a livello globale. Storicamente abbiamo osservato infatti varie tappe dello sviluppo dell’imperialismo come fase avanzata del capitalismo: un imperialismo del libero scambio in cui i paesi colonizzati erano funzionali all’esportazione di materie prime; un imperialismo (quello studiato in particolare da Lenin) come fase egemonica del capitalismo monopolista in cui l’esportazione di capitale era finalizzata alla produzione per vendere nei paesi della periferia e allargare quindi i propri sbocchi di mercato; e infine un imperialismo - quello attuale - certamente ancora basato sugli investimenti esteri, ma finalizzati alla produzione di merci con costi estremamente bassi, da esportare successivamente in larga parte nei paesi sviluppati del centro imperialista.
 
4 - Lo stesso sistema produttivo, nel quale si sviluppa il conflitto di classe, è dunque conseguentemente mutato: dalla fabbrica fordista in voga fino a pochi decenni fa, oggi notiamo invece come i centri direzionali e le funzioni a più alto valore aggiunto si concentrino nei paesi del centro. E’ qui infatti che si trova la maggiore forza finanziaria e in cui si sviluppano i mercati di sbocco. La produzione vera e propria delle merci avviene per contro nei paesi della periferia dove il capitalista può contare su costi estremamente inferiori. Tutto ciò crea una situazione in cui i paesi avanzati si caratterizzano per la dimensione finanziaria e l’offerta di servizi, mentre le periferie per il lavoro produttivo in senso stretto. Ed è proprio nelle periferie che notiamo un incremento esponenziale della classe operaia (anche tramite processi di urbanizzazione) nelle peggiori condizioni di lavoro.
 
5 - Tale modifica delle dinamiche produttive implica un cambiamento anche nella classe operaia che, per quanto visto sopra, è sempre di più "internazionalizzata". Muta insomma la fenomenologia della classe lavoratrice, ma certamente essa non sparisce come spesso si sente dire. Cambiano le modalità organizzative della struttura economica, ma non viene certo meno la contraddizione fondamentale fra capitale e lavoro e il rapporto di sfruttamento del capitalismo.
 
6 - Nei centri imperialistici, come è la Svizzera, riscontriamo peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro dei salariati che subiscono non solo riforme volte alla precarizzazione e alla flessibilizzazione del mercato del lavoro, ma sono confrontati anche con i tagli nelle assicurazioni sociali e i perlomeno latenti processi di privatizzazione. Nonostante ciò, se paragonate alle condizioni in cui vivono i lavoratori della periferia, il livello di benessere risulta essere di gran lunga superiore. Ciò è dato però anche dal fatto che al capitalismo interessa mantenere un mercato di sbocco per merci e servizi di massa. Storicamente i profitti generati grazie all’imperialismo hanno "consentito" alla borghesia una minima ridistribuzione della ricchezza con la finalità politica di dividere i lavoratori: una parte della classe operaia può così, infatti, disporre delle briciole ed emanciparsi dalla miseria, diventando una "aristocrazia operaia" (come la definiva Lenin), rappresentata dai partiti riformisti (socialdemocratici). Questo sappiamo sarà anche alla base del tradimento della II Internazionale al momento della Prima Guerra Mondiale.
 
7 - Venendo meno il periodo del welfare state keynesiano (finanziabile anche grazie allo sfruttamento delle periferie!), i salariati nei paesi avanzati risentono della perdita di ricchezza sia finanziaria che sociale: i processi di "proletarizzazione" in atto nei paesi occidentali, con la precarizzazione del lavoro e la competizione con i lavoratori immigrati sono infatti sotto l’occhio di tutti. In questa condizione di disorientamento - perché per la prima volta le prospettive per i giovani sono peggiori di quelle delle generazioni più anziane - vi è comunque da tener presente che, nel contesto globale, viviamo una condizione privilegiata prodotta dallo status di paese imperialista. I lavoratori si concepiscono in questo contesto come individui - e non come classe! - che devono difendere il proprio livello di vita, a tutti i costi. Si crea quindi una frattura grave fra i lavoratori del centro e quelli della periferia, che può portare in caso di forte tensione anche a sostenere guerre di stampo neo-coloniale o a irrigidimenti di stampo fascista della società.
 
8 - La fase storica nella quale ci troviamo noi oggi, genericamente definita post-fordista, non è quindi caratterizzata solamente dalla produzione flessibile, dal precariato e dalla mondializzazione, essa vede bensì una trasformazione che spesso come marxisti non abbiamo saputo osservare: nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale all’aumento della produzione della grande fabbrica corrispondeva una forte concentrazione della classe operaia (cioè del soggetto antagonista) che acquisiva peso numerico e conseguentemente anche potere contrattuale. Questa situazione oggi non esiste più: il processo di mondializzazione permette al capitalista di estrarre il plusvalore nelle periferie, mentre nei centri imperialisti la classe operaia perde quel ruolo di avanguardia di classe che aveva in precedenza, diventando uno dei tanti soggetti sociali che compongono il proletariato. Ciò non impedisce che vi siano ancora, nei paesi come il nostro, dei nuclei consistenti di classe operaia legati a un certo tipo di produzione, pensiamo in Svizzera all’industria militare (es.: RUAG), all’industria ad alto valore tecnologico (es.: AGIE) o all’esempio che continuano a rappresentare le Officine FFS di Bellinzona.
 
9 - La nascente grande industria meccanizzata a partire dalla seconda metà del XIX secolo era caratterizzata da una ancora debole parcellizzazione del lavoro: ciò permetteva di allontanare a fasi successive il processo di alienazione. Il legame che esisteva quindi fra i lavoratori e il prodotto finito lasciava percepire il ruolo del capitalista quasi come superfluo. Se a ciò aggiungiamo il dato della massiccia concentrazione di classe operaia in una comune situazione di sfruttamento e di povertà in un unico sito industriale, capiamo bene come la coscienza di classe potesse allora svilupparsi in modo più esplicito e con modalità ormai quasi del tutto tramontate al giorno d’oggi. Soprattutto dopo il 1945 (ma in realtà già nel periodo della Prima Guerra Mondiale) si inizia a sostituire la grande fabbrica meccanizzata con la produzione di linea taylorista e fordista. Ciò porta ad accentuare la divisone del lavoro e quindi alla dequalificazione del lavoratore, che si assume togliendolo all’agricoltura o approfittando dei flussi migratori. Lavoratori poco qualificati possono essere infatti molto più facilmente sostituiti alla catena di montaggio! Si entra così nella fase del boom economico.
 
10 - La presenza ad Est dei paesi del socialismo reale dimostrava perlomeno che il capitalismo non era l’unico modello di società possibile e che sul piano dei diritti sociali i lavoratori potessero vivere meglio. La presenza invece, in Occidente, di forti partiti operai di massa, seppure spesso senza una reale valenza rivoluzionaria (si pensi al PCI berlingueriano), era un ulteriore elemento con cui il Capitale doveva entrare in trattativa. E quindi, nonostante la parcellizzazione del lavoro fosse aumentata (e quindi la coesione di classe diminuita), e malgrado ci si trovasse in una fase di importante crescita economica si assistette in quel periodo (fra gli anni 1960 e gli anni 1970) a nuovi momenti di lotta e a una ripresa del conflitto a dimostrazione, peraltro, dell’infondatezza della tesi del "tanto peggio, tanto meglio" che in certi casi influenza ancora parte dell’estremismo di sinistra.
 
11 -Non crediamo che la contesa inter-imperialista possa ridimensionarsi nel prossimo futuro e se in alcuni contesti, come in America latina, si manifestano situazioni rivoluzionarie, noi dobbiamo sempre avere in chiaro che operiamo in un paese del "centro" e non della periferia. Fermo restando che il Partito si forma in base alle condizioni economiche, culturali, sociali e politiche date in una certa fase in un ben determinato contesto storico, nazionale e internazionale e che non esistono modelli da esportare, abbiamo bene in chiaro che non può esistere un Partito Comunista se esso non crea un rapporto organico, privo di dogmatismo ideologico, con tutti i settori sociali (e i movimenti che da essi possono sorgere) che in qualche modo sono penalizzati dallo sviluppo delle contraddizioni dell'attuale crisi capitalista.
 
12 - Ci dobbiamo quindi chiedere quali saranno le contraddizioni che caratterizzeranno la fase storica e quali dovranno essere le forme organizzative che i comunisti dovranno adottare. Ve ne sono moltissime, noi iniziamo ad elencarne tre:
 
a) Il primo elemento da considerare è la crisi economica strutturale che sta colpendo dal 2008 l'Occidente capitalista e che mette in discussione lo status di quella che prima abbiamo definito "aristocrazia operaia". Lungi da noi ogni ipotesi spontaneista nel passaggio della "classe in sé" alla "classe per sé": la scomposizione di classe è troppo avanzata perché si possa cedere a visioni operaiste di tipo quasi messianico. Tuttavia si potranno aprire degli spiragli di lotta dei lavoratori in cui inserire elementi più o meno esplicitamente anti-capitalistici. Le recenti mobilitazioni nel settore edile in Ticino sono sintomatiche e il Partito potrà però costruire un proprio ruolo solo una volta stabilita una strategia anche in ambito sindacale (vedi sotto paragrafo C.4).
 
b) Il secondo elemento di contraddizione che appare evidente è la tendenza della borghesia a implementare politiche "securitarie", autoritarie, sempre più neofasciste e potenzialmente guerrafondaie (in ottica neo-coloniale, come stanno a dimostrare il recente attacco imperialista alla Libia o il tentativo di controrivoluzione in Siria). La linea del Partito Comunista di aperto sostegno ai giovani svizzeri affinché non svolgano servizio militare e si distanzino dall'esercito elvetico - che non è (più) né neutrale né di difesa - complice di tante aberrazioni (dalla repressione degli scioperi negli anni ’30 alle più recenti collaborazioni con il regime sionista di Israele e con la NATO) appare quindi lungimirante nell'ottica di non essere partecipi di tale tendenza e di sviluppare anzi altre capacità per i nostri militanti, come la conoscenza - attraverso il servizio civile - delle realtà quotidiane in vari ambiti professionali e sociali della classe lavoratrice. Sul fronte interno dobbiamo essere consci che le formalità democratiche del sistema politico borghese diventeranno tendenzialmente un crescente ostacolo per il processo di accumulazione capitalistica: esse saranno quindi progressivamente limitate quando non liquidate con scuse quali la "lentezza" della democrazia, l’indisciplina giovanile (che sarà affrontata con mezzi di controllo sociale), la microcriminalità (a cui si contrapporrà uno stato di polizia), ecc. La vigilanza democratica per la nostra organizzazione non va quindi sottovalutata nel corso del radicamento del Partito.
 
c) La terza contraddizione che notiamo è quella ambientale che permette, anche se non sempre da posizioni di classe, di mettere in discussione radicalmente il modello di crescita ecologicamente (e socialmente) non sostenibile tipico del modo di produzione capitalista basato dall’appropriazione del plusvalore all’interno di un contesto di riproduzione allargata atta a bypassare la caduta tendenziale del saggio di profitto. Movimenti popolari, quindi, di resistenza alle cosiddette grandi opere (l’inceneritore dei rifiutati di Giubiasco-Baragge nel 2005; il gasdotto Metanord nel 2006; la variante autostradale sul piano di Magadino nel 2007; le urbanizzazioni selvagge; ecc.) che poi spesso si sviluppano in una critica all’intreccio "mafioso" fra affari e politica, mettono in discussione proprio la regola latente dell’accumulazione allargata del plusvalore e quindi dispongono di un potenziale oggettivamente anti-capitalista che come marxisti dobbiamo saper individuare e rendere esplicito. Il Partito si impegna quindi a promuovere una piena consapevolezza dell’importanza dei beni comuni, acqua, terre, difesa dell’eco-sosteniblità e della bio-diversità, nella convinzione che la tutela del patrimonio collettivo è parte non alienabile della battaglia per l’uguaglianza tra i cittadini.
 
13 - Dal quadro generale descritto nei punti precedenti (ad esempio: l’effetto disgregatore da un lato del precariato e dall’altro delle delocalizzazioni) si denota come il tessuto sociale nel quale ci stiamo muovendo è caratterizzato da una forte "polverizzazione" di classe e da svolte inedite dei sommovimenti politici (ad esempio la forte componente di "aristocrazia operaia" fra la base leghista). La disgregazione analizzata in precedenza, le nuove identità professionali (ad esempio nei call-center), o fenomeni quali il telelavoro rendono necessario riflettere sulle modalità organizzative di un partito rivoluzionario in relazione alla classe operaia. E’ opportuno qui riprendere (e adattare) le posizioni espresse nel documento "Per un futuro socialista: un partito dei lavoratori che sappia incidere nella realtà" (paragrafi 1.4 e 6.2) adottato dal nostro ultimo Congresso Cantonale (giugno 2009): agire infatti come se fossimo (o potessimo diventare a breve) un "partito di massa" appare piuttosto illusorio. In questa fase - che è comunque ancora di ricostruzione del Partito dopo il forte ringiovanimento avvenuto - occorre puntare sulla qualità della militanza, prima che sulla quantità. Sappiamo che non esiste un rapporto meccanico fra il numero dei tesserati e l’influenza sociale di cui il partito dispone effettivamente, occorre quindi costruire anzitutto un’organizzazione di quadri con funzione di massa: non un gruppuscolo con vocazione minoritaria, insomma, ma un partito d’avanguardia con una sensibilità popolare, che sappia organizzare i suoi quadri nelle organizzazioni di massa al fine di esercitarvi influenza. Per fare ciò occorre che si convochi al più presto una Conferenza Cantonale del Partito che lavori per una revisione totale degli statuti e per ragionare sull’attività collaterale dei comunisti nella società civile e nei movimenti.
 
da www.sinistra.ch/?p=1502
 
"Dobbiamo essere utili alla popolazione!": i comunisti ticinesi a congresso
 
27/12/2011
 
La "Bolognina" era il luogo in cui l’ex-Partito Comunista Italiano (PCI) decise di sciogliersi nel 1991. Nel 2007 in Ticino si svolse invece una "anti-Bolognina" e poche settimane fa i comunisti ticinesi lo hanno, nuovamente, ribadito. L’ubicazione del 21° Congresso Cantonale del Partito Comunista Ticinese era infatti solo apparentemente insignificante: in realtà nascondeva un chiaro riferimento identitario. La sala del Palagiovani di Locarno, infatti, è il luogo in cui nel settembre di quattro anni fa, il Partito Ticinese del Lavoro (PdL) cambiava nome e tornava ad essere "Partito Comunista".
 
Il Partito Comunista Svizzero "originale" venne vietato nel 1940 dalle autorità elvetiche e i suoi deputati furono arrestati, espulsi dal parlamento e per molti anni non poterono esercitare alcune professioni. Il ritorno al nome comunista nel 2007 era fortemente caldeggiato dai giovani che tornarono ad animare un partito ai minimi storici e ormai morente. Una scelta che si basava su un documento intitolato significativamente "cambiare nome, per cambiare politica".
 
Iniziava così una lotta contro le tesi "ondivaghe" (in gergo marxista si direbbe "opportuniste") che avevano portato i comunisti in Svizzera al nulla politico, soprattutto negli anni ’90. Una lotta che - pare - è oggi arrivata a un capolinea con quest’ultimo Congresso: salta infatti subito all’occhio la composizione del nuovo Comitato Cantonale, l’organo politico massimo del Partito. Nomi storici come i coniugi Sonja e Norberto Crivelli, che hanno guidato il Partito nei vent’anni precedenti (e che oggi ricoprono incarichi di rilievo nella "Sinistra Europea") sono infatti spariti dall’organigramma, "per loro scelta" tiene a specificare Mattia Tagliaferri, presidente del giorno del Congresso comunista, che informa i militanti presenti in sala della rinuncia di quelli che per anni sono stati considerati dei pilastri del Partito del Lavoro. "Non esiste alcun conflitto intergenerazionale - spiega Massimiliano Ay, segretario del Partito - si tratta di visioni strategiche diverse per lo sviluppo del nostro progetto politico".
 
E’ su queste basi, quindi, che il Partito Comunista del Canton Ticino, sezione del Partito Svizzero del Lavoro, ha celebrato, lo scorso 27 novembre, il proprio Congresso, che tiene regolarmente ogni due anni. Ad aprire i lavori è stato Simone Romeo, militante neo-maggiorenne della locale sezione comunista che così ha esordito: "Faccio parte da ormai tre anni della Gioventù Comunista, e ad oggi posso dire che essa è stata una parte fondamentale per la mia crescita politica, ma soprattutto per la mia crescita come persona. Le attività svolte e gli incarichi ricoperti all’interno dell’organizzazione mi hanno infatti aiutato ad accrescere le mia capacità d’analisi, dialettiche, così come le mie conoscenze del mondo. Potrebbero sembrare cose banali, scontate, ma invece sono importantissime anche al di fuori del mondo politico, visto che permettono di migliorare le relazioni sociali, la capacità di risolvere i problemi che la vita quotidianamente ci pone. Il Partito Comunista e la Gioventù Comunista, non significano dunque qualcosa soltanto per i giovani attivi che ne fanno parte, ma si stanno ponendo sempre più come punto di riferimento per tutti i giovani di sinistra, e non solo; e per fare ciò, dobbiamo lavorare costantemente cercando di concentrarci sui bisogni concreti della popolazione intera, con particolare attenzione ai giovani". E infatti il titolo del Congresso che campeggiava fra una stella gialla e una falce e martello bianca su sfondo rosso era: "Organizzare la gioventù, costruire l’alternativa". Simone Romeo ha concluso il suo intervento con alcuni riferimenti concreti all’azione dei giovani del Partito Comunista: "vi sono diversi temi sui quali ci siamo concentrati e ci siamo distinti: dall’abolizione della leva obbligatoria e la conseguente scelta per i nostri attivisti di favorire il servizio civile in alternativa al militare così da entrare in contatto con i lavoratori nei più svariati settori di pubblica utilità, la disoccupazione giovanile, i luoghi di aggregazione, la depenalizzazione delle droghe leggere come fattore di responsabilizzazione e di contrasto al mercato nero, ecc.".
 
Due anni e mezzo di crescita politica
 
Dopo un applauso all’entrata del segretario Massimiliano Ay, la sala si è alzata in piedi per ricordare i compagni defunti e per cantare L’Internazionale, l’inno che da sempre apre ogni evento politico dei comunisti. La parola è passata a quel punto ad Aris Della Fontana, responsabile del movimento giovanile, che ha tracciato un bilancio delle attività svolte dal giugno 2009 ad oggi. Per il giovane militante di Pollegio, i comunisti ticinesi sarebbero riusciti a "far muovere il Partito fluidamente all’interno delle contraddizioni che concernono la nostra realtà, con il giusto pragmatismo, senza procedere a scatti in avanti avventuristici e privi di connessione con le condizioni oggettive in cui si trova la popolazione. In tal senso capire come incidere nella realtà politica nello stato di cose esistenti diventa oggi quanto mai fondamentale per garantire al Partito comunista di non essere marginalizzato e di non diventare dunque un mero elemento di folklore". Secondo Della Fontana: "è necessario spargere le premesse culturale ed intellettuali affinché si evidenzi un clima interno al movimento che faciliti e promuova la dialettica e conseguentemente l’afflusso di preziose idee che, rese corpo unitario e coerente attraverso un processo di sintesi, possano configurarsi in quel valore aggiunto tanto necessario al potenziamento della nostra incisività politica. Complessivamente ritengo si sia saputo disporre di una considerevole flessibilità tattica, riuscendo ad analizzare determinate circostanze politiche con pragmatismo, sapendovi estrarre gli elementi maggiormente pertinenti ad una proficua esposizione politica. In questo senso è chiaro che come comunisti ticinesi abbiamo imparato molto dall’esempio che ci arriva dal Partito del Lavoro belga: il loro 8° Congresso nel 2007 diceva che un partito rivoluzionario nel XXI secolo deve essere ortodosso nella strategia, ma estremamente flessibile nella tattica". Non a caso quest’estate una delegazione di giovani ticinesi si era recata all’Università Marxista del PTB. Ma dopo aver citato le note positive non è mancata l’autocritica: "un partito comunista non può essere un partito di rappresentanza, esso deve essere il luogo per antonomasia della militanza, della partecipazione attiva e del coinvolgimento. Non vogliamo un partito di funzionari, vogliamo un partito di militanti. Occorre saper scoprire le qualità che esistono in ogni individuo, saper collocare ognuno al posto che meglio risponde alle sue attitudini", e per fare questo è stato citato Pietro Secchia, dirigente antifascista italiano: "Il difetto più grave del nostro Partito mi sembra essere una parte importante di iscritti inattivi, che ad un certo punto cesserà di essere una massa passiva ma diventerà una massa che se ne va, favorendo l’offensiva dell’avversario". Gli ha fatto eco Mattia Tagliaferri con una metafora calcistica che ha divertito il pubblico: "prima - ha detto il giovane studente di storia - quando ancora ci sentivamo gli orfani del Muro di Berlino, giocavamo in serie B, se non addirittura in categorie inferiori, dilettantesche; superato con fatica il complesso, abbiamo cominciato a ottenere qualche promozione (che tradotta in termini reali significa l’aver rimpolpato le fila, l’aver cominciato a proporre analisi, l’aver cominciato a lavorare sul territorio, l’aver creato importanti sinergie con il sindacato studentesco e da ultimo, l’aver ottenuto qualche buon risultato elettorale), e oggi siamo una squadra che in serie A lotta sì per la salvezza, ma lo facciamo giocando con l’U21, in un panorama di avversari con esperienze decennali. Il salto di qualità sta nel cominciare a puntare alla vecchia coppa UEFA, ma per farlo noi giocatori dobbiamo cominciare ad allenarci di più e meglio". E infatti il Congresso ha dato mandato al nuovo Comitato di concentrarsi molto di più sulla formazione politica dei militanti, riesuamando in forme innovative quella che una volta era la vecchia "scuola di partito".
 
Ospiti prestigiosi
 
Nel frattempo arrivava in sala l’oncologo di fama mondiale Franco Cavalli, candidato unitario della sinistra escluso dal senato per soli circa ottocento voti, il quale ha ringraziato i comunisti per il sostegno militante durante la campagna elettorale e ha invitato a tenere duro perché in momenti di crisi come quelli presenti, anche un partito apparentemente piccolo potrebbe diventare un punto di riferimento importante per tutti coloro che sognano una società più equa. Fra gli ospiti vi era anche Bernardo Croci, membro del Comitato Centrale del Partito dei Comunisti Italiani, che ha portato i saluti del segretario nazionale Oliviero Diliberto e che ribadito il legame di amicizia con il PC ticinese, visto come referente ancora di più che lo stesso Partito nazionale. A nome del Comitato Centrale del Partito Comunista di Grecia (KKE) ha preso poi la parola Petros Kipouropoulos che ha salutato la linea critica dei comunisti ticinesi nei confronti della "Sinistra Europea". Il KKE è stato in seguito lodato dal segretario Ay come "un esempio per la capacità di lotta e di mobilitazione contro le misure di austerità imposta dall’Unione Europea". All’indirizzo del Congresso sono poi arrivati numerosi messaggi augurali da diversi partiti del mondo: fra gli altri di partiti al governo dei rispettivi paesi, come il PC siriano, il PC del Brasile e il PC vietnamita. Anche l’ambasciatore della Repubblica di Cuba, della Repubblica Socialista del Vietnam, della Repubblica Popolare Democratica di Corea e della Repubblica Bolivariana del Venezuela si sono espressi con delle dichiarazioni di saluto ufficiale.
 
L’internazionalismo esiste ancora
 
La relazione iniziale del segretario del Partito inizia citando un giovane comunista di Mendrisio, Filipe Madureira: "nei partiti comunisti di un tempo, anche nella sezione del più piccolo dei comuni, le riunioni iniziavano partendo dalla relazione sul quadro internazionale, per poi man mano calarsi ad analizzare le questioni nazionali, regionali, poi comunali e di quartiere o di posto di lavoro. Questo permetteva di inserire ogni singolo aspetto, anche il più piccolo, della vita politica nel giusto contesto globale, fatto di intrecci e relazioni non sempre evidenti". Ay ha così giustificato il voler affrontare, con una impietosa analisi, il quadro globale, dove si riscontra un aumento delle guerre imperialiste, un processo di ricolonizzazione dell’Africa attraverso l’abbattimento del governo di Gheddafi da parte della NATO e un avvicinamento pericoloso degli USA ai confini cinesi anche attraverso la proteste eterodirette contro il governo della Siria (in cui i comunisti sono parte integrante). Ay non ha mancato in ciò di criticare la sinistra: "dobbiamo parlare chiaramente di lotta contro l’imperialismo, di solidarietà internazionalista a favore dell’unità e della sovranità nazionale dei paesi periferici. Da quando il blocco sovietico è venuto meno, le guerre sono aumentate e i diritti sociali in occidente sono crollati, le utopie gorbacioviane seguite anche dal nostro Partito, sulle case comuni europee hanno dimostrato tutta la loro inconsistenza e il loro spirito reazionario, anche se in molti a sinistra, quella sinistra buonista tipicamente occidentale ed eurocentrica, continuano a crederci! Passi indietro giganteschi nell’emancipazione dei popoli africani saranno presto visibili a causa anche dell’incapacità della sinistra occidentale di costruire forti mobilitazioni contro la guerra. E la Svizzera deve prendersi le sue responsabilità, al di là delle belle parole dei ministri degli esteri socialdemocratici: chi è che ha autorizzato di calpestare il cosiddetto patrio suolo di questa nostra Confederazione? Il Consiglio federale ha permesso a truppe di eserciti stranieri impegnate in azioni di guerra offensiva di attraversare il nostro Paese, una Svizzera che si vende ancora come neutrale, ma che non lo è più. E come potrebbe se il nostro esercito ("a cui i comunisti rifiutano di partecipare" - ha più volte tuonato Ay sottolineando fortemente la linea anti-militarista del Partito) è direttamente legato con un esercito aggressore e fascista come quello del regime sionista e razzista di Israele?".
 
"Non siamo i propagandisti della rivoluzione"
 
"Dobbiamo essere un partito di governo, non un partito al governo"! Questa frase sibillina pronunciata dal segretario ha lasciato sorpresi alcuni partecipanti, ma Massimiliano Ay ha continuato, senza peraltro nascondere alcuni tratti "dilibertiani", esortando i compagni a non costruire un partito "che fa propaganda roboante": "dobbiamo essere un partito di governo ma non al governo, cioè capace di delineare una proposta per risolvere i problemi che affliggono la società. Altrimenti non siamo credibili. Altrimenti c’è l’attesa messianica del comunismo, ma in realtà non si produce politica". "Ricordiamoci - ha concluso Massimiliano Ay - che la borghesia italiana impaurita dal biennio rosso preferì barattare la democrazia con il fascismo, in cambio della stabilità economica. E questa è la situazione attuale, perché la borghesia ha paura di questa immensa crisi. I tratti autoritari, militaristi e conservatori sono endemici alle nostre società occidentali e l’egemonia culturale della destra basata su individualismo, selezione e meritocrazia è quasi totale. Ecco perché il Partito Comunista deve dimostrare di avere le idee chiare in fatto di proposta politica e di agire concretamente per risolvere i problemi reali della popolazione, qui e oggi. Ecco perché c’è l’esigenza di mostrare che il partito comunista è qualcosa di utile e non di folkloristico".
 
Il processo di "normalizzazione"
 
"Normalizzazione" è una delle parole che caratterizzano questo Congresso. Massimiliano Ay ci tiene particolarmente e ci spiega: "in paesi a noi vicini i comunisti - per quanto dispongano di una forza elettorale ridotta - sono comunque riconosciuti come una componente relativamente rispettata del dibattito politico nazionale. Definirsi comunisti in Svizzera appare invece ancora come qualcosa di inconcepibile, di estremista, di inaffidabile. Questa situazione deve mutare: per il Partito deve assumere quindi una valenza prioritaria non solo far conoscere il nostro progetto politico-partitico a più persone possibili, ma anche quello di normalizzare, appunto, la percezione che la popolazione ha di noi, combattendo i pregiudizi anti-comunisti e i luoghi comuni. Si tratta di rivendicare per i comunisti quella legittimità democratica, nonché quella competenza e affidabilità che ancora troppo poco ci vengono riconosciute. Essere comunisti deve insomma diventare normale quanto lo è professarsi liberali, socialdemocratici o ecologisti. Per portare avanti tale processo di normalizzazione occorre saper sviluppare una tattica flessibile, aperta sia alle nuove istanze di movimento sia al lavoro di tipo istituzionale, ma pur sempre inserita in una strategia rigorosa che deve rimanere sempre quella rivoluzionaria del socialismo scientifico". Per concretizzare questa impostazione strategica elaborata dal segretario Ay, il Congresso ha votato a stragrande maggioranza una risoluzione che invita i militanti a farsi eleggere "nei legislativi comunali in modo sempre più esteso", ciò consentirebbe infatti di "mostrare alla popolazione che i comunisti sanno lavorare anche sui piccoli problemi concreti sentiti dal cittadino e dalla comunità locale. Questo favorisce l’accrescere della fiducia nei nostri compagni e quindi nel progetto politico che essi rappresentano". Gli eletti comunisti dovrebbero però "ribadire in ogni momento all’interno delle istituzioni (…) la loro totale opposizione alla visione dei problemi comunali sotto il solo profilo amministrativo e tecnico, quando essi in realtà, oggi sempre di più, riguardano questioni politiche di fondo: dalla speculazione fondiaria alla distorsione privatista di beni e servizi che dovrebbero essere invece di godimento popolare, ecc.". E poco dopo averne discusso, un Max Ay emozionato - invitando a far partire "Bandiera Rossa", una canzone "della vittoria" come l’ha definitia - ha annunciato l’elezione del ventiduenne Janosch Schnider quale neo-consigliere comunale di Mesocco, il primo comunista della storia del piccolo comune mesolcinese ad essere eletto, una notizia attesa per tutto il pomeriggio.
 
Normali, ma comunque "avanguardisti"
 
"Normalizzare" non significa forse rendere i comunisti un partito uguale agli altri? Ciò potrebbe insomma rivelarsi controproducente nella fase di sfiducia verso i partiti che si sta diffondendo nei ceti popolari. La domanda se la sono posti anche i delegati presenti in sala. Ma le mani sono subito state messe avanti: la "normalizzazione" - è scritto nelle tesi dell’assise - "non deve comunque, in nessun caso, assurgere a scusa per abdicare al ruolo avanguardista - e quindi anche anti-conformista - del militante rivoluzionario. Non si tratta solo di rivendicare la legittimità di essere attori politici a pieno titolo della società, occorre altresì fare in modo tale che come comunisti si sia stimati per la nostra libertà di pensiero e il nostro grado di emancipazione da categorie culturali obbligate, che rendono eterno il modello sociale interclassista e neo-corporativo che ci viene imposto in Svizzera". "Normalizzare" non è quindi sinonimo di "liquidare" il marxismo-leninismo né "diventare come gli altri", a Locarno ci tengono a puntualizzarlo: "al contrario significa rendere consapevole la popolazione del fatto che i comunisti sono assolutamente diversi da tutti gli altri e che questa diversità non solo è legittima, ma è la condotta più etica, più giusta e più umana possibile. Normalizzare vuol dire quindi ridare al Partito quel ruolo educatore che la sinistra ha voluto abbandonare per sembrare forse più moderna, accettando il dilagare ovunque di impostazioni culturali borghesi quando non direttamente reazionarie". In questo senso è stato ribadito come i giovani comunisti devono essere una "avanguardia" nel movimento studentesco e nel movimento di obiezione al servizio militare (i nuovi quadri politici del Partito sarebbero infatti renitenti alla leva), anche perché, riconoscono i compagni riuniti al Palagiovani: "il Partito Comunista si trova in un momento di netto cambiamento del blocco sociale che contraddistingue la nostra base: i giovani, spesso senza una chiara distinzione di classe, costituiscono oggi uno dei nostri referenti sociali più consistenti. Occorre pertanto adeguare ulteriormente la nostra linea di massa, migliorando la nostra capacità di porre dialetticamente la relazione fra i diritti civili (l’abolizione del servizio militare obbligatorio, la depenalizzazione delle droghe leggere, ecc.) e i diritti sociali (i trasporti pubblici gratuiti, il salario minimo anche per gli apprendisti, ecc.)".
 
La classe operaia, che dilemma!
 
Il confronto politicamente più acceso riguardava però la contestualizzazione dell’azione del partito ticinese. Leonardo Schmid, attualmente segretario sindacale presso UNIA e in passato membro della Direzione nazionale del Partito Svizzero del Lavoro ha presentato un emendamento totale alle tesi di Ay, giudicate "negriane", ossia potenzialmente liquidazionisti dell’analisi di classe. Se per Schmid andava ribadita la centralità assoluta della classe operaia industriale come avanguardia rivoluzionaria, il documento congressuale la vede in modo più sfumato: "la fase storica nella quale ci troviamo noi oggi, genericamente definita post-fordista, non è quindi caratterizzata solamente dalla produzione flessibile, dal precariato e dalla mondializzazione, essa vede bensì una trasformazione che spesso come marxisti non abbiamo saputo osservare: nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale all’aumento della produzione della grande fabbrica corrispondeva una forte concentrazione della classe operaia (cioè del soggetto antagonista) che acquisiva peso numerico e conseguentemente anche potere contrattuale. Questa situazione oggi non esiste più: il processo di mondializzazione permette al capitalista di estrarre il plusvalore nelle periferie, mentre nei centri imperialisti la classe operaia perde quel ruolo di avanguardia di classe che aveva in precedenza, diventando uno dei tanti soggetti sociali che compongono il proletariato. Ciò non impedisce che vi siano ancora, nei paesi come il nostro, dei nuclei consistenti di classe operaia legati a un certo tipo di produzione, pensiamo in Svizzera all’industria militare (es.: RUAG), all’industria ad alto valore tecnologico (es.: AGIE) o all’esempio che continuano a rappresentare le Officine FFS di Bellinzona". La parcellizzazione della classe operaia nel processo produttivo mondializzato fra centro imperialista e periferia subalterna negherebbe insomma ogni sogno "operaista". Tutti però d’accordo sulla necessità di lavorare per abolire la "pace del lavoro" e costruire una "corrente di classe" (cioè marxista) nei sindacati, perché l’esperienza dello sciopero delle Officine FFS di Bellinzona rimane vivo (e non a caso la bandiera di quella lotta era appesa in sala): "Occorre costruire dal basso un’alternativa che non limiti l’azione sindacale sul posto di lavoro, ma la intrecci dialetticamente con il tessuto urbano e sociale circostante per creare ampi fronti di tutela e rivendicazione dei diritti sociali. Si tratta insomma di costruire un legame fra la lotta concreta e la società civile, come nel 2008 abbiamo vissuto alle Officine FFS di Bellinzona, affinché si riesca a rifuggire dalla logica del corporativismo".
 
I tre punti chiave su cui lavorare
 
Il primo elemento da considerare per il Partito Comunista nell’elaborare una propria strategia di lotta è la crisi economica strutturale che sta colpendo dal 2008 l’Occidente capitalista. Pur riconoscendo la forte scomposizione di cui è stata vittima la classe operaia svizzera, "si potranno aprire degli spiragli di lotta dei lavoratori in cui inserire elementi più o meno esplicitamente anti-capitalistici. Le recenti mobilitazioni nel settore edile in Ticino sono sintomatiche". Il secondo elemento di "contraddizione", per usare una terminologia marxista, che secondo i comunisti va presa in considerazione "è la tendenza della borghesia a implementare politiche securitarie, autoritarie, sempre più neofasciste e potenzialmente guerrafondaie". La linea adottata dal Congresso stabilisce così non solo un "aperto sostegno ai giovani svizzeri affinché non svolgano servizio militare e si distanzino dall’esercito elvetico", ma una consapevolezza che "le formalità democratiche del sistema politico borghese diventeranno tendenzialmente un crescente ostacolo per il processo di accumulazione capitalistica: esse saranno quindi progressivamente limitate quando non liquidate con scuse quali la lentezza della democrazia, l’indisciplina giovanile (che sarà affrontata con mezzi di controllo sociale), la microcriminalità (a cui si contrapporrà uno stato di polizia), ecc. La "vigilanza democratica" non potrà insomma essere sottovalutata. Il terzo punto d’azione è quello ambientale che permette "anche se non sempre da posizioni di classe" specificano i compagni riuniti a Locarno, di mettere in discussione il modello di crescita non sostenibile "tipico del modo di produzione capitalista basato dall’appropriazione del plusvalore all’interno di un contesto di riproduzione allargata atta a bypassare la caduta tendenziale del saggio di profitto". Movimenti popolari, quindi, di resistenza alle cosiddette grandi opere "che poi spesso si sviluppano in una critica all’intreccio mafioso fra affari e politica, mettono in discussione proprio la regola latente dell’accumulazione allargata del plusvalore e quindi dispongono di un potenziale oggettivamente anti-capitalista che come marxisti dobbiamo saper individuare e rendere esplicito". E proprio su questo punto l’assemblea ha accolto unanime l’emendamento di Davide Rossi che ha chiesto alla Segreteria del Partito Comunista di "impegnarsi a promuovere una piena consapevolezza dell’importanza dei beni comuni, acqua, terre, difesa dell’eco-sosteniblità e della bio-diversità, nella convinzione che la tutela del patrimonio collettivo è parte non alienabile della battaglia per l’uguaglianza tra i cittadini".
 

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