Ungheria: alternanza senza alternativa
Di Marcello Graziosi
Insieme alla Polonia, l’Ungheria si è rivelata uno dei cosiddetti “anelli
deboli” del blocco socialista sorto al termine del secondo conflitto mondiale.
Strangolato dalla morsa del debito con le banche occidentali a partire dai
primi anni ’70, nel 1982 il governo di Budapest è costretto a ricorrere al FMI,
data anche la dipendenza dalle importazioni di tecnologie avanzate che gli
impedivano di non riconoscere il debito, salito a 19-20 miliardi di dollari
alla fine del 1988. L’imposizione di una serie di riforme economiche assai più
favorevoli agli interessi del capitalismo occidentale che del paese andava di
pari passo con la penetrazione imperialista, guidata dal finanziere Soros, e
con la destabilizzazione politica del paese, agevolata dai circoli riformisti
interni al Partito Socialista Operaio Ungherese. Gli stessi che, guidati dal
primo ministro Nèmeth e dal ministro degli esteri Horn, imposero il cambio del
nome al partito (Partito Socialista Ungherese) ai primi di ottobre del 1989,
sostenendo la necessità di abbattere e non riformare il sistema socialista.
La terapia d’urto per introdurre un’economia di mercato su basi capitalistiche
e per collocare l’Ungheria nel contesto euroatlantico è stata garantita dal
governo Antall (1990-1993), sostenuto dal Forum Democratico Ungherese in
coalizione con i Cristiano-Democratici ed il Partito dei Piccoli Proprietari,
in rappresentanza della piccola e media borghesia agraria. I costi sociali sono
stati enormi, dal calo costante della produzione nei diversi settori
dell’economia ad una disoccupazione e ad un impoverimento di massa. Un balzo
indietro che ha determinato e, soprattutto, continua a determinare la totale
dipendenza dell’Ungheria dalle potenze imperialiste, a partire soprattutto da
Germania e (oggi) Stati Uniti.
Morto Antall alla fine del 1993, alle successive elezioni del maggio 1994, come
reazione alle riforme, si è affermata la coalizione composta da PSU ed Alleanza
dei Liberi Democratici (primo cartello delle forze di opposizione costituitosi
nel maggio 1988). A questo appuntamento elettorale ha partecipato anche il
Munkaspart, Partito dei Lavoratori Ungheresi, erede diretto, pur se
minoritario, del POSU, ottenendo il 3,2% dei consensi e 110.000 voti. Un
risultato non trascurabile se si considerano le enormi difficoltà iniziali,
l’isolamento e le continue e violente campagne anticomuniste. Il governo
guidato dal socialista Horn si è caratterizzato per il proprio orientamento
neo-liberale, promettendo di completare sia il programma di privatizzazione
entro il 1998, sia le politiche liberiste di adeguamento strutturale in vista
dell’ingresso nella UE. Oltre a questo, Horn ha garantito un ingresso senza
tensioni nella Nato. I costi di questa politica si sono visti chiaramente alle
successive elezioni del maggio 1998: scarsa affluenza alle urne, tenuta dei
socialisti ma crollo dei liberali e conseguente vittoria della destra liberista
e populista della Fidesz (Partito dei Giovani Democratici), grazie ad un uso
massiccio dei mezzi di comunicazione di massa ed al sostegno di quella parte
della borghesia di affari ungherese lasciata ai margini da Horn. Buono anche il
risultato del Munkaspart, che ha visto crescere la sua base di consenso,
sfiorando con il 4% lo sbarramento ed ottenendo 180.000 voti.
Con Orban, una sorta di giovane e rampante Berlusconi magiaro, l’Ungheria è
entrata a far parte della Nato nel marzo 1999, sostenendo l’aggressione
militare contro la Repubblica Federale Jugoslava. Sul piano interno, le riforme
hanno continuato ad allargare inesorabilmente la forbice delle disuguaglianze
all’interno del paese. Dopo un quadriennio di governo Orban, alle elezioni
dell’aprile 2002 il quadro politico ha subito una inaspettata modifica: vittoria,
pur se di misura e grazie all’apporto di nuovo decisivo dei liberali, dei
socialisti e sconfitta della Fidesz, anche se di soli 10 seggi. Con il
Munkaspart che, stretto tra il voto utile, l’alta affluenza alle urne (71%) e
l’impossibilità di accedere ai mezzi di comunicazione di massa e di costruire
un’alleanza con l’asse socialisti-liberali, ha ottenuto un risultato negativo:
2,2% e 120.000 voti. Nonostante questo risultato, al secondo turno elettorale i
comunisti hanno sostenuto contro Orban i candidati socialisti (Thurmer,
presidente del partito: “Noi non abbiamo modificato la nostra opinione
fondamentale riguardo la politica del Partito Socialista, ma in queste
circostanze noi intendiamo contribuire anche al cambio del governo”).
Governo oggi guidato dal socialista Medgyssey, che pare voler ripercorrere in
pieno le orme di Horn. Nel corso della crisi che ha preceduto l’aggressione
unilaterale anglo-statunitense contro l’Iraq, il governo ungherese è stato tra
i promotori, insieme ad Aznar, Blair e Berlusconi, del documento “degli otto” a
sostegno della politica di Bush, a partire dalla guerra preventiva, e contro
Francia, Germania e Russia. Una scelta di campo che non lascia spazio a dubbi e
dimostra la quasi totale subalternità di Budapest a Washington. Il 12 aprile
2003, poi, si è tenuto il referendum per l’adesione dell’Ungheria alla UE, a
partire dal maggio 2004: bassa l’affluenza alle urne (45,62%) ma netta
l’affermazione dei “sì” (83,76%).
Nel frattempo, proprio in queste settimane si è aperta l’ennesima campagna
anticomunista che, approfittando di un impianto legislativo per nulla in linea
con quello della UE, ha portato al fermo del Vicepresidente del Munkaspart,
Attila Vajnai, per essersi mostrato in pubblico con una stella rossa appuntata
sul petto. Pluralismo, libertà e democrazia.