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Ed ora la guerra fredda di Biden

Greg Godels | zzs-blg.blogspot.com
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

28/01/2021

La prima settimana di Biden è stata ricca di avvenimenti. Il neo presidente ha iniziato a disfare molto di più di quanto Trump fece della presidenza Obama. In sostanza, sta riportando la politica statunitense al 2016. Per chi desiderava l'uscita di Trump e il ritorno a un confortante passato, la vittoria di Biden è motivo di festa.

Per chi vuole una risposta a una pandemia che si è presa più vite statunitensi che la seconda guerra mondiale, per chi teme per il futuro dei milioni di nuovi disoccupati a causa della pandemia, per quei milioni di persone in arretrato con l'affitto e che rischiano lo sfratto, e per i quasi tre milioni di famiglie costrette alla sospensione della rata del mutuo, c'è ancora poco da festeggiare.

Nonostante il formale cambio della guardia, la distanza tra chi ha e chi non ha negli Stati Uniti continua a crescere. E sempre più lavoratori vengono imprigionati nell'esercito dei non abbienti. Il catastrofico anno pandemico ha ulteriormente portato insicurezza e paura a livello di massa, spingendo un forte arretramento nella spesa dei consumatori negli ultimi tre mesi.

È difficile che le risposte del 2016 risolveranno i problemi del 2021.

La restaurazione della politica di Obama da parte di Biden non è tuttavia assoluta. Ci sono aspetti delle politiche di Trump - probabilmente, alcuni dei peggiori - che la nuova amministrazione intende mantenere. Per esempio, Biden continuerà, anzi intensificherà la campagna xenofoba Buy American di Trump.

Biden non mostra il fegato per azzerare l'incoraggiamento di Trump alla segregazione razziale e all'aggressività di Israele.

Inoltre, la squadra di Biden sembra incline a proseguire l'utilizzo alla maniera di Trump delle sanzioni come arma di guerra. Mentre Obama faceva la guerra attraverso mandatari e droni, Trump, e ora Biden a quanto pare, ha imposto la politica degli Stati Uniti attraverso sanzioni economiche e politiche, armi altrettanto distruttive ma apparentemente meno cruente. Biden non ha manifestato la volontà di rimuovere o allentare il cappio che gli Stati Uniti mantengono intorno alle economie del Venezuela, Nicaragua, Iran, Cuba, o altri stati che sfidano i nostri leader.

A suo credito, Biden ha mostrato il desiderio di estendere l'importante trattato START con la Russia, un trattato che limita le armi nucleari. Questo è un affare cruciale.

Allo stesso tempo, Biden ha palesato una spaventosa propensione alla belligeranza contro la Repubblica Popolare Cinese (RPC). L'ostilità verso la RPC ha fatto un salto nell'amministrazione Obama con l'eufemistico Pivot to Asia, che ha reindirizzato l'attenzione militare sulla RPC.

Nel suo modo inimitabile, Trump ha ulteriormente alimentato questa ostilità, con dazi e sanzioni punitive. La simpatia popolare per la RPC è precipitata drammaticamente con il supporto dei media.

Ora, Biden ha promesso maggior durezza verso la RPC, una minaccia ostile e pericolosa contro la seconda o terza potenza militare del mondo.

Basta uno sguardo alla storia recente e ai principali indicatori economici per capire la fonte della reazione isterica nei confronti della RPC da parte della classe dirigente statunitense. Il crollo economico del 2007-2009 ha quasi fatto affondare l'economia statunitense ed europea, mentre la RPC ha vacillato appena; una rapida azione di stimolo ha ripristinato una vibrante economia cinese. In effetti, si potrebbe sostenere che il "rimbalzo" cinese è stata una condizione necessaria, se non sufficiente, alla ripresa globale.

Poco più di un decennio dopo, con una pandemia mondiale che imperversa, l'economia globale è di nuovo in profonda depressione, con l'economia della RPC che mostra resilienza e crescita. In entrambi i casi e nel periodo intermedio, l'economia cinese ha fatto notevoli guadagni rispetto ai suoi rivali occidentali (la spesa dei consumatori della RPC è cresciuta del 171,2% dal 2010, rispetto al 35,2% di crescita negli Stati Uniti).

Dal 2016, la quota della RPC sul PIL globale è salita dal 14,2% al 16,8%, mentre la quota degli Stati Uniti è scesa leggermente al 22,2%. E nell'anno della pandemia, il PIL cinese è cresciuto del 2,3% contro una performance economica globale stimata in calo del 4,3% e un PIL statunitense che scivola del 3,6%. Mentre l'economia della RPC guadagna, si può capire la frustrazione nei circoli dirigenti degli Stati Uniti che vedono un rivale crescere in forza e influenza globale.

Nonostante l'aggressiva politica tariffaria dell'amministrazione Trump, le esportazioni (e le importazioni) cinesi si sono espanse significativamente alla fine del 2020. Le esportazioni sono cresciute del 21,1% a novembre e del 18,1% a dicembre rispetto all'anno precedente, assicurando alla RPC una fetta ancora più grande del commercio globale.

Ma, forse, la statistica più allarmante per i politici statunitensi rivela che la RPC ha, per la prima volta, superato gli Stati Uniti nei nuovi investimenti diretti esteri. Mentre gli Stati Uniti hanno accumulato nel tempo la maggior fetta di investimenti diretti all'estero, i nuovi dati mostrano che gli investitori ora guardano alla RPC come un rifugio migliore per trarre profitto rispetto agli Stati Uniti. Questo all'origine dell'onda d'urto alla classe capitalista statunitense.

Non sono le presunte violazioni dei diritti umani cinesi, la disuguaglianza del reddito cinese, la belligeranza o l'aggressività cinese a guidare l'ostilità degli Stati Uniti, ma la sfida della RPC all'egemonia economica e politica degli Stati Uniti. Con le economie così intrecciate a livello globale e con una crescente dipendenza dalle forniture cinesi e dalla domanda interna cinese, l'obbedienza straniera al capitalismo statunitense è sotto scacco. Gli Stati Uniti non possono dettare così facilmente la politica estera degli altri paesi né forzare le porte al capitalismo statunitense. In parole povere, la Repubblica Popolare Cinese rappresenta una sfida crescente all'imperialismo statunitense.

La storia dimostra che le rivalità e le sfide tra le potenze imperialiste creano le condizioni per la guerra; tutte le grandi guerre dell'era del capitalismo monopolistico sono iniziate come guerre per i mercati, le risorse, l'espansione del capitale e la penetrazione del capitale. Dalle guerre dell'ultimo quarto del diciannovesimo secolo, attraverso due guerre mondiali e le guerre di liberazione nazionale, fino all'accerchiamento della Russia da parte della NATO e al Pivot to Asia degli USA, tutte le grandi guerre e gli scontri bellici sono state guerre imperialiste.

Il fatto che entrambi i partiti politici statunitensi concordino sulla politica verso la RPC (e la Russia) sottolinea soltanto il grado di pericolo rappresentato dall'aggressività statunitense. Il consenso si estende ai media che non sono riusciti a forzare la seppur minima discussione sulla politica verso la RPC nei dibattiti presidenziali o più in generale nella copertura elettorale.

Tristemente, con l'elezione di Biden, gran parte della sinistra e del settore liberale afferente al New York Times potrebbero tornare al loro sonno come hanno fatto durante l'amministrazione Obama, affidando la politica estera ai loro leader eletti.

Questo sarà un tragico errore.

Abbiamo disperatamente bisogno di un movimento di massa contro la guerra - vigile e indipendente - per contrastare le pericolose macchinazioni dell'imperialismo statunitense e la sua macchina da guerra che semina morte.


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