www.resistenze.org - popoli resistenti - jugoslavia - 27-03-04

fonte http://www.rebelion.org/internacional/040206milosevic.htm
traduzione dallo spagnolo a cura del Ccdp

La demonizzazione di Slobodan Milosevic


Di Michel Parenti
Tradotto dall’inglese da Beatriz Morales Bastos per Rebelión

Il ceto dirigente statunitense professa dedizione alla democrazia. Ciò nonostante, durante gli ultimi 50 anni, governi eletti democraticamente - colpevoli di aver introdotto programmi economici “redistributivi” o di rivendicare percorsi indipendenti che mal si conciliavano col sistema del libero mercato globale patrocinato dagli Stati Uniti - si sono visti nel mirino dell’apparato di sicurezza nazionale statunitense. In questo modo, governi democratici in Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Cipro, Repubblica Dominicana, Grecia, Guatemala, Haiti, Siria, Uruguay ed in molte altre nazioni, sono stati rovesciati dalle rispettive forze armate, finanziate ed assistite dagli Stati Uniti. I dirigenti militari subentrati hanno quindi cancellato le riforme egualitarie e spalancato le porte dei loro paesi agli investitori ed alle imprese straniere.

L’apparato di sicurezza nazionale statunitense ha anche partecipato segretamente ad azioni destabilizzanti, guerre di potere mercenarie ed attacchi militari diretti contro governi rivoluzionari o nazionalisti in Afghanistan (a metà degli anni ’80), Angola, Cambogia, Cuba, Timor Est, Egitto, Etiopia, Isole Figi, Grenada, Haiti, Indonesia (sotto Sukarno), Iran, Giamaica, Libano, Libia, Mozambico, Nicaragua, Panama, Perù, Portogallo, Siria, Yemen del Sud, Venezuela (sotto Hugo Chavez), Sahara Occidentale ed Iraq (sotto Saddam Hussein, autocratico ed appoggiato dalla CIA, fintanto che non emerse la sua politica economica di nazionalizzazione  e non cercò di ottenere prezzi migliori dalla vendita del petrolio).

Il metodo propagandistico utilizzato per screditare molti di questi governi non è particolarmente originale, anzi, a questo punto, risulta facilmente prevedibile. Si denunciano i dirigenti come magniloquenti, ostili e psicologicamente tarati. Vengono catalogati come demagoghi assetati di potere, uomini forti e volubili e della peggior razza di dittatori, assimilati allo stesso Hitler. I paesi in questione vengono tacciati come Stati “canaglia” o “terroristi”, colpevoli di essere “anti-statunitensi” o “anti-occidentali”. Una minoranza selezionata è anche condannata come appartenente all’“asse del male”. Quando i dirigenti statunitensi prendono di mira un paese o demonizzano il suo dirigente, vengono appoggiati da pubblicisti ideologicamente sintonizzati, esperti, accademici, ex-funzionari di governo. Insieme creano, nell’opinione pubblica, un clima tale da consentire a Washington di compiere quanto necessario per arrecare gravi danni all’infrastruttura ed alla popolazione della nazione designata, il tutto in nome dei diritti umani, della lotta contro il terrorismo e per la sicurezza nazionale.

A tal proposito non esiste esempio migliore che l’infaticabile demonizzazione del presidente democraticamente eletto Slobodan Milosevic e la guerra contro la Yugoslavia appoggiata dagli USA. Louis Sell - funzionario degli Affari Esteri statunitense - ha scritto un libro (“Slobodan Milosevic and the Destruction of Yugoslavia”, Duke University Press, 2002), che rappresenta un’opera somma su Milosevic, piena delle abituali immagini prefabbricate e delle presunzioni politiche dello stato di sicurezza nazionale statunitense. Il Milosevic di Sell è una caricatura, una persona astuta, avida di potere, un pazzo furioso che attacca compagni fidati ed approfitta delle divisioni interne al partito.

Questo Milosevic è, al tempo stesso, un “socialista ortodosso” ed un “opportunista nazionalista serbo”, un demagogico “secondo Tito” assetato di potere, che vuole un potere dittatoriale su tutta la Yugoslavia e contemporaneamente porta ansiosamente avanti politiche che “distruggono lo Stato che Tito creò”. L’autore non dimostra attraverso riferimenti a politiche e specifici programmi che Milosevic è responsabile dello smembramento della Yugoslavia, semplicemente ce lo ripete, più e più volte. Si potrebbe pensare che forse abbiano a che fare con questo i secessionisti sloveni, croati, bosniaci mussulmani, macedoni ed albanesi del Kosovo, e gli interventisti degli Stati Uniti e della NATO.

Secondo la mia opinione, il vero peccato commesso da Milosevic fu resistere allo smembramento della Yugoslavia ed opporsi all’imposizione dell’egemonia USA. Cercò inoltre di evitare alla Yugoslavia il peggio delle spietate privatizzazioni e restrizioni che già avevano afflitto altri vecchi paesi comunisti. La Yugoslavia fu l’unica nazione d’Europa che non richiese di entrare nell’Unione Europea o nella NATO o nell’OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea).

Secondo alcuni intellettuali di sinistra la vecchia Yugoslavia non poteva definirsi stato socialista, poiché aveva permesso un’eccessiva penetrazione da parte di imprese private e FMI. Ma i politici statunitensi sono ben noti per non avere la stessa visione del mondo degli intellettuali puristi della sinistra. Per loro la Yugoslavia era sufficientemente socialista con il suo sviluppato sistema di servizi sociali ed un’economia pubblica per oltre il 75%. Sell chiarisce bene che in Yugoslavia la proprietà pubblica e la difesa di tale sistema economico da parte di Milosevic, furono considerazioni centrali nella guerra di Washington contro la Yugoslavia. Milosevic, lamenta Sell, era “compromesso con il socialismo ortodosso”. “Descriveva con continua enfasi la proprietà pubblica dei mezzi di produzione e la produzione statale delle merci come le migliori garanzie di prosperità”. Dovette andarsene.

Per esporre le sua argomentazioni contro Milosevic, Sell ricorre spesso all’abituale argomento “ad hominem”. Così leggiamo che nella sua infanzia Milosevic era “un tantino bigotto” e, pertanto, “un solitario per natura”, un tipo di bambino strano, giacché “non gl’interessavano gli sport né altre attività fisiche” e “disdegnò le monellerie infantili a favore dei libri”. L’autore cita un anonimo compagno di classe, il quale riferisce che la madre di Slobodan “lo vestiva in modo grazioso e lo crebbe mite”. Ancor peggio, Slobodan non si univa mai a loro quando gli altri bambini rubavano negli orti - senza dubbio un segno indiscutibile di patologia infantile.

Più avanti Sell descrive Milosevic come “taciturno”, “incline ad un vita appartata” e dedito ad un “caparbio fatalismo”. Ma i dati stessi di Sell - quando fa una pausa nella sua caratterizzazione negativa e passa ai dettagli - contraddicono lo stereotipo di disadattato “solitario taciturno”. Riconosce che il giovane Milosevic lavorò bene coi colleghi quando iniziò l’attività politica. Niente affatto incapace di stabilire relazioni strette, Slobodan conobbe una ragazza, sua futura moglie, ed insieme godettero di un vincolo duraturo per la vita. All’inizio della sua carriera, quando era a capo della Banca di Belgrado, si dice che Milosevic era “comunicativo, si preoccupava per il personale della banca ed era molto popolare tra i dipendenti”. Altri amici lo descrivono come una persona che andava d’accordo con la gente, “disteso ed alla mano”, sposo fedele con sua moglie e padre orgoglioso e devoto con i figli. Sell ammette che Milosevic era a volte “sicuro di se stesso”, “estroverso” e “carismatico”. Ma lo stereotipo negativo è talmente fermamente radicato a causa delle asserzioni ripetitive (e di anni di propaganda da parte dei media occidentali e dei circuiti ufficiali) che Sell può limitarsi a passar sopra alle prove che lo contraddicono - anche quando è lui stesso ad offrirle.

Sell fa riferimento ad un anonimo “psichiatra statunitense che ha studiato Milosevic da vicino”. Leggasi “da lontano”, dal momento che nessuno psichiatra statunitense ha mai trattato, e nemmeno intervistato, Milosevic. Tale innominato psichiatra si suppone abbia diagnosticato al dirigente Yugoslavo una personalità “malignamente narcisistica”. Sell ci dice che questo narcisismo maligno riempie Milosevic di autodelusione, lasciandogli una “personalità tediosa” che è una “farsa”. “Le persone con il tipo di personalità di Milosevic spesso non possono o non vogliono riconoscere la realtà dei fatti che divergono dalla loro personale percezione del modo in cui il mondo è o dovrebbe essere”. Come fa a sapere tutte queste cose il Dott. Sigmund Sell? Sembra trovare la prova nel fatto che Milosevic osò tracciare un percorso divergente da quello emanato da Washington. Senza dubbio solamente una patologia personale può spiegare cotanta ostinazione “anti-occidentale”. Inoltre ci viene detto che Milosevic aveva il suo “punto debole” nel fatto di non essersi mai sentito a suo agio con la nozione di proprietà privata. Se non è una prova questa di narcisismo maligno, che cos’è dunque? Sell non prende mai in considerazione la possibilità che lui stesso e gli interventisti globali che la pensano al par suo, non possano o non vogliano “riconoscere la realtà dei fatti che divergono dalla loro personale percezione del modo in cui il mondo è o dovrebbe essere”.

Milosevic, ci viene detto ripetutamente, cadde sotto la crescente influenza di sua moglie, Mirjana Markovic, “l’autentico potere dietro il trono”; in un’occasione la definisce anche “Lady Macbeth”. La ritrae come una vera maniaca, posseduta da un’ira incontrollabile, i suoi occhi “vibravano come un animale spaventato”; “soffre di schizofrenia profonda” con un’“inconsistente discernimento della realtà” ed è un’”ipocondriaca” incurabile. Inoltre, non simula “gran che” ed ha una personalità “fantasiosa” e “traumatizzata”. Come suo marito, col quale condivide “una relazione molto anomala”, ha un “rapporto autistico col mondo”. Peggio ancora, ha un’”ideologia marxista dura”.
Ci resta da chiederci in qual modo il Milosevic disadattato ed autistico fu capace di lavorare come un popolare professore universitario, organizzare e dirigere un nuovo partito politico e svolgere un ruolo attivo nella resistenza popolare contro l’interventismo occidentale.

In questo libro, ogni volta che si citano le parole di Milosevic o di qualsiasi altro della sua cerchia, questi “grugniscono”, “parlano in fretta e furia”, “parlano tra i denti” o “si vantano”.
Al contrario i politici che si sono meritati l’approvazione di Sell “osservano”, “espongono”, fanno notare” e “concludono”. Quando uno dei superiori di Milosevic esprime la sua inquietudine circa i “rumorosi serbi del Kosovo” (come li chiama Sell) che manifestavano contro i maltrattamenti patiti per mano degli albanesi kosovari secessionisti, Milosevic “dice a denti stretti”: “Perché avete tanta paura della strada e del popolo?” Qualcuno di noi potrebbe pensare che questa sia un’ottima domanda da fare a denti stretti ad un dirigente di governo, ma Sell la considera una prova della demagogia di Milosevic.

Ogni volta che Milosevic faceva qualcosa a favore del comune cittadino, come quando tassò gli interessi dei conti in valuta straniera, una politica impopolare tra l’elite serba, ma apprezzata dagli strati più poveri della popolazione, viene tacciato di manipolare il favore popolare. Così dobbiamo accettare la parola di Sell, secondo cui Milosevic non volle mai il potere per evitare la fame, viceversa era semplicemente affamato di potere. Sell opera con un paradigma non falso-credibile. Se il leader in questione è irresponsabile nei confronti del popolo, ciò costituisce una prova della sua propensione dittatoriale; se è responsabile verso il popolo, ciò dimostra il suo demagogico opportunismo. Fedele alla visione ufficiale statunitense del mondo, Sell etichetta “Milosevic ed i suoi subalterni” come “partigiani della linea dura”, “conservatori” ed “ideologi”, “anti-occidentali” rinchiusi nel “dogma socialista”. Al contrario i secessionisti croati, bosniaci ed albanesi kosovari, che lavorarono tenacemente per smembrare la Yugoslavia e consegnare le rispettive repubbliche alle tenere benedizioni del neocapitalismo, sono definiti “riformatori dell’economia”, “dirigenti neoliberali” e “filo-occidentali” (leggi: capitalisti a favore delle imprese transnazionali). Sell considera la “democrazia stile occidentale” e la “moderna economia di mercato” come necessariamente correlati.
Non ha nulla da dire sulle tremende difficoltà dei paesi dell’Europa dell’Est che hanno abbandonato le loro deficitarie ma sopportabili economie pianificate per le spietate estorsioni del laisser-faire capitalistico.

La sensibilità di Sell di fronte alla demagogia non si estende a Franjo Tudjman, il croata cripto-fascista ed antisemita che parla bene di Hitler e che ha imposto il suo severo governo autocratico alla Croazia da poco indipendente. Tudjman sminuì l’olocausto considerandolo un’esagerazione ed acclamò apertamente all’organizzazione nazi-croata degli Ustascia della seconda guerra mondiale. Arrivò perfino ad includere nel suo governo alcuni veterani dirigenti ustascia. Sell non dice parola alcuna di tutto ciò e considera Tudjman semplicemente come buon veterano nazionalista croato. Allo stesso modo non ha parole critiche per il dirigente bosniaco mussulmano Alija Izetbegovic. Commenta laconicamente che nel 1946 Izetbegovic “fu condannato a tre anni di carcere per appartenenza ad un gruppo chiamato i Giovani Mussulmani”. Si resta con l’impressione che il governo comunista di Yugoslavia avesse oppresso un devoto mussulmano. Ciò che Sell non menziona è che durante la seconda guerra mondiale il giovane mussulmano reclutò attivamente unità mussulmane per le SS naziste; queste unità perpetrarono orribili atrocità contro il movimento di resistenza e la popolazione ebrea della Yugoslavia. Izetbegovic se la cavò con una sentenza di soli tre anni.

In questo libro si dice pochissimo della pulizia etnica perpetrata contro i serbi da parte dei dirigenti appoggiati dagli USA, come Tudjman ed Izetbegovic, durante e dopo le guerre contro la Yugoslavia sostenute dagli USA. Al contrario, non si fa menzione della diversità e tolleranza etnica esistenti nella Yugoslavia del presidente Milosevic. Tutto ciò che restava della Yugoslavia nel 1999 erano la Serbia ed il Montenegro. Ai lettori non si dice mai che questa nazione era l’unica residua società multietnica che rimaneva delle ex-repubbliche yugoslave, l’unico luogo in cui serbi, albanesi, croati, gorani, ebrei, egiziani, ungheresi, zingari, e molti altri gruppi etnici potevano convivere con misure certe di sicurezza e tolleranza.

L’implacabile demonizzazione di Milosevic si estende al popolo serbo in generale. Nel libro di Sell i serbi sono nazionalisti esasperati. I serbi del Kosovo, che manifestano contro i maltrattamenti ricevuti dai nazionalisti albanesi, sono descritti come persone che hanno un “crescente desiderio di sangue”. I lavoratori serbi, che manifestano per difendere i loro diritti e le conquiste faticosamente acquisite, sono sminuiti da  Sell come “gli strumenti più bassi della banda”. I serbi che per secoli hanno vissuto nella Krajina ed in altre zone della Croazia sono denigrati e etichettati come occupanti coloniali. All’opposto, i secessionisti nazionalisti sloveni, croati e bosniaci mussulmani e gli irredentisti albanesi kosovari sono semplicemente alla ricerca di “indipendenza”, “autodeterminazione”, “sovranità e differenziazione culturale”. In questo libro, i pistoleri albanesi dell’UCK non sono trafficanti di prima linea, terroristi ed esecutori di pulizie etniche, ma combattenti e patrioti.

Le presunte azioni militari dei serbi, descritte nei termini più vaghi, sono ripetutamente definite “brutali”, mentre gli assalti e le atrocità commesse contro i serbi da parte di altri gruppi nazionalisti sono generalmente accettate come rappresaglie ed atti difensivi, o sono sminuite da Sell che le considera “false”, “molto esagerate”, ed “oltremodo sbandierate”. Milosevic, afferma Sell, disseminò “propaganda maliziosa” contro i croati, ma non ne riporta alcuna in concreto. Sell offre uno o due esempi di come i villaggi serbi furono saccheggiati ed i loro abitanti violentati ed assassinati da parte dei secessionisti albanesi. In funzione di ciò riconosce, malvolentieri, che “qualcuna delle accuse dei serbi… ha un fondo di verità”. Ma non fa nulla di più al riguardo.

La storia, comoda e ben ordita, circa il massacro serbo degli albanesi disarmati nel villaggio di Racak, strombazzata in modo grossolano dal diplomatico statunitense e disinformatore di lunga data, William Walker, è accettata incondizionatamente da Sell, che ignora tutte le prove contrarie. Una squadra televisiva dell’Associated Press aveva filmato la battaglia che ebbe luogo a Racak il giorno prima che la polizia  serba ammazzasse vari membri dell’UCK. Un giornalista francese che era stato a Racak più tardi in quello stesso giorno, trovò prove di una battaglia, ma non prove di un massacro di civili disarmati; tanto meno le trovarono gli stessi osservatori della missione di verifica del Kosovo di Walker. Tutte le relazioni dei periti rivelarono che, in pratica, le 44 persone uccise avevano usato armi da fuoco e tutte erano morte in combattimento. Sell semplicemente ignora queste prove.

La storia molto mediatizzata del modo in cui i serbi, presumibilmente, avrebbero ammazzato 7000 mussulmani a Srebrenica, è accettata senza alcuna critica anche quando le indagini più esaustive non hanno dissotterrato più di 2000 corpi di nazionalità indeterminata. S’ignorano i precedenti massacri portati invece a termine dai mussulmani, che rasero al suolo una cinquantina di villaggi serbi intorno a Srebrenica, secondo le informazioni di due corrispondenti della BBC e di altri giornalisti.  Allo stesso modo passa sotto silenzio la totale incapacità del gruppo di periti occidentali di localizzare  i 250.000 o 100.000 o 50.000 corpi di albanesi (il numero continua a cambiare) che si dicono assassinati dai serbi in Kosovo.

L’interpretazione di Sell di ciò che accadde a Rambouillet lascia molto a desiderare. Secondo le condizioni di Rambouillet, il Kosovo sarebbe diventato una colonia della NATO. Milosevic avrebbe potuto anche accettarlo, seppure a malincuore, disperato per non poter evitare un attacco totale della NATO al resto della Yugoslavia. Ma, per essere sicura che la guerra fosse inevitabile, la delegazione statunitense aggiunse una sorprendente condizione, chiedendo che le forze ed il personale della NATO avessero libero accesso a tutta la Yugoslavia, uso senza restrizioni dei suoi aeroporti, treni, porti, servizi di comunicazione e radiotelevisione, senza costi ed immuni da qualsiasi giurisdizione delle autorità yugoslave.

La NATO avrebbe anche avuto la possibilità di modificare a proprio uso tutte le infrastrutture della Yugoslavia, incluse strade, ponti, gallerie, edifici e strutture pubbliche. In effetti non solo il Kosovo, ma tutta la Yugoslavia, si sarebbe vista sottomessa allo straordinario equivalente di un’occupazione coloniale assoluta.

Sell non menziona questi dettagli. In cambio ci assicura che le esigenze della NATO di accesso senza restrizioni alla Yugoslavia non erano nulla più che una forma di protocollo introdotta “in gran parte per ragioni legali”. Un’idea simile di accordo, ma meno radicale - afferma - faceva parte del pacchetto di Dayton.  In più, l’accordo di Dayton riduce la Bosnia ad una colonia occidentale. Ma, se non c’era nulla di male nell’ultimatum di Rambouillet, allora perché Milosevic lo rifiutò? Sell attribuisce la resistenza di Milosevic alla sua perversa “mentalità da bunker” ed alla sua necessità di sfidare il mondo.

Non vi è una sola parola in questo libro che descriva i 78 giorni di bombardamenti massicci, per 24 ore al giorno, della NATO sulla Yugoslavia; nessun accenno al fatto che tali bombardamenti causarono la perdita di migliaia di vite, ferirono e mutilarono altrettante migliaia, contaminarono gran parte delle terre e dell’acqua con uranio impoverito e distrussero la maggior parte del settore industriale pubblico e delle infrastrutture del paese, mentre lasciarono perfettamente intatte tutte le strutture delle imprese private occidentali.

Le fonti di Sell si basano sulla condivisione della versione ufficiale statunitense della battaglia dei Balcani. Non sfiorano né citano osservatori che offrono una prospettiva critica più indipendente, come Sean Gervassi, Diana Johnstone, Gregory Elich, Nicholas Stavrous, Michel Collon, Raju Thomas e Michel Chossudovsky. Importanti fonti occidentali, che segnalo nel mio libro sulla Yugoslavia, offrono prove, testimonianze e documentazione che discordano dalle conclusioni di Sell, incluse fonti degli Interni dell’Unione Europea, della Commissione della Comunità Europea per i Diritti delle Donne, dell’OSCE e della sua Missione di Verifica in Kosovo, della Commissione delle Nazioni Unite sui Crimini di Guerra e di altre Commissioni delle Nazioni Unite, varie relazioni dei  Dipartimenti di Stato, relazioni dei ministeri tedeschi degli Affari Esteri e della Difesa, e della Croce Rossa Internazionale. Sell non si avvale di queste fonti.

Ignora anche testimonianze e dichiarazioni di congressisti statunitensi che visitarono i Balcani, un ex-funzionario del Dipartimento di Stato sotto l’amministrazione Bush, un ex-sottufficiale del comando statunitense europeo, diversi generali delle Nazioni Unite e della NATO e negoziatori internazionali, piloti spagnoli, squadre di periti di differenti paesi ed osservatori delle Nazioni Unite, i quali hanno fornito rivelazioni in contraddizione col quadro dipinto da Sell e da altri difensori della versione ufficiale USA.

Riassumendo, il libro di Sell è pieno zeppo d’incongruenze su informazioni riservate, accuse senza fondamento, supposizioni senza indagine e stereotipi zavorrati ideologicamente.

Si tratta di un buon lavoro, fintanto che la disinformazione continua ad essere la tendenza dominante.



Note.

Ustascia: Organizzazione che nel 1941 i paesi dell’Asse - Germania, Italia e Giappone - incaricarono della cosiddetta operazione “Indipendenza croata” e che nel 1945 fu espulsa dai partigiani yugoslavi e dall’Esercito Rosso (N.d.t.)


Gli ultimi libri di Michel Parenti sono “To Kill a Nation: the Attack on Yugoslavia” (Verso), e “Terrorism Trap: September 11 and Beyond” (City Lights). Il suo ultimo lavoro, “The Assesination of Julius Caesar: A People History of Ancient Rome”, è stato candidato al Premio Pulitzer.