Digitalizzazione per Mels - Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare
* * *
Di seguito la prima parte dell'introduzione di Filippo Gaja al suo libro:
Nell'autunno del 1988 lessi una agghiacciante considerazione espressa da lsrael Shahak, presidente della Lega israeliana dei diritti dell'uomo, che scriveva:
«In quali condizioni l'attuale gruppo dirigente israeliano potrà operare il desiderato "trasferimento" di grande ampiezza (l'argomento era l'espulsione dei palestinesi dai territori occupati, n.d.a.) e continuare nello stesso tempo a ricevere l'ugualmente desiderato denaro americano? (...) La migliore risposta che io posso proporre a questa domanda essenziale è che il "trasferimento" potrà essere tentato in due circostanze: o per una guerra a iniziativa di Israele, o in una situazione in cui gli interessi americani in Medio Oriente, cioè i giacimenti petroliferi del Golfo, fossero seriamente minacciati e i regimi filoamericani fossero in pericolo di tracollo. Israele si presenterà in questo caso come il solo alleato di peso per gli americani nella regione (...) La mia opinione è che (...) Israele diverrà un alleato talmente importante per gli Stati Uniti che "in quanto difensore della civiltà occidentale nella regione" (espressione spesso usata dalla propaganda sionista negli Stati Uniti, anche se un po' meno da quando la televisione ha mostrato le immagini dell'Intifada ) avrà diritto di applicare una politica di tipo nazista, come ad esempio l'espulsione totale. Non dimentichiamo che anche i nazisti all'epoca pretendevano di "difendere la civiltà occidentale contro il comunismo" e che molti lo credettero» .
Era una previsione che di fatto conduceva all'idea dell'imminenza di una guerra.
Con tutta evidenza non era una sola guerra che Shahak vedeva come possibile, dal suo posto di osservazione privilegiato, ma due: una guerra arabo-israeliana e una guerra americana per il petrolio. A conti fatti, queste due guerre tornavano poi a fondersi in una sola.
Tutti quelli che si occupano di problemi mediorientali tengono sempre a mente che dal dicembre 1981 gli Stati Uniti ed Israele sono uniti da un trattato di alleanza strategica. Vi sono clausole segrete e clausole segretissime di questo trattato. La parte segretissima impegnerebbe gli USA ad aiutare gli israeliani a fabbricare missili a testata nucleare, secondo le affermazioni del giornale saudita Al Sharq Al Awsit. pubblicato a Londra.
Quanto alla parte che è soltanto segreta, questa viene citata sistematicamente dalla stampa israeliana. Per usare le parole del Jerusalern Post, gli Stati Uniti hanno assunto fin dal 1981 l'impegno di «preservare la superiorità di Israele nei confronti della coalizione araba». In altre parole, il Pentagono ha fornito la garanzia di mantenere lo Stato ebraico in una condizione di supremazia militare assoluta su tutti gli eserciti arabi riuniti. La forza militare di tutti gli Stati arabi messi insieme non dovrà mai superare, in particolare dal punto di vista qualitativo, quella di Israele. Questo accordo evidenzia nel modo più esplicito l'importanza ed il ruolo che Israele assume in Medio Oriente e nella strategia americana.
La ricerca della superiorità militare assoluta comporta in se stessa la bivalenza difensiva-offensiva. Dubbi non possono comunque sussistere giacché sempre nel dicembre 1981 l'allora ministro della Difesa israeliano, il generale Ariel Sharon, definì con la massima precisione gli obiettivi della politica militare israeliana: «La sfera di interesse strategico di Israele deve essere allargata fino a includervi, negli anni Ottanta, paesi come Turchia, Iran e Pakistan e aree come il Golfo Persico e l'Africa».
Per conseguenza non esistono due politiche, una americana e una israeliana per il Medio Oriente; le due politiche in ultima analisi sono una sola, poiché finiscono sempre per integrarsi. Ogni fattore è ricondotto al problema centrale, quello che costituisce il nocciolo della questione, il dominio strategico del Medio Oriente e la "vigilanza" sui paesi arabi.
Ancor meno esistono singoli problemi separabili dal contesto generale. In senso ora attivo ora passivo, l'uno influenza l'altro. Non C'è un problema palestinese separato da quello dell'immigrazione degli ebrei sovietici, dal problema del nazionalismo arabo, dal problema dell'integralismo islamico, dal problema del prezzo del petrolio, dal problema della regolazione dell'estrazione del greggio, dal problema dell'armamento arabo, dal problema della potenza militare israeliana.
Schematicamente, se i palestinesi vengono attaccati da Israele perché gli ebrei sovietici nuovi arrivati hanno bisogno di spazio, il nazionalismo arabo esplode, l'integralismo islamico chiede la guerra santa, gli arabi sotto la spinta delle masse brandiscono l'arma del petrolio e tendono ad armarsi e la potenza militare israeliana tende a distruggere l'armamento arabo. La concatenazione può essere invertita partendo da ognuno di questi fattori.
È difficile immaginare il modo in cui sarebbe possibile disinnescarne anche uno soltanto. La dinamica di ciascuno possiede una propria traiettoria infallibile che conduce sempre allo scontro militare.
C'è un dosaggio che la diplomazia definisce «equilibrio». Il difetto del dosaggio è che, nella realtà, esso consiste nel contenimento forzoso della potenzialità esplosiva di ciascun fattore, contenimento che prevede inevitabilmente l'uso di una certa quantità di forza o quantomeno di costrizione, e per conseguenza produce un certo grado di tensione. Assomiglia al processo che si compie in una pentola a pressione sotto cui è permanentemente acceso un fuoco o un fuocherello. Solo che in questo caso in ogni pentola non c'è acqua, c'è una miscela esplosiva, che quando scoppia produce grande calore e minaccia di provocare una deflagrazione generale di tutte le pentole, per simpatia.
Perché ciò sia chiaro vorrei dare al lettore l'esempio di come è stata «costruita» la guerra che chiamiamo convenzionalmente del Kuwait, e nella quale il Kuwait è in fondo il più trascurabile degli elementi.
Dal 1988 mi sono proposto di accumulare documentazione sul Medio Oriente cercando di identificare gli stati di avanzamento del processo che può condurre alla «soluzione finale» del problema palestinese com'è prospettata da Israel Shahak, cioè l'espulsione militare dei palestinesi dalla Cisgiordania.
Il 1988 fu un anno di svolta dal punto di vista strategico in Medio Oriente, poiché vide terminare (l'8 agosto) la guerra fra Iran e Irak, con un nulla di fatto che lasciava affacciate sul Golfo Persico due potenze militari duramente provate, ma insieme agguerrite, con due corpi di battaglia dotati di grande esperienza di combattimento e nel complesso più forti di quando avevano iniziato la guerra. In particolare l'lrak poteva vantare 55 divisioni, 700 aerei, 5.500 carri armati. una potentissima artiglieria e 2.500 missili di vario tipo.
Il problema del rapporto di forze tomava quindi a proporsi, ma non più soltanto per Israele, bensì soprattutto per gli Stati Uniti, i quali nel corso degli otto anni del conflitto lran-Irak avevano giuocato (con intelligenza o con stupidità sarà la storia a dirlo) la carta del laico Saddam contro il fanatico Khomeini, che, in termini più vicini alla realtà politica, è come dire che avevano armato il nazionalismo arabo iracheno per indebolire l'integralismo islamico iraniano.
Anche il 1989 fu un anno di svolta dal punto di vista strategico, ma per un diverso motivo. La distensione, l'evoluzione politica intervenuta all'interno dell'Unione Sovietica, i mutamenti nell'Est europeo, aprirono la strada a una nuova ondata di emigrazione ebraica verso Israele. Ciò diede la concreta possibilità ai sionisti di mettere in esecuzione i vecchi piani di espansione demografica (portare gli abitanti dello Stato ebraico a 7 milioni entro il duemila) che erano rimasti un miraggio fino a quando l'URSS, per rispetto verso gli arabi, aveva impedito l'espatrio agli ebrei.
Mi limiterò qui a elencare cronologicamente i fatti che, a mio modo di vedere, hanno segnato la progressiva corsa verso lo scontro.
Il 16 settembre 1989, prendendo in esame la decisione americana di limitare l'afflusso di ebrei sovietici negli Stati Uniti, il primo ministro israeliano Itzhak Shamir disse: «Gli ebrei vogliono lasciare l' Unione Sovietica. Diciamo pure che preferirebbero l'America a Israele. Ma non possono andare in America. Quindi verranno in Israele». Già da mesi l'arrivo di una grande ondata immigratoria dall'Est e dall'URSS era causa di un acceso confronto politico all'interno di lsraele. I movimenti estremisti invitavano incessantemente nei loro interventi all'espulsione dei palestinesi dalla Cisgiordania manu militari. Le prese di posizione ufficiali di Shamir. nel suo doppio ruolo di esponente delle tendenze estremistiche prevalenti in lsraele e di capo dell'esecutivo contenute in una serie di interviste pubblicate con grande rilievo dalla stampa israeliana, sono la traccia più significativa per seguire l'evoluzione della situazione dal lato dello Stato ebraico.
Nel febbraio del 1990 Shamir causò una tempesta politica internazionale dichiarando: «Un grande Israele è necessario per installarvi tutti gli ebrei sovietici». "Grande" è un'espressione ambigua, che può essere molto minacciosa in bocca a un sionista, come il lettore apprenderà leggendo questo libro. Il 3 marzo, mentre l'interesse del mondo era concentrato sull'ipotesi di trattative in vista di una soluzione del problema dei territori occupati, Shamir fu interrogato su che cosa avrebbe dovuto fare l'OLP per rendersi accettabile come interlocutore nei colloqui di pace. La sua risposta lapidaria fu mirata per liquidare ogni possibilità di trattativa: «L'unica cosa che può fare è sciogliersi, perché la sua richiesta minima è uno Stato palestinese e uno Stato palestinese non può coesistere con Israele».
A ben riflettere, con questo Shamir introduceva già un'ipotesi di guerra, in quanto ignorava ogni possibilità di pace. Se infatti la sola possibilità di pace consiste nel dare ai palestinesi lo Stato che ormai tutta l'umanità riconosce loro come un diritto, il negare qualunque possibilità di coesistenza equivale a ipotizzare la guerra come unico mezzo da parte araba per conseguire la realizzazione del diritto, e da parte israeliana per impedirlo.
Nella stessa intervista del 3 marzo Shamir affrontava in chiaro il problema degli ebrei sovietici: «Il popolo ebraico deve concentrare tutti i suoi sforzi e tutte le sue capacità neIl'assorbimento dell'immigrazione sovietica. Deve far venire qui e insediare il massimo numero di ebrei sovietici entro la fine del secolo. Dobbiamo condizionare tutti gli altri
problemi politici e sociali a questo dovere. Io propongo che tutti-i leaders di Israele si occupino esclusivamente dell'immigrazione sovietica».
Infine anticipava più precisamente l'evoluzione che ci si doveva attendere dallo Stato ebraico: «(. . .) Una grande immigrazione ha bisogno di uno Stato forte». Il portato ovvio di questa politica era che Israele doveva far conto soprattutto, se non esclusivamente, sulla sua potenza militare. tanto offensiva quanto difensiva.
Il 21 giugno 1990. in un'altra intervista dall'intonazione solenne. Shamir sottolineava la natura di sfida agli arabi che l'immigrazione di massa di ebrei sovietici assumeva. Un giornalista gli aveva chiesto: «Alcuni credono che il deterioramento della situazione ci porterà a una guerra». «Dopo un intervallo di relativa tranquillità voci di guerra si ricominciano a sentire nel mondo arabo (...) Questa volta è l'Irak», rispose Shamir. «Alcuni paesi arabi sono realmente sinceri quando dicono che è l'immigrazione stessa che crea il pericolo di guerra (. . . )». «Allora gli arabi sono giustificati nella loro paura dell'immigrazione» , aveva insistito il giornalista. Shamir non si lasciò sfuggire l'occasione di lanciare il suo messaggio finale: «Hanno ragione, dal loro punto di vista, perché questa immigrazione è la vera vittoria del sionismo e di tutto ciò che Israele significa».
Ancora una volta bisogna ricorrere alla storia per comprendere «tutto ciò che lsraele significa», e rimando il lettore al contenuto del libro.
[...]
Sostieni Resistenze.org.
Fai una donazione al Centro di Cultura e Documentazione Popolare.
Support Resistenze.org.
Make a donation to Centro di Cultura e Documentazione Popolare.