a
110 anni dalla scomparsa di Friedrich Engels
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Engels: L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato – [ Indice ]
Dalla leggenda della fondazione di Roma risulta che la prima colonia fu
formata da un certo numero di gentes latine (cento, secondo la leggenda)
riunite in una tribù, alle quali si unirono ben presto una tribù sabina,
composta, probabilmente, anch'essa di cento gentes, e infine una terza tribù
formata da elementi diversi, di cento gentes anch'essa, a quanto pare. Tutto il
racconto mostra a un primo sguardo che qui vi era ormai ben poco di originario
oltre alla gens, e questa stessa gens in qualche caso non era che una
propaggine di una gens madre che continuava ad esistere nella vecchia patria.
Le tribù portavano ben visibile il marchio di una composizione artificiale, per
quanto per lo più fossero formate da elementi affini e secondo il modello
dell'antica tribù, che era naturale e non artificiale. Con ciò non rimane
escluso che il nucleo di ciascuna delle tre tribù possa essere stato una antica
tribù genuina. L'elemento intermedio, la fratria, era composta di dieci gentes
e si chiamava curia; vi erano dunque trenta curie.
Che la gens romana fosse la stessa istituzione di quella greca è riconosciuto;
se la gens greca è una forma più progredita di quella stessa unità sociale
della quale i pellirosse americani ci forniscono la forma originaria, la stessa
cosa vale senz'altro anche per quella romana. Qui possiamo perciò essere più
brevi.
La gens romana aveva, per lo meno nei più antichi tempi della città, la
seguente costituzione:
1. Reciproco diritto d'eredità da parte dei membri della stessa gens; il
patrimonio rimaneva nella gens. Poiché nella gens romana, come in quella greca,
dominava già il diritto patriarcale, i discendenti in linea femminile erano
esclusi. Secondo la Legge delle dodici tavole, il più antico diritto romano
scritto che ci sia noto, ereditavano prima i figli in qualità di eredi
naturali, in mancanza di questi gli agnati (parenti in linea maschile) ed in
loro mancanza i membri della stessa gens. In tutti i casi, il patrimonio rimaneva
nella gens. Noi vediamo qui la graduale intrusione di nuove determinazioni
giuridiche nella consuetudine gentilizia, causate dall'accresciuta ricchezza e
dalla monogamia: il diritto all'eredità, originariamente eguale per tutti i
membri di una gens, viene dapprima e ben presto, come abbiamo detto sopra,
limitato dalla prassi agli agnati, ai figli e ai loro discendenti in linea
maschile. Nelle dodici tavole, come è chiaro, l'ordine appare capovolto.
2. Possesso di un luogo di sepoltura comune. La gens patrizia Claudia, quando
da Regillo emigrò a Roma, ricevette un pezzo di terra e inoltre un luogo di
sepoltura comune nella città (1). Ancora sotto Augusto, la
testa di Varo caduto nella selva di Teutoburgo, fu portata a Roma e riposta nel
gentilitius tumulus (2); la gens (Quinctilia)
aveva dunque ancora un tumulo particolare.
3. Comuni solennità religiose. Queste, i sacra gentilitia, sono note.
4. Obbligo di non sposarsi nella gens. Quest'obbligo sembra che a Roma non sia
mai diventato legge scritta; ma il costume rimase. In nessuna delle
numerosissime coppie romane il cui nome ci è stato tramandato, vi è un unico ed
eguale nome gentilizio per marito e moglie. Il diritto successorio conferma
pure questa regola. La donna perde con le nozze i suoi diritti agnatizi, esce
dalla sua gens, né lei né i suoi figli possono ereditare dal padre di lei o dai
fratelli di costui, poiché altrimenti l'eredità andrebbe perduta per la gens
paterna. Ciò ha senso solo col presupposto che la donna non possa sposare un
membro della sua stessa gens.
5. Un possesso fondiario comune. Questo è sempre esistito nell'età delle
origini, non appena la terra tribale cominciò a essere spartita. Fra le tribù
latine troviamo che il suolo in parte è in possesso della tribù, in parte della
gens, in parte delle amministrazioni domestiche che difficilmente in quel tempo
erano famiglie singole. Romolo, probabilmente, avrà fatto le prime spartizioni
individuali di terra, assegnandone circa un ettaro (due jugeri) per ciascuno.
Tuttavia, anche più tardi, troviamo possesso fondiario nelle mani delle gentes,
per non parlare dell'agro pubblico, intorno a cui gira tutta la storia interna
della repubblica.
6. Dovere reciproco dei membri della gens di difendersi e soccorrersi. Soltanto
frammenti di questo dovere rimangono nella storia scritta; lo Stato romano si
presentò subito sin dal principio in condizioni di tale strapotenza, che il
diritto alla difesa contro le ingiurie passò nelle sue mani. Quando Appio
Claudio (3) fu arrestato, tutta la sua gens prese il lutto,
anche quelli che erano suoi nemici personali. Al tempo della seconda guerra
punica le gentes si unirono per riscattare i membri di ciascuna di esse che
erano stati fatti prigionieri di guerra; ma il senato lo proibì.
7. Diritto di portare il nome gentilizio (4). Rimase fino
all'età imperiale; si permetteva ai liberti di assumere il nome gentilizio dei
loro padroni d'un tempo, senza però i diritti gentilizi.
8. Diritto di adottare stranieri nella gens. Esso si estrinsecava mediante
l'adozione in una famiglia (come tra gli Indiani). L'adozione portava con sé
come conseguenza l'ammissione nella gens.
9. Il diritto di eleggere e deporre il capo non viene menzionato in nessun
luogo, ma poiché nei primi tempi di Roma tutti gli uffici venivano occupati per
elezione o per nomina, dal re elettivo in giù, e poiché anche i sacerdoti delle
curie venivano eletti da queste curie stesse, possiamo ammettere la stessa cosa
per i capi (principes) delle gentes; per quanto potesse essere diventata
ormai regola nella gens lo sceglierli da una e medesima famiglia.
Queste erano le competenze di una gens romana. Ad eccezione del passaggio già
compiuto al diritto patriarcale, esse sono il riflesso fedele dei diritti e
doveri di una gens irochese; anche in questo caso «fa capolino in maniera
inequivocabile l'Irochese» (5).
Sulla confusione che domina oggi, anche tra i nostri storici più qualificati, circa
l'ordinamento della gens romana, citiamo un solo esempio. Nella dissertazione
del Mommsen sui nomi propri romani dell'età repubblicana e augustea (Römische
Forschungen, Ricerche romane, Berlino, 1864, I vol.) si legge:
«Oltre alla totalità dei membri di sesso maschile della stirpe, eccezione fatta
naturalmente per gli schiavi, ma con l'inclusione degli adottati e dei clienti,
il nome gentilizio spetta anche alle donne... La tribù (così Mommsen traduce
qui gens) è... una comunità, risultante da discendenza comune, sia essa reale o
supposta, o anche fittizia, unita dalla comunanza di feste, di sepoltura e di
eredità, e nella quale potevano e dovevano essere annoverati tutti gli
individui personalmente liberi, quindi anche le donne. Ma la difficoltà sorgeva
nel determinare il nome gentilizio delle donne sposate. Anche questa difficoltà
però non esistette finché la donna poté sposarsi soltanto con un membro della
sua gens: ed è provato che, per lungo tempo, le donne hanno trovato maggiore
difficoltà a contrarre nozze all'esterno della loro gens anziché all'interno di
essa, come poi, quel diritto, la gentis enuptio, ancora nel sesto
secolo, veniva accordato, a titolo di ricompensa, come privilegio personale...
ma, dove siffatti matrimoni esogamici avevano luogo, la donna, nei tempi più
antichi, doveva conseguentemente passare alla tribù del marito. Non vi è nulla
di più certo del fatto che la donna, con l'antico matrimonio religioso, entrava
a far parte completamente della comunità legale e sacrale del marito e usciva
dalla propria. Chi non sa che la donna sposata perde il diritto di successione
attivo e passivo nei confronti dei membri della sua gens, ma che per contro
entra in legame successorio col marito, coi figli ed in generale coi membri
della loro gens? E se essa è adottata dal proprio marito ed entra nella
famiglia di costui, come può restar estranea alla gens del marito? (pp. 911).»
Il Mommsen afferma dunque che le donne romane appartenenti ad una gens
avrebbero originariamente potuto sposarsi solo all'interno della loro gens;
sicché la gens romana sarebbe stata endogama, non esogama. Questo punto di
vista, che contraddice ogni esperienza fatta su altri popoli, si fonda
soprattutto, per non dire unicamente, su un solo passo assai controverso di
Livio (libro XXXIX, cap. 19), secondo il quale il senato, nell'anno 568 dalla
fondazione di Roma, 186 anni prima dell'era volgare, stabilì «uti Feceniae
Hispalae datio, deminutio, gentis enuptio, tutoris optio item esset quasi ei
vir testamento dedisset; utique ei ingenuo nubere liceret, neu quid ei qui eam
duxisset, ob id fraudi ignominiaeve esset». Fecenia Hispala cioè, poteva avere
il diritto di disporre del suo patrimonio, di intaccarlo, di sposarsi al di
fuori della gens, di scegliersi un tutore, proprio come se il (defunto) marito
le avesse lasciato questo diritto per testamento; essa poteva sposare un uomo
libero, e per colui che l'avesse presa in moglie, il matrimonio non sarebbe
stato considerato né un'azione riprovevole né un'infamia.
Senza dubbio a Fecenia, una liberta, viene attribuito il diritto di sposarsi
all'esterno della gens. E così pure, senza dubbio, secondo quanto abbiamo
detto, il marito aveva il diritto di trasmettere alla moglie per testamento il
diritto di sposarsi, dopo la sua morte, all'esterno della gens. Ma all'esterno
di quale gens?
Se la donna doveva contrarre matrimonio all'interno della sua gens, come
suppone il Mommsen, essa rimaneva in questa gens anche dopo le nozze. In primo
luogo, però, è da provare proprio questa asserita endogamia della gens. In
secondo luogo, se la donna doveva sposarsi nella gens, lo stesso doveva fare
anche l'uomo, il quale certamente non avrebbe altrimenti mai trovato moglie. E
allora veniamo a questa conclusione: che l'uomo poteva trasmettere per testamento
alla moglie un diritto che egli stesso non possedeva per sé; cadiamo in un
assurdo giuridico. Mommsen se ne accorge, e suppone perciò che «per il
matrimonio esterno alla schiatta era necessario, secondo il diritto, non solo
il consenso di chi aveva l'autorità di darlo, ma anche di tutti insieme i
membri della gens». Questa è in primo luogo una supposizione molto ardita, e in
secondo luogo è in contraddizione col chiaro significato letterale del passo. Invece
del marito, questo diritto glielo dà il senato, e glielo dà espressamente,
né più né meno come avrebbe potuto darglielo suo marito, ma quello che il
senato le offre è un diritto assoluto che non dipende da nessun'altra
limitazione; cosicché se lei ne fa uso, neanche il suo nuovo marito deve
patirne danno; il senato conferisce persino ai consoli e ai pretori, in carica
e futuri, il mandato di prendersi cura che la donna non ne venga in nessun modo
danneggiata. L'ipotesi di Mommsen appare perciò del tutto inammissibile.
Oppure: la donna sposava un uomo di un'altra gens, rimanendo pero, essa stessa,
nella gens in cui era nata. Allora, secondo il passo di cui sopra, il marito
avrebbe avuto il diritto di permetterle di contrarre nozze fuori della gens in
cui era nata; cioè, egli avrebbe avuto il diritto di disporre degli affari di
una gens a cui non apparteneva. La cosa è talmente assurda che non è il caso di
perdervi altre parole.
Rimane perciò soltanto l'ipotesi che la donna abbia sposato in prime nozze un
uomo di un'altra gens e sia entrata, con le nozze, senz'altro nella gens del
marito, come anche Mommsen effettivamente ammette per tali casi. Allora
l'intero nesso si spiega chiaramente. La donna, tolta dal matrimonio alla sua
antica gens e accolta nella nuova unione gentilizia del marito, ha in questa unione
una posizione del tutto particolare. È membro della gens, ma non ne è
consanguinea; il modo stesso della sua ammissione la esclude a priori da ogni
divieto di nozze all'interno della gens della quale, col matrimonio, è venuta
precisamente a far parte. Essa inoltre è accolta nella gens in virtù del suo
matrimonio, eredita alla morte del marito dal patrimonio di questo, e quindi
dal patrimonio di un membro della gens. Che cosa vi è di più naturale del fatto
che questo patrimonio rimanga nella gens e che quindi essa abbia il dovere di
sposare in seconde nozze un membro della stessa gens del suo primo marito e
nessun altro? E se una eccezione può esser fatta, chi può autorizzarla più di
colui che le ha lasciato questo patrimonio, cioè il suo primo marito?
Nell'istante in cui egli le lascia una parte del suo patrimonio e le consente
contemporaneamente di trasferirla, mediante matrimonio, o in seguito a
matrimonio, in una gens straniera, il patrimonio appartiene ancora a lui; egli
dispone dunque, letteralmente, solo della sua proprietà. Per quel che riguarda
la moglie stessa e i suoi rapporti con la gens del marito, è stato lui ad
introdurla in questa gens con un atto di libera volontà: il matrimonio. Appare
quindi egualmente naturale che egli sia la persona adatta ad autorizzarla ad
uscirne contraendo seconde nozze. In breve, la cosa appare semplice e
intuitiva, non appena lasciamo cadere l'idea strana dell'endogamia della gens
romana e, d'accordo con Morgan, la concepiamo come originariamente esogama.
Rimane ancora un'ultima ipotesi che ha trovato anch'essa i suoi sostenitori e
certo i più numerosi. Il passo di Livio proverebbe solo che: «serve affrancate
(libertae) non potevano, senza autorizzazione specifica, e gente
enubere (sposarsi al di fuori della gens) o altrimenti intraprendere atto
alcuno che, legato alla capitis deminutio minima (6),
avrebbe avuto come risultato l'uscita della liberta dall'unione gentilizia»
(Lange, Römische Altertümer (7), Berlino, 1856, I, p.
195), dove vien fatto riferimento allo Huschke a proposito del passo di Livio
da noi citato). Se questa ipotesi è giusta, il passo non prova assolutamente
nulla circa le condizioni delle Romane pienamente libere, e perciò non si può
assolutamente parlare di un loro obbligo di sposarsi all'interno della gens.
L'espressione enuptio gentis appare in questo solo passo, e al di fuori
di questo passo mai più in tutta la letteratura romana; il vocabolo enubere,
sposarsi fuori, ricorre solo tre volte, sempre in Livio (8)
e poi non in relazione alla gens. L'idea fantastica secondo cui le Romane
potevano sposarsi solo all'interno della loro gens deve a questo unico passo la
sua esistenza. Ma essa non può essere sostenuta in alcun modo. Infatti, o il
passo si riferisce a specifiche limitazioni particolari per le liberte, ma non
prova nulla per le donne libere (ingenuae), oppure vale anche per queste
ultime, e allora prova che la donna si sposava, di regola, fuori della sua
gens, ma passava con le nozze nella gens del marito. Quindi prova contro
Mommsen e a favore di Morgan.
Ancora quasi 300 anni dopo la fondazione di Roma i vincoli gentilizi erano così
forti che una gens patrizia, quella dei Fabi, con il consenso del senato, poté
intraprendere di propria iniziativa una spedizione militare contro la vicina
città di Vein. Si sarebbero messi in marcia, a quel che si dice, 306 Fabi, e in
un'imboscata furono tutti uccisi, tranne un solo giovinetto rimasto indietro,
il quale avrebbe perpetuato la gens (9).
Dieci gentes formavano, come dicemmo, una fratria, che a Roma si chiamava curia
ed aveva pubbliche attribuzioni più importanti di quelle della fratria greca.
Ogni curia aveva proprie pratiche religiose, propri luoghi sacri, propri
sacerdoti. Questi ultimi, nella loro totalità, formavano uno dei collegi
sacerdotali romani. Dieci curie formavano una tribù, che verosimilmente, come
le altre tribù latine, aveva in origine un capo elettivo, insieme capo militare
e sommo sacerdote. La totalità delle tre tribù formava il popolo romano, populus
romanus.
Al popolo romano poteva dunque appartenere solo chi fosse membro di una gens, e
per mezzo di essa di una curia e di una tribù. La prima costituzione di questo
popolo fu la seguente: i pubblici affari venivano all'inizio curati dal senato,
che, come il Niebuhr giustamente vide per primo, era composto dai capi delle
300 gentes; proprio per questo, essendo i più anziani delle gentes, si
chiamavano padri, patres, e tutti insieme, senato (consiglio degli
anziani, da senex = vecchio). La consuetudine di eleggere sempre dalla
stessa famiglia di ogni gens diede origine anche qui alla prima nobiltà
ereditaria; queste famiglie si chiamarono patrizie e pretesero il diritto
esclusivo di entrare nel senato e di occupare tutti gli uffici. Che il popolo
col tempo abbia accettato questa pretesa e che essa si sia mutata in un vero
diritto, la leggenda lo esprime narrando come Romolo abbia conferito ai primi
senatori ed ai loro discendenti il patriziato con i suoi privilegi.
Il senato, come la bulè ateniese, aveva voto decisivo in molti affari, e
preparava la deliberazione degli affari più importanti, specie a proposito di
nuove leggi. Queste venivano decise dall'assemblea popolare, i cosiddetti comitia
curiata (assemblea delle curie). II popolo si riuniva raggruppato in curie,
in ogni curia verosimilmente raggruppato per gentes. Per la deliberazione
ognuna delle trenta curie aveva un voto. L'assemblea delle curie accettava o respingeva
tutte le leggi, eleggeva tutti gli alti funzionari incluso il rex (il
cosiddetto re), dichiarava la guerra (ma il senato conchiudeva la pace) e
decideva, in qualità di tribunale supremo su appello degli interessati, in
tutti i casi in cui si trattava della condanna a morte di un cittadino romano.
Infine, accanto al senato e all'assemblea del popolo, vi era il rex che
corrispondeva precisamente al basilèus dei Greci e non era affatto un re quasi
assoluto come ce lo presenta il Mommsen (10). Anch'egli era
capo militare, sommo sacerdote e presiedeva certi tribunali. Non aveva alcuna
competenza civile o potere sulla vita, la libertà o la proprietà dei cittadini,
nella misura in cui questi poteri non sorgevano dal potere giudiziario ed
esecutivo di chi presiedeva il tribunale. La carica di rex non era ereditaria;
al contrario, il re, probabilmente dietro proposta del suo predecessore, veniva
in un primo tempo eletto dalla assemblea delle curie e poi, in una seconda
assemblea, solennemente insediato. Che egli potesse anche essere deposto lo
testimonia la sorte di Tarquinio il Superbo.
Come i Greci dell'età eroica, i Romani dei tempi dei cosiddetti re vivevano in
una democrazia militare fondata su gentes, fratrie e tribú, e sviluppatasi da
queste. Anche se le curie e le tribù erano in parte creazioni artificiose, esse
però erano formate secondo il genuino modello naturale della società dalla
quale provenivano e che le circondava ancora da tutti i lati. Anche se la
nobiltà patrizia originaria aveva già guadagnato terreno, ed i reges,
piano piano, cercavano di ampliare le loro competenze, tutto ciò non cambia
l'originario carattere fondamentale della costituzione, ed è questa la sola
cosa che conta.
Intanto la popolazione della città di Roma e del territorio romano, ampliato
dalle conquiste, aumentava parte per immigrazioni, parte per l'inclusione degli
abitanti dei distretti sottomessi, per lo più latini. Tutti questi nuovi
cittadini (la questione dei clienti lasciamola, per ora, da parte) vivevano al
di fuori delle antiche gentes, curie e tribù e non formavano, quindi, una parte
del populus romanus, del popolo romano vero e proprio. Erano
personalmente uomini liberi, potevano possedere proprietà fondiaria, dovevano
pagare le imposte e prestar servizio militare. Ma non potevano rivestire uffici
né prender parte all'assemblea delle curie, e neppure alla distribuzione delle
terre di Stato conquistate. Essi formavano la plebe, esclusa da tutti i
pubblici diritti. Per il costante aumento del loro numero, la loro formazione
militare e il loro armamento divennero una potenza minacciosa di fronte al
vecchio popolo, chiuso ormai ad ogni possibilità di accrescimento dall'esterno.
A ciò si aggiunse il fatto che il possesso fondiario era, sembra, distribuito
abbastanza uniformemente tra populus e plebs, mentre la ricchezza
mercantile ed industriale, d'altronde non ancora molto sviluppata, era
prevalentemente in mano della plebe.
Date le tenebre in cui è avvolta tutta la leggendaria storia delle origini di
Roma, tenebre molto infittite dai tentativi di spiegazione
razionalistico-pragmatici e dai resoconti dei più tardi studiosi di fonti dalla
mentalità giuridica, è impossibile dire qualcosa di preciso sul tempo, sul
corso o l'occasione della rivoluzione che pose fine all'antica costituzione
gentilizia. È solo certo che la sua causa risiede nelle lotte tra plebs e
populus.
La nuova costituzione, attribuita al rex Servio Tullio (11)
e poggiante su modelli greci e specialmente su Solone, creò una assemblea
popolare che, senza distinzione, includeva o escludeva popolo e plebe, a
seconda che prestavano o no servizio militare. L'insieme degli uomini che
dovevano prestare servizio militare fu diviso secondo il censo in sei classi. In
cinque di queste classi, il possesso minimo per ognuna era il seguente: 1)
100.000 assi; 2) 75.000; 3) 50.000; 4) 25.000; 5) 11.000; pari, secondo Dureau
de la Malle (12), all'incirca a 14.000, 10.500, 7.000, 3.600
e 1.570 marchi. La sesta classe, quella dei proletari, era composta dai meno
abbienti, esenti dal servizio militare e dalle imposte. Nella nuova assemblea
popolare delle centurie (comitia centuriata) i cittadini si presentavano
ordinati in compagnie, con le loro centurie di cento uomini, ed ogni centuria
disponeva di un voto. Ora, la prima classe dava 80 centurie, la seconda 22, la
terza 20, la quarta 22, la quinta 30, e, per decoro, anche la sesta ne dava
una. Si aggiungeva la cavalleria formata dai più ricchi, con 18 centurie. In
tutto dunque 193 centurie: maggioranza dei voti: 97. Ora, i cavalieri e la
prima classe, avevano insieme, da soli, 98 voti e quindi costituivano la
maggioranza; se erano d'accordo tra loro, la decisione definitiva veniva presa
senza che gli altri fossero neppure consultati.
A questa nuova assemblea delle centurie passarono ora tutti i diritti politici
della precedente assemblea delle curie (meno alcuni di carattere nominale). Le
curie e le gentes che le componevano vennero con ciò, come in Atene, degradate
a semplici sodalizi privati e religiosi, e come tali continuarono a vegetare
ancora assai a lungo, mentre l'assemblea delle curie non tardò a scomparire.
Per estromettere dallo Stato anche le antiche tre tribù gentilizie,
s'introdussero quattro tribù locali, ognuna delle quali occupava una quarta
parte della città, con una serie di diritti politici.
Così anche a Roma, già prima della soppressione della cosiddetta monarchia, fu
distrutto l'antico ordinamento sociale fondato su vincoli di sangue personali,
al suo posto subentrò una nuova, reale costituzione dello Stato, fondata sulla
divisione territoriale e sulla diversità di censo. Il potere pubblico era
costituito da quella parte di cittadinanza che doveva prestare servizio
militare, di fronte non soltanto agli schiavi, ma anche ai cosiddetti proletari
esclusi dal servizio militare e dal portare armi.
Nel quadro di questa nuova costituzione che venne ulteriormente sviluppata
soltanto con l'espulsione dell'ultimo rex Tarquinio il Superbo, il quale si era
arrogato un vero potere regio, e con la sostituzione del rex con due capi
militari (consoli) con uguale potere d'ufficio (come tra gli Irochesi); nel
quadro di questa costituzione si muove tutta la storia della repubblica romana
con tutte le sue lotte tra patrizi e plebei per l'accesso agli uffici pubblici
e la partecipazione alle terre statali, con la sparizione finale della nobiltà
patrizia, assorbita nella nuova classe dei grandi possessori di terreni e di
danaro che, gradatamente, incorporarono tutto il possesso fondiario dei
contadini rovinati dal servizio militare, fecero coltivare da schiavi gli
enormi latifondi così sorti, spopolarono l'Italia e con ciò aprirono le porte
non solo all'impero, ma anche ai suoi successori: ai barbari tedeschi.
Note:
1) Cfr. Livio, Storia romana, libro II, cap. 22 e
Svetonio, Vita di Tiberio, cap. l.
2) Publio Quintilio Varo, patrizio romano, fece carriera sotto
Augusto. Comandante dell'esercito del Reno, nell'anno 9 d.C., fu attaccato di
sorpresa nella foresta di Teutoburgo da Arminio, capo dei Cherusci, e
sconfitto; le sue tre legioni furono distrutte ed egli si uccise.
3) Appio Claudio, che appartenne al collegio dei decemviri (451
a.C.) e secondo una leggenda fu arrestato in seguito al suo odioso tentativo di
violenza ai danni di una fanciulla, Verginia. Qui Engels si riferisce a Livio, Storia
romana, libro III, cap. 58.
4) Per esempio in «Publio Quintilio Varo» il primo è il prenome
personale, il secondo il gentilizio (della gens Quintilia), il terzo il cognome
di famiglia.
5) Le pagine che seguono, fino al capoverso «Ancora quasi 300
anni ecc.», sono un'aggiunta della quarta edizione.
6) Perdita minima di capacità civile (era la cessazione
dell'appartenenza a una famiglia).
7) Antichità romane, di Christian Konrad Ludwig Lange
(1825-1885), dove si fa riferimento alla dissertazione di Georg Philip Eduard
Huschke (1801-1886), De privilegiis Feceniae Hispalae senatusconsulto
concessis (Liv. XXXIX, 19 - Sui privilegi concessi per senatusconsulto a F.
H. ecc.), Göttingen 1822.
8) Storia romana, IV, 4; X, 23; XXVI, 34.
9) L'episodio, narrato da Livio (II, 50) e da altri autori,
sarebbe avvenuto nel 477 a.C. presso il fiumicello Cremera. affluente del Tevere.
10) Il rex latino è il celto-irlandese righ (capo tribù)
ed il gotico reiks. Che questo nome, come originariamente anche il
nostro Fürst (cioè come l'inglese first, il danese forste: primo)
significasse capo di gens e di tribú, risulta dal fatto che i Goti, già nel IV
secolo, per indicare quello che più tardi si chiamerà re, il capo militare
dell'assemblea di un popolo, possedevano una parola speciale: thiudans.
Artaserse ed Erode, nella traduzione della Bibbia di Ulfila, non vengono mai
chiamati reiks, ma thiudans, e l'impero dell'imperatore Tiberio non già reiki,
ma thiudinassus. Nel nome del gotico thiudans, o, come traduciamo
imprecisamente, re Thiudareik, Teodorico, cioè Dietrich, le due denominazioni
confluiscono insieme [Nota di Engels].
11) ll sesto re di Roma, che secondo la tradizione regnò dal
578 al 535 a.C.; la costituzione a lui attribuita dovette essere introdotta in
età più tarda.
12) Economie
politique des Romains, Paris 1840, dello storico francese Adolphe Jules Cesar
Auguste Dureau De La Malle (1777-1857).