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Friedrich Engels: Anti-Dühring – [ Indice ]

 

Seconda Sezione: Economia

 

VIII. Capitale e plusvalore (conclusione)

 

"Secondo il modo di vedere di Marx il salario rappresenta solo il pagamento di quel tempo di lavoro in cui l'operaio è effettivamente attivo per rendere possibile la propria esistenza. Ora per questo è sufficiente un numero di ore alquanto piccolo; tutto il resto della giornata lavorativa, spesso molto prolungata, costituisce un'eccedenza nella quale è contenuto quello che dal nostro autore è chiamato "plusvalore" o, detto nella lingua comunemente corrente, l'utile del capitale. Prescindendo dal tempo di lavoro che in ogni grado della produzione è già contenuto nei mezzi di lavoro e nelle relative materie prime, quell'eccedenza della giornata lavorativa rappresenta la parte dell'imprenditore capitalista. Il prolungamento della giornata lavorativa costituisce perciò un guadagno di puro sfruttamento a beneficio del capitalista."

 

Secondo Dühring, quindi, il plusvalore di Marx non sarebbe altro che ciò che in linguaggio comunemente corrente si chiama utile del capitale o profitto. Ascoltiamo Marx stesso. A p. 195 del "Capitale" il plusvalore viene spiegato dalle parole che seguono questo termine in parentesi : "Interesse, profitto, rendita" [108]. A p. 210 Marx dà un esempio in cui una somma di plusvalore di 71 scellini appare nelle sue diverse forme distributive: decime, imposte statali e locali 21 scellini, rendita fondiaria 28 scellini, profitto e interesse del fittavolo 22 scellini, totale del plusvalore 71 scellini [109]. A p. 542 Marx dichiara che una delle più gravi lacune di Ricardo è il fatto che neppure lui "ha mai indagato il plusvalore come tale, ossia indipendentemente dalle sue forme particolari quali il profitto, la rendita fondiaria, ecc." [110], e che perciò confonde immediatamente le leggi del saggio sul plusvalore con le leggi sul saggio del profitto; per contro Marx annuncia:

 

"Dimostrerò più avanti, nel libro terzo, che, date determinate circostanze, uno stesso saggio del plusvalore può esprimersi in differentissimi saggi del profitto e che differenti saggi del plusvalore possono esprimersi in uno stesso saggio del profitto" [111].

 

A p. 587 si legge:

 

"Il capitalista che produce il plusvalore, cioè estrae direttamente dagli operai il lavoro non retribuito e lo fissa in merci, è si il primo ad appropriarsi questo plusvalore, ma non è affatto l'ultimo suo proprietario. Deve in un secondo tempo spartirlo con capitalisti che compiono altre funzioni nel complesso generale della produzione sociale, con i proprietari fondiari, ecc. Quindi il plusvalore si scinde in parti differenti. I suoi frammenti toccano a differenti categorie di persone e vengono ad avere forme differenti, autonome tra loro, come profitto, interesse, guadagno commerciale, rendita fondiaria, ecc. Queste forme trasmutate del plusvalore potranno essere trattate solo nel libro terzo" [112].

 

E parimenti in molti altri passi.

 

Non ci si può esprimere più chiaramente. In ogni occasione Marx richiama l'attenzione sul fatto che il suo plusvalore non deve affatto essere scambiato col profitto o utile del capitale e che quest'ultimo è invece una forma subordinata e molto spesso perfino solo un frammento del plusvalore. Se Dühring afferma tuttavia che il plusvalore di Marx "è detto nel linguaggio comunemente corrente, l'utile del capitale" e se è un fatto che tutto il libro di Marx si aggira intorno al plusvalore, solo due casi sono possibili: o non ne sa di più, e in questo caso deve avere una spudoratezza senza pari per attaccare un libro di cui ignora il contenuto essenziale. O ne sa di più, e allora commette una falsificazione intenzionale.

 

Proseguendo:

 

"L'odio velenoso che Marx nutre per questo modo di intendere lo sfruttamento è fin troppo comprensibile. Ma è possibile una collera più violenta e un riconoscimento ancora più pieno del carattere di sfruttamento che ha la forma economica fondata sul lavoro salariato, senza accettare per questo quella posizione teorica che si esprime nella teoria marxiana di un plusvalore".

 

L'espressione teorica di Marx, ricca di buone intenzioni, ma errata, gli è causa di un odio velenoso contro lo sfruttamento; la passione, in sé morale, riveste un'espressione immorale in conseguenza della "posizione teorica falsa" e si manifesta in ignobile odio e in bassa velenosità, mentre il procedimento scientifico definitivo e rigorosissimo di Dühring si estrinseca in una passione morale di natura adeguatamente nobile, in una collera che, anche nella sua collera, è moralmente e inoltre quantitativamente superiore all'odio velenoso, in una collera violenta. Mentre Dühring è intento a compiacersi di se stesso, vediamo da che cosa ha origine questa collera più violenta.

 

"Sorge in effetti", ci dice in seguito, "la questione del come gli imprenditori in concorrenza siano in condizione di realizzare durevolmente il pieno prodotto del lavoro, e con esso il plusprodotto, ad un valore che supera i costi naturali di produzione nella misura indicata nella proporzione dell'eccedenza delle ore di lavoro, cui abbiamo accennato. Una risposta a questa questione non si può trovare nella dottrina di Marx e precisamente per la semplice ragione che in questa dottrina non c'è neppure il posto dove porre la questione. Il carattere di lusso della produzione fondata sul lavoro assoldato non è affatto affrontato con serietà e l'ordinamento sociale, con le sue posizioni di spoliazione, non è stato riconosciuto in nessun modo come la ragione ultima della schiavitù bianca. Al contrario l'elemento politico-sociale ha sempre dovuto essere spiegato partendo dall'elemento economico."

 

Ma dai passi citati sopra abbiamo visto che Marx non afferma in nessun modo che il plusprodotto sia venduto in ogni circostanza e in media secondo il suo pieno valore dal capitalista industriale che è il primo ad appropriarselo, come qui suppone Dühring. Marx dice espressamente che anche l'utile commerciale costituisce una parte del plusvalore e questo, dati i presenti presupposti, è possibile solo nel caso il fabbricante venda al commerciante il suo prodotto al di sotto del suo valore e gli ceda così una parte del bottino. La questione come viene qui impostata non potrebbe invero trovar posto in Marx. Imposta razionalmente essa suona così: Come il plusvalore si trasforma nelle sue forme subordinate: profitto, interesse, utile commerciale, rendita fondiaria, ecc.? E questa questione invero Marx promette di risolverla nel terzo libro. Ma se Dühring non può aspettare che sia pubblicato il secondo volume del "Capitale" [59], dovrebbe frattanto cercare un po' più attentamente nel primo volume. Potrebbe allora, oltre ai passi già citati, leggere per es. a p. 323 che, secondo Marx, le leggi immanenti della produzione capitalistica agiscono nel movimento esterno dei capitali come leggi coercitive della concorrenza e che in questa forma si presentano alla coscienza del singolo capitalista come motivi determinanti; e che quindi un'analisi scientifica della concorrenza è possibile solo allorché si colga la natura interna del capitale, precisamente come il movimento apparente dei corpi celesti è intelligibile solo a colui che conosce il loro movimento reale, ma non percettibile sensibilmente; quindi Marx mostra con un esempio come una legge determinata, la legge del valore, si manifesti ed eserciti la sua forza motrice, in un caso determinato, nella concorrenza [113]. Dühring poteva già desumere da questo esempio che la concorrenza esercita una funzione capitale nella distribuzione del plusvalore, e con un po' di riflessione queste indicazioni, date nel primo volume, sono in realtà sufficienti per far conoscere, almeno nelle sue linee generali, la trasformazione del plusvalore nelle sue forme subordinate.

 

Per Dühring è invece proprio la concorrenza l'ostacolo assoluto alla comprensione di questo fenomeno. Egli non può comprendere come gli imprenditori in concorrenza possano realizzare durevolmente il pieno prodotto del lavoro, e con esso il plusprodotto, ad un valore tanto superiore ai costi naturali di produzione. Ci si esprime qui con quel naturale "rigore" che in effetti è trascuratezza. Per Marx, invero, il plusprodotto come tale non ha assolutamente nessun costo di produzione, è quella parte del prodotto che al capitalista non costa nulla. Se dunque gli imprenditori in concorrenza volessero realizzare il plusprodotto al valore dei costi naturali di produzione, dovrebbero regalarlo. Ma non fermiamoci a tali "particolarità micrologiche". In realtà gli imprenditori in concorrenza non realizzano giornalmente il prodotto del lavoro ad un valore superiore ai costi naturali di produzione? Per Dühring i costi naturali di produzione consistono "in erogazione di lavoro, ossia di forza, la quale erogazione a sua volta, nelle sue basi ultime, può essere misurata dalle spese alimentari"; quindi, nella società attuale, questi costi consistono in spese effettivamente erogate in materia prima, mezzi di lavoro e salario, a differenza del "tributo", del profitto, dell'aggiunta estorta con la spada in pugno. Ora è noto a tutti che nella società in cui viviamo gli imprenditori in concorrenza non realizzano le lo merci al valore dei loro costi naturali di produzione, ma vi caricano la pretesa aggiunta, il profitto, e di regola la ricevono anche. La questione che, come credeva Dühring, bastava porre per rovesciare con un soffio tutto l'edificio di Marx, come la buon'anima di Giosuè [113b] rovesciò le mura di Gerico, questa questione esiste dunque anche per la teoria economica di Dühring. Vediamo la sua risposta.

 

"La proprietà capitalistica", egli dice, "non ha alcun significato pratico se non si può realizzarne il valore e non si include in essa, ad un tempo, il potere indiretto sul materiale umano. Il prodotto di questa forza è il profitto del capitale e la grandezza di quest'ultimo dipenderà perciò dall'ambito e dall'intensità dell'esercizio di questo dominio (...) Il profitto del capitale è un'istituzione politica e sociale che agisce con più forza della concorrenza. Gli imprenditori sotto questo rapporto agiscono come ceto e ognuno singolarmente mantiene la propria posizione. Una certa misura di profitto del capitale è una necessità per il genere di economia dominante."

 

Purtroppo continuiamo ancora a non sapere in che modo gli imprenditori in concorrenza siano in condizione di valorizzare durevolmente il prodotto del lavoro al di sopra dei costi naturali di produzione. È impossibile che Dühring abbia una così bassa opinione del suo pubblico da pascerlo della frase che il profitto sia al di sopra della concorrenza come al suo tempo il re di Prussia era al di sopra della legge. Gli espedienti con cui il re di Prussia raggiunse la sua posizione al di sopra della legge ci sono noti; gli espedienti con cui il profitto del capitale arriva ad essere più forte della concorrenza, ecco precisamente ciò che Dühring ci deve spiegare e che ostinatamente si rifiuta di spiegarci. Neanche può avere qui nessuna importanza il fatto che, come egli dice, gli imprenditori agiscano sotto questo rapporto come ceto e che così ognuno singolarmente mantenga la propria posizione. Dobbiamo forse credergli sulla parola che sia sufficiente che un certo numero di persone agiscano come ceto, perché ognuno singolarmente mantenga la propria posizione? I membri delle corporazioni medievali, i nobili francesi del 1789, è noto, agivano molto decisamente come ceto, eppure andarono in rovine. Pure l'esercito prussiano a Jena [29] agiva come ceto, ma, invece di mantenere la sua posizione, dovette prendere la fuga e poi, perfino, capitolare a pezzi. Egualmente non può bastarci l'assicurazione che una certa misura di profitto del capitale sia una necessità per il genere di economia dominante: infatti si tratta precisamente di mostrare il perché di questo fatto. Non ci avviciniamo alla meta neanche di un passo allorché Dühring ci informa:

 

"Il dominio del capitale si è sviluppato in connessione col dominio del suolo. Una parte dei lavoratori agricoli servi si è trasformata nelle città in lavoratori dell'industria e finalmente in materiale di fabbrica. Dopo la rendita fondiaria si è formata, come una seconda forma della rendita del possesso, il profitto del capitale".

 

Anche prescindendo dall'insensatezza storica di quest'affermazione, essa rimane sempre una semplice affermazione e si limita ad asserire ripetutamente ciò che precisamente dovrebbe spiegare e dimostrare. Non possiamo quindi venire ad altra conclusione se non che Dühring è incapace di rispondere alla sua propria domanda: come gli imprenditori concorrenti siano in condizione di valorizzare durevolmente il prodotto del lavoro al di sopra dei costi naturali di produzione; cioè egli è incapace di spiegare l'origine del profitto. Altro non gli resta che decretare senza tante storie: il profitto del capitale è il prodotto della forza, il che certamente si accorda con l'art. 2 della costituzione dühringiana della società: la forza distribuisce. Certo tutto questo è detto molto bene, ma ora "sorge la questione": la forza distribuisce... che cosa? Deve esserci qualche cosa da distribuire, altrimenti anche la forza più onnipotente con la più grande buona volontà non potrebbe distribuire niente. Il profitto che gli imprenditori concorrenti si mettono in tasca è qualche cosa di molto tangibile e di molto concreto, la forza lo può prendere, ma non lo può produrre. E se Dühring si rifiuta ostinatamente di spiegarci in che modo la forza prende il profitto dell'imprenditore, ci offre solo un silenzio di tomba come risposta alla domanda da dove lo prende. Dove non c'è niente, l'imperatore, come ogni altro potere, perde il suo diritto. Da niente non nasce niente e specialmente non nasce profitto. Se la proprietà capitalistica non ha nessun significato pratico e non si può valorizzare sino a quando non vi sia egualmente incluso il potere indiretto sul materiale umano, immediatamente risorge la questione: in primo luogo come la ricchezza capitalistica abbia raggiunto questo potere, questione che non è affatto risolta con le poche asserzioni citate sopra; in secondo luogo come questo potere si trasformi in valorizzazione del capitale, del profitto; e in terzo luogo da dove essa prenda questo profitto.

 

Da qualunque parte prendiamo l'economia dühringiana non faremo un passo avanti. Per tutte le cose spiacevoli, profitto, rendita fondiaria, salari di fame, asservimento del lavoratore, essa ha una sola parola di spiegazione: la forza e sempre di nuovo la forza, e la "collera violenta" di Dühring si risolve egualmente in collera contro la forza. Abbiamo visto in primo luogo che questo appello alla forza è un vano sotterfugio, un rinvio dal campo dell'economia a quello della politica, che non è in grado di spiegare nessun singolo fatto economico; e in secondo luogo che lascia senza spiegazione l'origine della forza stessa, e ciò prudentemente perché altrimenti dovrebbe arrivare al risultato che ogni forza sociale e ogni potere politico hanno la loro origine in condizioni economiche preliminari, nei modi di produzione e di scambio, dati dalla storia della società in ogni periodo.

 

Vediamo tuttavia se ci sarà possibile strappare all'inesorabile "profondissimo fondatore" dell'economia qualche altra ulteriore delucidazione sul profitto. Forse ci riuscirà se affronteremo la sua trattazione del salario. A p. 158 ci si dice:

 

"Il salario è la paga per il mantenimento della forza-lavoro e deve esser considerato esclusivamente come base della rendita fondiaria e del profitto del capitale. Per intendere con assoluta chiarezza i rapporti esistenti in questo campo, si immagini la rendita fondiaria e ulteriormente anche il profitto del capitale nella loro prima apparizione nella storia, senza salario, quindi sulla base della schiavitù e della servitù (...) Che debba essere mantenuto lo schiavo o il servo o il lavoratore salariato, ciò determina una differenza solo nel modo e nella maniera in cui grava sui costi di produzione. In ogni caso l'utile netto ottenuto mediante l'utilizzazione della forza-lavoro, costituisce il reddito del datore di lavoro (...) Si vede dunque che (...) specificamente la contrapposizione fondamentale mediante la quale da una parte sta una specie qualsiasi di rendita del possesso e dall'altra il lavoro assoldato e privo di possesso non può cogliersi esclusivamente in uno dei membri di questa contrapposizione, ma in ogni caso solo e sempre in entrambi ad un tempo".

 

Ma rendita del possesso è, come apprendiamo a p. 188, una espressione comune per rendita fondiaria e profitto del capitale. Inoltre a p. 174 ci si dice:

 

"Il carattere del profitto del capitale è un'appropriazione della parte principale dell'utile della forza-lavoro. Il profitto del capitale è impensabile senza il correlativo del lavoro assoggettato direttamente o indirettamente in una forma qualsiasi".

 

E a p. 183:

Il salario "è in ogni caso null'altro che una paga per mezzo della quale devono essere assicurati in generale il mantenimento e la possibilità di riproduzione dell'operaio".

 

E finalmente a p. 195:

"La porzione spettante alla rendita fondiaria è necessariamente perduta per il salario e viceversa la porzione del generale rendimento (!) che tocca al lavoro deve essere sottratta ai redditi del possesso".

 

Dühring ci fa passare di sorpresa in sorpresa. Nella teoria del valore e nei capitoli seguenti sino alla dottrina della concorrenza inclusa, quindi da p. 1 a p. 155, i prezzi delle merci o valori si dividevano in primo luogo nei costi naturali di produzione o valore di produzione, cioè spese in materie prime, mezzi di lavoro e salario e, in secondo luogo, nell'aggiunta o valore di distribuzione, i tributi estorti con la spada in pugno a vantaggio della classe dei monopolisti; aggiunta che, come abbiamo visto, in realtà non poteva cambiare niente nella distribuzione della ricchezza, poiché doveva restituire con una mano quello che prendeva con l'altra e che inoltre, date le informazioni che Dühring ci fornisce sulla sua origine e sul suo contenuto, sorgeva dal nulla e perciò in nulla consisteva. Nei due capitoli seguenti che trattano delle specie del reddito, quindi da p. 156 a p. 217, non si parla più di aggiunta. Invece, il valore di ogni prodotto del lavoro, e quindi di ogni merce, si divide nelle seguenti parti: in primo luogo, in costi di produzione, in cui è compreso anche il salario pagato e, in secondo luogo, in "utile netto ottenuto mediante l'utilizzazione della forza-lavoro" e che costituisce il reddito del datore di lavoro. E questo utile netto ha una fisionomia assolutamente nota che nessun tatuaggio e nessuna verniciatura può nascondere. "Per intendere con assoluta chiarezza i rapporti esistenti in questo campo" il lettore immagini che i passi di Dühring or ora citati siano stampati di fronte a quelli precedentemente citati di Marx, riguardanti il pluslavoro, il plusprodotto, il plusvalore: trovate allora che alla sua maniera qui Dühring ha completamente copiato il "Capitale".

 

Il pluslavoro in qualsiasi forma, sia esso schiavitù, servitù o lavoro salariato, viene riconosciuto da Dühring come fonte di reddito di tutte le classi sinora dominanti: questo concetto è preso dal passo del "Capitale", p. 227, più volte riportato: il capitale non ha inventato il pluslavoro, ecc. [114]. E l'"utile netto", che costituisce "il reddito del datore di lavoro", che cosa è se non l'eccedenza del prodotto del lavoro sul salario, il quale ultimo, anche per Dühring, malgrado il suo superfluo travestimento in paga, deve assicurare in generale il mantenimento e la possibilità di riproduzione dell'operaio? Come può avvenire l'"appropriazione della parte principale dell'utile della forza-lavoro", se non per il fatto che il capitalista, come per Marx, spreme dall'operaio più lavoro di quello che è necessario per la riproduzione dei mezzi di sussistenza consumati da quest'ultimo, cioè per il fatto che il capitalista fa lavorare l'operaio più tempo di quanto non sia necessario per sostituire il valore del salario pagato all'operaio? Quindi prolungamento della giornata lavorativa al di là del tempo necessario per la riproduzione della sussistenza dell'operaio: il pluslavoro di Marx; questo e nient'altro è ciò che si cela dietro l'"utilizzazione della forza-lavoro" di Dühring. E il suo "utile netto", del datore di lavoro, in che cos'altro può essere rappresentato se non nel plusprodotto e nel plusvalore di Marx? E che cos'altro se non la sua inesatta formulazione distingue la rendita del possesso di Dühring dal plusvalore di Marx? Del resto il nome "rendita del possesso" Dühring lo ha preso a prestito da Rodbertus, il quale, nella sola espressione rendita, già aveva riunito la rendita fondiaria e la rendita del capitale o profitto del capitale, di guisa che Dühring non ha avuto che da aggiungere la parola: "possesso" [*6]. E perché non rimanga nessun dubbio sul plagio, Dühring riassume alla sua maniera le leggi sulle variazioni di grandezza del prezzo della forza-lavoro e del plusvalore, esposte da Marx nel XV capitolo (p. 539 e sgg. Del "Capitale") [115], dicendo che la porzione che tocca alla rendita del possesso va perduta per il salario e viceversa e riduce così ad una vuota tautologia le leggi singole, così ricche di contenuto, formulate da Marx; infatti è evidente per se stesso che se una grandezza data si divide in due parti, l'una di queste parti non può crescere senza che l'altra diminuisca. E così è riuscito a Dühring di appropriarsi le idee di Marx in una maniera in cui va completamente perduto il "procedimento scientifico definitivo e rigoroso nel senso in cui è inteso dalle scienze esatte" che si trova certamente nell'esposizione di Marx.

 

Non possiamo quindi fare a meno di ammettere che il terribile baccano che Dühring fa nella "Storia critica" a proposito del "Capitale", e specialmente la polvere che solleva con la famosa questione a cui il plusvalore dà origine e che meglio avrebbe fatto a non porre, dato che egli stesso non sa rispondere; che tutte queste cose sono solo astuzie di guerra, abili espedienti per nascondere il plagio grossolano che delle idee di Marx egli commette nel suo "Corso". Dühring aveva in effetti tutte le ragioni di mettere in guardia i suoi lettori dall'occuparsi "di quel groviglio che Marx chiama capitale", di metterli in guardia contro i prodotti bastardi di fantasie storiche e logiche, contro le confuse, nebulose idee e le fandonie hegeliane, ecc. La Venere contro cui questo fedele Eckart mette in guardia la gioventù tedesca, era andato egli stesso a prenderla dalle riserve di Marx e l'aveva silenziosamente portata al sicuro per proprio uso e consumo. Congratuliamoci con lui per questo utile netto ottenuto mediante l'utilizzazione della forza-lavoro di Marx e per la luce particolare che la sua appropriazione del plusvalore di Marx sotto il nome di rendita del possesso getta sui motivi della sua falsa affermazione, ostinata perché ripetuta in due edizioni, che Marx intenda per plusvalore solo il profitto o utile del capitale.

 

"Secondo il modo di vedere di" Dühring "il salario rappresenta solamente il pagamento di quel tempo di lavoro in cui l'operaio è effettivamente attivo per rendere possibile la propria esistenza. Ora per questo è sufficiente un numero di ore alquanto piccolo; tutto il resto della giornata lavorativa, spesso molto prolungata, fornisce spesso un'eccedenza nella quale è contenuta quella che dal nostro autore viene chiamata" rendita del possesso. " Prescindendo dal tempo di lavoro che in ogni grado della produzione è già contenuto nei mezzi di lavoro e nelle relative materie prime, quell'eccedenza della giornata lavorativa rappresenta la parte dell'imprenditore capitalista. Il prolungamento della giornata lavorativa costituisce perciò un guadagno di puro sfruttamento a beneficio del capitalista. L'odio velenoso che" Dühring "nutre per questo modo di intendere lo sfruttamento è fin troppo comprensibile...".

 

Meno comprensibile è invece come egli possa ora arrivare alla sua "collera più violenta".

 

 

Note

 

108. Ibid., p. 239, nota 22.

 

109. Ibid., p. 253.

 

110. Ibid., p. 572.

 

111. Ibid.

 

112. Ibid., pp. 621-622.

 

59. Nella prefazione (25 luglio 1867) alla prima edizione del "Capitale" Marx scrisse: "Il secondo volume di questo scritto tratterà il processo di circolazione del capitale (libro II), e le formazioni del processo complessivo (libro III); il volume terzo, conclusivo (libro IV) tratterà la storia della teoria". Dopo la morte di Marx, Engels pubblicò i libri II e III come secondo e terzo volume. Egli non arrivò a pubblicare l'ultimo libro, il IV ("Teorie sul plusvalore").

 

113. Ibid., pp. 355-356

 

113b.Giosuè (cui la Bibbia dedica un intero libro) fu successore di Mosè nella reggenza di Israele attorno al XIII secolo a.C. Guidò la conquista della Palestina. "Miracolosa" la sua vittoria a Gerico.

 

29. Ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, truppe russe e austriache si scontrarono con le truppe francesi di Napoleone, che riportò la vittoria. La battaglia di Jena, combattuta il 14 ottobre 1806 tra l'esercito francese di Napoleone e le truppe prussiane, si concluse con la disfatta di queste ultime e portò alla capitolazione della Prussia. La battaglia di Königgrätz, il 3 luglio 1866, decise la vittoria della Prussia nella guerra austro-prussiana; à ricordata anche come battaglia di Sedowa. Nella battaglia di Sedan il 1° e il 2 settembre 1870, scontro decisivo della guerra franco-tedesca del 1870-71, le truppe tedesche sconfissero l'esercito francese di Mac-Mahon e lo costrinsero alla capitolazione.

 

114. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., p. 269.

 

*6. E neanche questo. Rodbertus dice ("Lettere sociali", 2a lettera, p.59): "Secondo questa" (sua) "teoria è rendita ogni reddito che viene percepito senza lavoro proprio, unicamente in base ad un possesso".

 

115. K. Marx, "Il Capitale", I, trad. it. cit., pp. 567 e sgg.

 

 

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